venerdì 20 novembre 2015

Le religioni sono sistemi di guarigione per i mali della psiche

Perché ho trovato troppo spesso storpiata intenzionatamente questa citazione di Jung, e messa in una chiave molto sempliciotta e banale:

"Freud ha completamente trascurato il fatto che l'uomo non ha potuto ancora cavarsela da solo con le potenze degli Inferi, cioè dell'inconscio, e che ha dovuto sempre ricorrere all'aiuto spirituale fornitogli dalla sua religione particolare. La scoperta dell'inconscio comporta l'esplosione di un grande dolore spirituale, è come se una fiorente civiltà fosse abbandonata all'irrompere di orde barbariche o se la rottura delle dighe esponesse una fertile pianura alla furia di un torrente tumultuoso. La guerra mondiale fu una simile irruzione che, come null'altro potrebbe fare, mostra quanto sia sottile  il muro che divide un mondo ordinato dal caos eternamente in agguato.
Ma cosi avviene in ogni individuo: dietro il suo mondo razionalmente ordinato, una natura oltraggiata dalla ragione attende, assettata di vendetta, la caduta del muro divisorio, per traboccare, devastandola nella vita cosciente.. Fin dai tempi originari e più primitivi l'uomo è consapevole di questo pericolo, del pericolo che corre la psiche; e con le pratiche magico religiose si è protetto  da quella minaccia o ha guarito i mali psichici che lo hanno colpito. Perciò lo stregone è sempre anche sacerdote, guaritore del corpo e dell'anima, e LE RELIGIONI SONO GUARIGGIONI PER I MALI DELLA PSICHE. Questo vale in particolare per le due più grandi religioni dell'umanità, il cristianesimo e il buddhismo. L'uomo sofferente non trova mai aiuto nelle proprie elucubrazioni, ma soltanto nella verità sovrumana, rivelata, che lo solleva dalla sua dolorosa condizione" (Jung-Psicotrerapia e cura d'anima)

 

lunedì 28 settembre 2015

Fiabe delle fate, Contessa de Ségur (lavoro in corso)




Orsetto



I. Il rospo e l’usignolo

C’era una volta, vicino al bosco una graziosa masseria chiamata Masseria del Bosco..
La bella massaia si chiamava Agnella e viveva sola nella sua fattoria insieme alla giovane Malvarosa che la aiutava nei lavori di casa. Mai nessuno veniva a trovarle e neanche loro andavano via di casa se non al mercato.
La masseria era piccolina, carina e pulita. Vi era anche una bella mucca bianca che dava latte in abbondanza, un gatto che mangiava i topi, e un asino. L’asino portava ogni martedì al mercato del paesino vicino la verdura, la frutta, il burro, le uova, i formaggi che Agnella vendeva per poter vivere.
Nessuno poteva dire quando Agnella e Malvarosa erano arrivate a questa masseria fino allora sconosciuta.
Una sera Malvarosa mungeva la mucca mentre Agnella preparava la cena. Quando sta per mettere sul tavolo la pentola fummante con una buona zuppa di verza e un vasetto di panna acida vide un grosso rospo che divorava con avidità delle ciliegie che si trovavano su una grande foglia di vite messa per terra.
“Rospo schifoso!” gridò Agnella “ Te la faccio io vedere a venire qui a mangiare le mie belle ciliege!”
Nello stesso tempo alzo la foglia di vite sulla quale stavano le ciliegie , diede un calcio al rospo facendolo rotolare dieci metri. Stava per buttarlo fuori quando il rospo emise un fischio acuto, si alzo sui suoi piedi posteriori con gli occhi in fiamme , la bocca aperta fremeva dalla rabbia, tutto il suo corpo fremeva e dalla sua gola si sentì un gracidio orribile .
Agnella si fermò spaventata, fecce un passo indietro per evitare il veleno di questa bestia mostruosa e agitata. Cercava nei dintorni una scopa per buttarlo fuori ma il rospo avanzo verso di lei un passo con atteggiamento minaccioso e disse con voce rauca fremente di rabbia:
“Hai osato darmi un calcio, mi hai impedito di mangiare le tue ciliege, e volevi cacciarmi dalla tua casa. La mia vendetta ti raggiungerà in ciò che hai più caro. Allora capirai che non si può oltraggiare impunemente la fata Rabbiosa! Partorirai un figlio coperto con pelliccia d’orso e …”
“Fermati sorella!” si sentì dall’alto una voce dolce e melodiosa. Agnella alzò la testa e vide un usignolo seduto sopra la porta d’entrata. “Ti vendichi in maniera troppo crudele di un oltraggio dovuto non a te in quanto fata ma all’aspetto brutto e sporco che da sola hai scelto. In quanto io possiedo un potere superiore al tuo ti impedisco di aggravare i danni che hai già combinato anche se non sta in mio potere di cancellarli. Tu, povera madre” disse rivolgendosi ad Agnella “non disperare, ci sarà un rimedio alla difformità del tuo figlio. Io gli dono la possibilità di cambiare la pelle con la persona che, portata da sincera riconoscenza avrà la magnanimità di accettare questo cambio. Lui ritornerà allora cosi bello come fosse stato se la mia sorella Rabbiosa non avesse dimostrato il suo brutto carattere.
“Oh Signora Usignolo, La ringrazio per la sua bontà, ma questa non impedirà al mio povero figlio di essere orrendo e simile a una bestia”

“Questo è vero” disse la fata Giocosa “ anche perché né a te né a Malvarosa è permesso di cambiare pelle con lui. Ma io non vi abbandonerò e non abbandonerò neanche il vostro figlio! Lo chiamerete Orsetto fino al giorno in cui potrà riprendere il suo vero nome degno della sua nascita e della sua bellezza: Il Principe Meraviglioso”
Dicendo queste parole la fata scomparve, volando via.
La fata Rabbiosa si ritirò piena di veleno, col passo pesante volgendosi indietro ad ogni passo per guardare Agnella con un’aria irritata. Spruzzava veleno su tuto il suo tragitto cosi che fece seccare l’erba, le piante e gli arbusti che si trovavano sulla sua strada. Il suo veleno era cosi potente che là l’erba non crebbe giammai e ancor oggi si chiama il sentiero della fata Rabbiosa.
Una volta rimasta sola Agnella scoppio in un pianto con singhiozzi. Malvarosa che aveva finito il suo lavoro e finché s’ avvicinava l’ora della cena entrò in casa e scopri sgomenta che la padrona piangeva,
“Mia cara regina, cos’è successo? Chi mai ti ha fatto soffrire? Non ho visto nessuno entrare in casa”
“Nessuno mia cara figliuola, è entrato solo chi può entrare dovunque: una fata malvagia con le sembianze di rospo, e una fata buona sotto le sembianze di un usignolo”
“E che cosa ha detto questa fata che L’ha fatta piangere? La fata buona non ha impedito a quella malvagia di farLe del male?”
“Non figliuola, ha attenuato un po’ la maledizione ma non ha potuto cancellarla”
Agnella raccontò a Malvarosa per filo e per segno tutto ciò che era successo e le disse che partorirà un figlio coperto di pelliccia d’orso.
Sentendo tutto questo Malvarosa pianse insieme alla sua padrona:
“Che disgrazia!” esclamò ella “Che vergogna per l’erede di un cosi bel regno che sia orso! Cosa dirà il vostro marito, re Feroce se giammai ci ritroverà?”
“Ma come potrebbe ritrovarci Malvarosa? Tu sai che dopo la nostra fuga ci sollevò in aria un turbine che ci fece girare per dodici ore, buttandoci da una nuvola all’altra con grande velocità, quindi dobbiamo essere a più di tremila miglia dal regno di Feroce. Infatti tu conosci quanto sia vendicativo e quanto mi odia dopo che gli avevo impedito di uccidere il suo fratello Indolente e la sua cognata Nonchalance. Sai bene che siamo fuggite solo perché egli voleva uccidere pure me però io non temo che ci possa ritrovare.
Malvarosa, dopo che pianse per un po’ con la sua regina Amada (questo era il suo vero nome), la invitò a mettersi alla tavola.
“Anche se piangessimo tutta la notte tanto non possiamo impedire ormai che il Suo figlio nasca coperto di pelliccia; ma ci impegneremo di tirarlo su cosi bene che grazie alla sua bontà troverà presto una buonanima disponibile di cambiare sembianze con lui, cosi tornerà alla sua vera pelle bianca e non vivrà a lungo con la pelliccia d’orso che gli ha dato la fata Rabbiosa. Bel regalo posso dire! Sarebbe stato meglio se l’avesse tenuto per sé!
La regina, che noi continueremo di chiamare Agnella per non svegliare il sospetto di re Feroce, si alzò lentamente, si asciugò le lacrime e provò a vincere la sua tristezza.; pian pianino la fiducia e l’ottimismo di Malvarosa acquetarono la tensione. Prima che finisse la serata, Malvarosa aveva già convinto Agnella che Orsetto non resterà per lungo tempo con le sembianze d’orso, che ritornerà presto alle sembianze principesche: che, se la fata accettasse, anche lei sarebbe disponibile di fare il cambio.
Agnella e Malvarosa andarono tranquille a dormire.


II. La nascita e l’infanzia di Orsetto

Tre mesi dopo la comparsa del rospo e del sinistro malaugurio della fata Rabbiosa , Agnella diede alla luce un maschietto. Gli diede il nome Orsetto seguendo gli ordini della fata Giocosa. Né lei , né Malvarosa potevano dire se il bimbo è bello o brutto in quanto tutto il suo copro era coperto da una folta pelliccia bruna e gli si vedevano solo gli occhi e la bocca, anche quelli si vedevano solo quando li apriva. Se Agnella non fosse stata la sua madre, e se Malvarosa non avesse amato Agnella come una sorella, povero Orsetto sarebbe morto di fame perché era cosi inquietante che nessuna persona l’avrebbe mai toccato; l’avrebbero preso per un piccolo orso e l’avrebbero cacciato via con la forca. Ma Agnella era la sua madre e il primo gesto che fece fu di abbracciarlo tra le lacrime.
“Povero Orsetto! Chi mai potrà amarti cosi tanto da liberarti da questa orribile pelliccia. Uffa! Perché non posso fare io il cambio che la fata buona aveva permesso a chi t’amerà? Nessuno riuscirà ad amarti come me!”
Orsetto non rispose, perché dormiva.
Malvarosa pianse pure lei tanto per tenere compagnia ad Agnella ma non aveva l’abitudine di affliggersi lungamente quindi si asciugò le lacrime e disse:
“Cara mia regina, sono talmente convinta che il vostro figlio non terrà per lungo tempo questa brutta pelliccia d’orso che io lo chiamerò già da oggi il principe Meraviglioso.”
“Fermati figlia mia” replicò decisa la regina “Alle fate piace essere obbedite”
Malvarosa prese il bimbo, lo avvolse nelle fasce che avevano preparato, e si abbasso per baciarlo ma si punse le labbra con i peli irsuti di Orsetto.
“Non ti bacerò troppo spesso figlio mio” sussurrò a bassa voce “Pungi come un riccio”
Il bimbo fu affidato a Malvarosa . Di orso aveva solo la pelliccia: oltre ciò era il bambino più dolce, saggio, affettuoso che avevano mai conosciuto. Quindi anche Malvarosa lo amava teneramente.
In misura in cui Orsetto cresceva gli permettevano di allontanarsi dalla fattoria; non correva alcun pericolo perché nel paese lo conoscevano: i bambini scappavano via da lui, le donne ne avevano schifo, gli uomini lo evitavano, lo consideravano un essere maledetto. Qualche volta quando Agnella andava al mercato, lo metteva in groppa all’asinello e lo portava con se. In quei giorni faceva più fatica a vendere la frutta e i formaggi; le madri scappavano via per paura che l’orsetto non le avvicini. Agnella piangeva spesso, chiamando invano la fata Giocosa; la speranza rinasceva nel suo cuore ogni volta che vedeva un usignolo volteggiarle vicino, ma quel’ usignolo era solamente un’ usignolo (da mangiare) e non una fata.



III.               Violetta
Orsetto aveva compiuto otto anni, egli era altro, grande e forte, aveva dei begli occhi, una voce dolce, la su pelliccia non pungeva più quando era baciato, come aveva punto Malvarosa appena nato, oramai era come toccare  un velluto . Amava con tenerezza la mamma e  Malvarosa. Si rendeva conto che è sgradevole, vedeva che nessuno si avvicina a lui come di altri bambini. Non di rado era troste e solitario.

Un bel giorno Orsetto si faceva una passeggiata nel bel bosco vicino alla masseria. Aveva già camminato tanto, era stordito dal caldo del suole cocente e cercò un posto ombroso e fresco per riposare quando osservò a una decina di passi di lui qualcosa di bianco. Si avvicinò delicatamente/con prudenza e vide che era una piccola bimba che dormiva. Sembrava di non avere più di tre anni, era bella come un angelo. I suoi boccoli biondi coprivano in parte il suo collo fine bianco. Sulle sue guance rose e rotonde si vedevano due fossette  giacché sorrideva dolcemente in sonno con le labbra leggermente schiuse che lasciavano vedere dentini come le perline. La sua dolce testolina poggiava su un bracino e una manina altrettanto teneri. L'intera immagine era talmente incantevole che Orsetto restò con la bocca aperta/ immobile per l'ammirazione/ non riuscì a smettere di ammirarla/guardarla. La guardava e si chiedeva come mai quella bimba dorme cosi tranquilla nella foresta come se fosse accasa nel suo proprio lettino.  Il vestito di lei era cosi bello e raffinato come Orsetto non aveva mai visto in vita sua. Era un vestitino tutta di seta bianca ricamata con filo d'oro. Le scarpette ..? le calzine erano ugualmente fatte di un velo di seta finissimo. Portava poi dei braccialetti d'oro finissimi che si chiudevano con un medaglino in forma di cuore, che sembrava velare un ritratto. Al collo portava un collier di perle. Un usignolo si mise a cantare sopra la sua testa e la sveglio. La bimba aprì gli occhi, si guardò intorno, chiamò la sua tata poi capendo che si trova sola nella foresta si mise a piangere.
Orsetto si sentì molto imbarazzato dalle sue lacrime.
"Se mi vede, povera bimba potrebbe pensare che sono un'animale selvatico, potrebbe scappare via e smarrirsi. Ma se la lascio qua morirà di inedia e di paura. Mentre meditava lui cosi la bimba lo vide, lanciò un grido di paura volle scappare via ma inciampò e cadde inorridita.
"Non scappare di me piccolina, disse Orsetto con la sua voce calda, triste e carezzevole. Io non ti farò nulla di male, proprio al contrario, potrei aiutarti a ritrovare i tuoi genitori. La bimba lo guardava con degli occhi grandi e spaventati, impietrita di paura.
"Raccontami cara cosa ti è successo. Non aver paura di me. Non sono io un mostro/orso, sono solo un ragazzo sfortunato da chi scappano via tutti"
La paura dagli occhi della bimba sembrava affievolirsi, era più tranquilla ma era ancora indecisa se fidarsi o non.
Orsetto fece un passo verso di lei, allora purtroppo la paura di lei prese il sopravento, lanciò un grido acuto e cercava di scappare via.
Orsetto si fermò e si mise a piangere pure lui.
"Ma quanto sono io disgraziato!" esclamò "non riesco nemmeno di venire in soccorso di questo povero bimbo smarrito abbandonato. Il mio aspetto la riempie di terrore, e preferisce piuttosto l'abbandono  che la mia presenza!"disse e si gettò a terra piangendo con i singhiozzi.
Ben presto senti come una piccola manina cerca la sua mano. Alzò lo sguardo e vide il bambino dinanzi a se con gli occhi pieni di lacrime. Lei carezzò le guance vellutate del povero Orsetto.
"Orsetto non piangere, non piangere più! Violetta non ha più paura. Violetta vuol bene a povero Orsetto. Orsetto prende la mano di Violetta. Se povero Orsetto piange Violetta bacia povero Orsetto.
Le lacrime di disperazione di Orsetto si trasformarono in lacrime di gioia e tenerezza. Violetta quando lo vide lacrimare ancora, si avvicinò le dolci labbra alle guance vellutate di Orsetto e lo baciò e tra i baci disse:
"Vedi Orsetto, Violetta non  ha paura; Violetta bacia Orsetto. Orsetto non mangia Violetta. Violetta viene con Orsetto"
Orsetto avrebbe voluto stringere fra le braccia quella tenera e dolce creatura (bambina) che confisse la sua propria paura per venirgli incontro e voleva dargli tanti baci ma temeva che potrebbe spaventarlo. "Potrebbe pensare che voglio divorarla!" Si accontentò quindi di stringergli la mano e baciarla delicatamente. Violetta lo lasciò fare sorridendo.
"Il piccolo orso è felice/contento? Il piccolo orso vuol bene a Violetta? Povera Violetta! Perduta!"
Orsetto aveva capito che la bimba si chiama Violetta, ma non capiva bene come mai una bimba vestita cosi bene si trovi sola soletta nella foresta.
"Dov'è la tua casa/dove abiti cara Violetta?"
"Là-giù, là-giù, da mamma e da papà"
"Come si chiama il tuo papà?"
"Papà si chiama re e mamma si chiama regina"
Orsetto sempre più sgomento chiese:
"Come mai ti trovi sola soletta nella foresta?"
"Violetta non lo sa! Violetta è salita su l cane grosso. Cane grosso corri per lungo tempo veloce, Violetta stanca, caduta, addormentata.
"E il cane ora dov'è?"
Violetta si girò in tutte le direzioni chiamando "Ami! Ami!" ma alcun cane gli rispose.
"Il cane è andato. Violetta sola soletta"
Orsetto prese la mano di Violetta. Ella gli sorrise.
"Vuoi cara Violetta ch'io vada a cercare la tua mamma?"
"Violetta non restare sola nella foresta. Violetta andare col piccolo orso"
"Allora vieni con me cara piccolina, ti porterò alla mia mamma nella nostra casa"
Violetta e Orsetto partirono per la fattoria. Sulla strada Orsetto coglieva fragoline di bosco e ciliegie per Violetta, che lei invece voleva condividerle con Orsetto. Gli portava con le sue manine le fragoline e le ciliegie in bocca (di lui) dicendo: "Mangia, mangia piccolo  orso. Violetta non mangia se Orsetto non mangia. Violetta non vuole che Orsetto sia triste, non  far piangere Orsetto." E Lo misurava con attenzione per vedere se era triste o felice.
Era proprio contento Orsetto ora che la sua piccola compagna non solo che non aveva paura di lui ma cercava anche di piacergli. Nei suoi occhi scintillava la vera felicità. La sua voce, sempre cosi carezzevole prese una nota ancora di tenerezza in più. Dopo un mezz'ora di cammino chiese:
"Quindi Violetta non ha più paura di Orsetto?" A mo' di risposta Violetta si buttò fra le sue braccia e lui la abbracciò teneramente "Cara Violetta, ti amerò per sempre. Non dimenticherò mai che sei stato l'unico bambino che non hai esitato  di parlarmi, di toccarmi, di abbracciarmi.
Poco dopo giunsero alla masseria. Agnella e Malvarosa stavano sedute alla porta e discutevano. Furono talmente sorprese alla vista di Orsetto che portava per la mano una bella bimba vestita in maniera principesca che nessuna di loro riuscì a proferire parola.
"Cara mammina" disse Orsetto "Guarda, ho trovato questa bimba dolce e affascinante addormentata  nella foresta. Ella si chiama Violetta. Vi rassicuro che è talmente gentile/dolce/buona che non ha avuto paura di me, anzi mi ha perfino baciato quando mi ha visto piangere" "Ma perché mai piangevi caro mio figlio?" chiese Agnella
"Perché la piccola bimba aveva paura di me" rispose Orsetto con voce triste e tremante/soffocata
"Ma ora" disse la piccina "Violetta non ha più paura, Violetta prende la mano di Orsetto e gli da fragoline da mangiare.
"Non capisco niente" disse Malvarosa "Orsetto spiegami chi è questa bambina che la porti qua? Perché mai è sola?"
"Non so nemmeno io più di voi" rispose Orsetto "Ho visto questa povera piccina tutta sola dormendo nella foresta. Si è svegliata, ha pianto, mi ha visto, si è spaventata. Gli ho parlato, volevo avvicinarmi, allora urlava più forte, mi dispiacque tanto di non poter nemmeno aiutarla, cosi ho pianto per dolore"
"Non dirlo Orsetto, non dirlo" disse Violetta premendo la sua manina sulla bocca di Orsetto. "Non ti farò piangere mai e poi mai più" e mentre parlava la sua voce divenne tremante e gli occhi gli si riempirono di lacrime.
"Cara bimba" disse Agnella abbracciandola "Tu vorrai bene al mio Orsetto che è cosi sfortunato?"
"Oh, si, Violetta amare tanto Orsetto, Violetta per sempre con Orsetto.
Agnella e Malvarosa fecero un sacco di domande alla piccina. Chiesero dei suoi genitori, del suo villaggio ma non riuscirono a sapere più di quanto Orsetto sapeva già. Il padre della bimba si chiamava re, la madre regina e lei non sapeva spiegare bene come che si trovava da sola nella foresta.
Agnella prese senza pensarci troppo sotto la sua protezione questa povera bimba smarrita; le voleva bene già per il semplice fatto che la piccola sembrava era cosi affezionata a Orsetto e per la felicità che provava Orsetto ora che era ben voluto anche da un'altra persona che non fosse la sua madre o Malvarosa.
Era l'ora della cena e Malvarosa apparecchiava la tavola. Violetta chiese di potersi sedere alla tavola vicino ad Orsetto, era gioviale, chiacchierava e rideva. Orsetto non è stato mai cosi felice. Agnella era contenta. Malvarosa saltava di gioia vedendo che il suo caro Orsetto ha una compagna di gioco. Nella sua gioia per errore fecce cadere un barattolo di panna. Ma venne un gatto che aspettava il suo poasto venne e lecco la panna fino alla ultima goccia.
Dopo la cena Violetta s'addormento sulla sua sedia.
"Non abbiamo un lettino per lei" disse Agnella "Dove possiamo metterla a dormire?"
"Cara mamina, mettetela per favore nel mio letto" disse Orsetto "Io dormirò cosi bene anche nella stalla"
Agnella e Malvarosa non vollero sentir nemmeno, ma Orsetto insistete cosi tanto di poter fare questo piccolo sacrificio che alla fine gli concessero. Quindi Malvarosa portò la piccola Violetta nel letto di Orsetto vicino al letto di Agnella, la svestì curando di non svegliarla e la mise a dormire. Orsetto si coricò nella stalla sul fieno, e crollo in un dolce e contento sonno.
Quando Malvarosa tornò nella sala trovò Agnella preoccupata e pensierosa.
"Che pensieri vi appesantiscono cara mia regina?" chiese Malvarosa "I vostri occhi sono mesti, le vostre labbra non sorridono più! E io che sono venuta a farvi vedere il braccialetto della piccina. C'è un medaglione che dovrebbe aprirsi ma io non ci riesco. Magari troviamo dentro una foto o un nome"
"Dami cara qua sto bel braccialetto.  Forse mi aiuterà a trovare qualche somiglianza visto che i miei ricordi sono vaghi/confusi, invano mi sforzo a vederceli più distintamente"
Agnella prese il medaglione, la girò da tutte le parti ma non fu più brava di Malvarosa, non riuscì ad aprirla. Rinunciò e ridiede il braccialetto a Malvarosa. In quell'istante nel bel mezzo della stanza apparve una donna che splendeva come un sole. Il suo viso era di un bianco candido, i suoi capelli sembravano fili d'oro., una corona di stelle scintillanti cingevano la sua fronte; era di statura media, la sua intera persona sembrava trasparente(diafana) era talmente leggera(lieve) e luminosa, la sua trena svolazzante era coperta di stelle simili a quelle che portava sulla corona. Il suo sguardo era dolce, sorrideva con malizia ma con bontà.
"Signora" si volse verso la regina "Io sono la fata Giocosa, la protettrice del suo figlio e della piccola principessa che egli ha trovato sta mattina nella foresta. La bambina è tuo nipotina, figlia del tuo cognato Indolente e di Nonchalance (Menefrega). Dopo la tua fuga il Re Feroce è riuscito a ucciderli. Loro non pensavano a difendersi da lui in quanto passavano la giornata dormendo, mangiando e ristorandosi. Purtroppo non sono riuscita ad impedire il crimine giacché ero presente alla nascita di un principe i cui genitori che si trovano sotto la mia protezione. Per fortuna sono arrivata ancora in tempo per salvare la piccola principessa Violetta, unica figlia del Principe Pigrone e Principessa Menefrega., e il loro unico erede. Lei stava giocando nel giardino. Il re Feroce la cercava per ammazzarla. Io ho fatta salire in groppa del mio cane Ami, a chi avevo ordinato di portarla e lasciarla nella foresta dove il tuo figlio l'aveva trovata. Tacete/nascondete davanti a loro, tutti i due le loro origini, non fate vedere a Violetta i braccialetti dove sono rinchiusi i porteti dei loro genitori, né il suo vestito principesco che ho cambiato  in un vestito più adatto alla vita che vivrà. Ecco qui una cassa di pietre preziose. Questa è la felicità/la dote? di Violetta ma dovete nasconderla a tutti i due e non aprirlo solo dopo che è stata perduta e poi ritrovata.
"Eseguirò alla lettera i suoi ordini Signora" disse Agnella, " ma permettetemi di chiedervi se il mio Orsetto deve ancora per lungo tempo tenere le sembianze di un orso?"
"Pazienza! Proteggo Lei, lui, Violetta, voi tutti. Ti permetto ora di dire a Orsetto di dirgli dalla possibilità di cambiare pelle con una persona che lo amerà abbastanza per accettare questo sacrificio. Ricordatevi che nessuno deve capire le origini reali di Orsetto e di Violetta. Malvarosa è l'unica che grazie alla sua magnanimità ha meritato di conoscere questo segreto.  Potete sempre avere fiducia in lei. Adio/a presto Regina. Fidati della mia protezione. Ecco qua un anello, fin quanto lo tieni sul tuo mignolo. Fin quanto lo porterai non ti mancherà nulla. La fata fece un segno di saluto, mutò in usignolo e spiccò in volo cinguettando felicemente.
Agnella e Malvarosa si scambiarono uno sguardo. Agnella sospirò, Malvarosa sorrise.
"Nascondiamo questa cassa cara mia regina, e anche i vestiti della principessa. Vado a vedere che vestiti ha preparato la fata per Violetta per l'indomani. "  disse e si affrettò ad aprire l'armadio. L'armadio era davvero pieno di vari vestiti di lino e di calzature comodissime. Malvarosa guardò tutto, passò in rassegna tutto ed approvò tutto. Poi aiutò Agnella a preparare il letto /a svestirsi(?) e si coricarono.



L'incubo (il sogno)
All'indomani fu Orsetto che si svegliò per primo, giacché la mucca muggiva accanto a lui. Egli si stropiccio gli occhi, si guardo intorno chiedendosi perché mai ha dormito nella stalla. Quando si ricordò degli eventi della sera precedente saltò giù dal suo mucchio di fieno e corse verso la fontana per lavarsi.








 

lunedì 21 settembre 2015

PICCOLO RE NICOLO' -fiaba popolare ungherese-



C’era una volta un re.
Egli aveva tre figlie. Ogni giorno andavano a fare una passeggiata nel bosco.

Un giorno, mentre passeggiavano, arrivò una nuvola nera che disse:
“O, re! Dammi la tua figlia più grande, altrimenti io porterò via il sole.”
Il re non gliela diede, e la nuvola portò via il sole.

Il secondo giorno, mentre facevano la loro passeggiata, arrivò una nuvola nera che disse:
“Re! Dammi la tua seconda figlia! Se non mi obbedirai, porterò via la luna.”
Il re non gliela diede. La nuvola portò via la luna.

Rimasero solo le stelle sulla volta celeste.

Il terzo giorno, il re andò a passeggiare con le sue figlie.
“Re! Dammi la tua figlia più piccola. Se non obbedirai, porterò via le stelle.”
Il re non gliela diede. La nuvola portò via le stelle.
Calò il buio sull'intero regno.

Un giorno le guardie sentirono Piccolo Re Nicolò dire al suo fratellino:
“Io riporterei il sole, la luna e le stelle, se il re mi desse la metà del regno per regnare e la sua figlia più piccola come sposa.”
Le guardie lo portarono dal re. Il re disse:
“Se non fai ciò che hai promesso, ti taglierò la testa!”
Piccolo Re Nicolò non si spaventò.
“Mi dia Sua Altezza una spada e io partirò immediatamente.”

Partì. Attraversò sette regni e sette mari finché arrivò alla foresta d’argento.

Là c’era un ponte d’argento. Egli colpì il ponte con la spada e cadde un pezzo. Si nascose sotto il ponte con la spada sguainata.

Arrivò un drago con tre teste, che volle passare il ponte. Il suo cavallo inciampò:
“Maledetto! Da tre anni facciamo questa strada e non sei mai inciampato, cosa ti è successo?”
Il cavallo rispose:
“Sconfiggere acqua e fuoco dobbiamo, oggi periamo!”
Il drago disse:
“Esci fuori, Piccolo Re Nicolò, perché già quando tu eri grande quanto un chicco di grano, sapevo che ci saremmo dovuti misurare!”
“Con che armi ci misuriamo?”
“Con le spade, come veri cavalieri!”
Incrociarono le spade. Lottarono e si colpirono a lungo, finché Piccolo Re Nicolò tagliò due teste del drago. Il drago disse:
“Lasciami almeno questa testa, ti dono le stelle!”
“Dove sono?”
“Sotto la sella del destriero!”
Piccolo Re Nicolò prese le stelle, tagliò l’ultima testa del drago e proseguì la sua strada.
Camminò a lungo finché giunse alla foresta d’oro. Là sopra il ruscello c’era un ponte d’oro. Egli colpì il ponte con la spada e si staccarono due traverse. Si nascose sotto il ponte con la spada sguainata.

Arrivò il drago con sette teste. Le sue gole sputavano fuoco. Volle attraversare il ponte. Il suo cavallo inciampò:
“Maledetto! Da sette anni facciamo questa strada e non sei mai inciampato, cosa ti è successo?”
Il cavallo rispose:
“È arrivata la nostra ora, padrone, per tutti e due!”
Il drago disse:
“Vieni, Piccolo Re Nicolò, perché già quando tu eri grande quanto un chicco di grano, sapevo che ci saremmo dovuti misurare!”
“Con che armi ci misuriamo?”, chiese Piccolo Re Nicolò.
“Con le spade, come i veri cavalieri!”
Incrociarono le spade. Lottarono e si colpirono a lungo, finché Piccolo Re Nicolò riuscì a tagliare sei teste del drago. Il drago disse:
“Lasciami almeno questa testa, ti dono la luna!”
“Dov’è?”
“Sotto la sella del destriero!”
Piccolo Re Nicolò prese la luna, tagliò l’ultima testa del drago e proseguì la sua strada.
Camminò a lungo finché arrivò alla foresta di diamante. Sopra il ruscello passava un ponte di diamante. Egli colpì il ponte con la spada e caddero tre pezzi. Si nascose sotto il ponte con la spada sguainata.

Arrivò il drago con dodici teste. Le sue gole sputavano fuoco. Volle passare il ponte. Il suo cavallo inciampò:
“Maledetto! Da dodici anni facciamo questa strada e non sei mai inciampato, cosa ti è successo?”
Il cavallo rispose:
“È venuta la nostra ora, padrone!”
Il drago disse:
“Esci fuori, Piccolo Re Nicolò, perché già quando tu eri grande quanto un chicco di grano, sapevo che ci saremmo dovuti misurare!”
“Con che armi ci misuriamo?”, chiese Piccolo Re Nicolò.
“Con le spade, come i veri cavalieri!”
Incrociarono le spade. Lottarono e si colpirono a lungo, finché Piccolo Re Nicolò tagliò undici teste del drago. Il drago disse:
“Lasciami almeno questa testa, ti dono il sole!”
“Dov’è?”
“Sotto la sella del destriero!”
Questo cavallo aveva solo tre zampe, ma correva più veloce degli altri cavalli con quattro zampe.
Piccolo Re Nicolò mise le stelle e la luna accanto al sole. Salì sul destriero, con la spada tagliò l’ultima testa del drago e partì verso casa.

Mentre riposava sotto un albero, sentì una voce che gli chiese:
“Piccolo Re Nicolò, pensi forse che il sole, la luna e le stelle siano tue?”
Egli vide sull’albero un nanetto con la barba lunga. Volle salire sull’albero per prenderlo, ma il nano fu più furbo: con un balzo fu sul cavallo e se ne andò.

Piccolo Re Nicolò camminò a lungo sulle sue tracce. Incontrò un uomo che piangeva.
“Perché piangi?”, chiese.
“Perché ho la vista lunga e vedo tutto d’un colpo d’occhio, così non ho più niente da vedere.”
“Orsù, vieni con me!”
Camminarono a lungo. Incontrarono un altro uomo. Piangeva pure lui.
“Perché piangi?”, chiesero.
“Perché con un solo passo riesco ad attraversare il mondo, così non ho più dove andare.”
“Orsù, vieni con me!”
Camminarono a lungo finché arrivarono alla casetta del nano. Lo cercarono, ma dentro c’erano solo un lettino, un tavolino e un armadietto. Il nano non lo trovarono.
“Guarda un po’…”, disse Piccolo Re Nicolò a Lunga Vista, “Non vedi da qualche parte quel nano?”
“E come no, sta su un albero in un’isola mezzo al mare.”
“Passo Lungo, fai un passo, ti prego, e portalo da me.”
Lo portarono da Piccolo Re Nicolò, che gli tolse il sole, la luna e le stelle. Mise subito in cielo le stelle perché illuminassero la notte, poi partì accompagnato dai tre uomini verso casa. Più tardi mise in cielo anche la luna. Quando ormai mancava poco alla meta, mise in cielo il sole affinché potesse arrivare il giorno.
Al castello li aspettavano con grandi onori. Fecero magnifici festeggiamenti. I tre giovani sposarono le tre principesse e tutti vissero felici e contenti.




lunedì 17 agosto 2015

Apa vieții de moș Elek Benedek

A fost odată un om sărman care avea un fiu, Jakab. Jakab era copil tare harnic, muncitor dar era atât de subțire că ziceai că-l suflă vântul. Se și îngrijora bătrânul văzându-l că ce va fi cu fiul său când el nu va mai fi printre cei vii.   În curând, bietul om chiar căzu la pat și nimeni nu găsea leac pentru beteșugul său.
 Nu-ți fă griji dragă tată, zise Jakab, am să mă duc eu și am să-ți aduc eu apa vieții, si ai să te vindeci într-o clipită. Zis și făcut, băiatul purcese la drum.
A mers el cât a mers până când a ajuns într-o pădure. Dintr-o dată ciuli urechile că auzise un plânset amarnic. Un porumbel plângea, că i se strănse aripioara între doi copaci. Jakab eliberă pasărea și îi îngriji aripioara.

Jakob, pentru că ai fost mărinimos cu mine îți dăruiesc acest fluieraș, câd vei da de necaz fluieră  și eu îți voi veni într-o clipă în ajutor

Știu că ești în căutarea apei vieții. Mergi mereu înainte până la prima răscruce. Dincolo de munții stâncoși zări-vei o căsuță. Iaca, în cea căsuță trăieste o vrăjitoare bătrână, care păzește apa vieții.
Jakab găsi ușor căsuța. și cum îi prorocise porumbelul vrăjitoarea o aștepta deja.
Știu bine ce drum te poartă pe la mine, îl întâmpină vrăjitoarea, dar ca să meriți apa vieții trebuie să treci doua încercări. Acum însă odihnește-te și dormi. Măine în zori vei afla ce ai de făcut.
A doua zi îi zice vrăjitoarea.
 Nu departe de aici este un munte. Tu să faci acel munte una cu pământul, plantează în locul său viță de vie și mâine să-mi aduci o cană cu vin din acei struguri, dar ia aminte că dacă nu faci ce ți-am cerut ești fiu al morții.
Se necăjea mult băiatul că oare cum o va putea scoate la capăt. Își aminti de fluier și suflă. Și să vezi minune căte pasări sunt pe lumea asta veniră toate.. Jakab le zise ce probă i-a dat vrăjitoarea. Dar porumbelul căruia îi salvase viața astfel grăi:
Tu nu te năcăji Jakab, culcă-te linistit și dormi că măine in zori totul va fi exact așa precum vrea zgripțuroaica.
Și într-adevăr așa a și fost . A doua zi Jakab purtă fericit  vrăjitoarei cana cu vin . Zgripțuroaica era foc și pară  de mănie dar îi spuse flăcăului care e a doua încercare.

Colo peste munte este o pădure, tu taie copacii acelei păduri. ară terenul, cultivă grăul și maine adu/mi o păine din faina macinată din acel grâu.
Jakab suflă în fluieraș. Se adunară din nou toate păsările cerului și făcură totul pe placul  vrăjitoarei A doua zi Jakab duse păinea proaspată zgripțuroaicei.
Flăcăule ai trecut cu bine încercarea,  zise vrăjitoarea, ia acum din apa vieții si Dumnezeu cu mila,
Jakab făcu exact așa și porni fericit către casă. Pe drum, porumbița zbură pe umărul său și îl rugă
Jakab acum ajută-mă tu pe mine. Stropește-mă cu căteva picături din apa vieții. Și să vezi minune, porumbița se transformă într-o preafrumoasă fată.
Află Jakab că pe mine vrăjitoarea cea rea m-a transformat in pasăre, și doar apa vieții putea să mă ajute să îmi recapăt forma omeneasca. Cei doi tineri s-au și îndrăgostit imediat unul de altul și porniră voioși câtre satul lui Jakab. Mare a fost bucuria în casa părintească. Tatăl lui Jakab s-a vindecat așa de repede că la nunta tinerilor el dansa csardasul mai cu foc.
Și au trăit toți fericiți păna la adânci bătrănețe.

 

sabato 15 agosto 2015

Iside

…e vidi davanti a me il disco della luna piena uscito dalle onde,
splendente di bianco bagliore.
Nel silenzio della notte, nel mistero di quella solitudine, improvvisamente sentii
la sovrana maestà della dea,
riconobbi che tutte le vicende umane sono governate dalla sua provvidenza,
che gli animali domestici e selvatici, e anche gli esseri inanimati vivono in virtù del suo divino potere,
in virtù della sua santa luce:
tutto ciò che esiste sulla terra,
e nel cielo,
e nel mare, prende forza dal suo crescere,
e la perde dal suo calare.

entrai nel marre per purificarmi, immersi la testa sott'acqua per sette volte (perché questo numero secondo gli insegnamenti del divino Pitagora, è il più sacro nei riti religiosi e alla fine col volto bagnato di lacrime, cosi pregai la potentissima dea:

"Regina del cielo" che tu sia l'alma Cerere, madre delle messi, che, felice per aver ritrovato la tua figlia, insegnasti agli uomini ad abbandonare il primitivo ferino alimento delle ghiande, mostrando loro un più dolce cibo, e ora dai gioia col tuo culto alla terra eleusina; o sia tu Venere celeste, che al principio del mondo generasti l' amore, facesti unire i sessi diversi, rendesti eterno il genere umano donandogli discendenza eterna, e ora sei venerata a Pafo, nel tuo sacrario circondato dalle onde del mare; o sia tu la sorella di Febo, che mitigasti i dolori del parto col sollievo dei tuoi rimedi, e crescesti popoli cosi importanti, e ora sei venerata nei templi di Efeso; o sia tu Proserpina, dai terribili ululati notturni, venerata con culti diversi, tu dal triplice aspetto, tu che freni gli assalti delle ombre dei morti, tu che chiudi la porta della terra, tu che vaghi nei boschi: tu, qualunque sia il tuo nome, qualunque sia il tuo culto, qualunque sia l'aspetto in cui  è lecito adorarti. Tu che illumini tutte le città col tuo femminile chiarore, tu che col tuo umido raggio nutri il seme fecondo, tu che vaghi solitaria e dispensi una luce sempre diversa: vieni in soccorso ai miei mali estremi, risolleva la mia fortuna caduta, dammi tu dopo tanti affanni, pace e riposo.(...)

ecco che dal mare emerse una apparizione divina, sollevando un volto che anche gli dei avrebbero venerato. Poi a poco a poco, dal mare i staccò l'intero corpo di quella splendida apparizione (...)

Eccomi a te, Lucio commossa dalle tue preghiere. io madre di tutte le cose, signora di tutti gli elementi, principio di tutte le generazioni nei secoli, la più grande delle numi, la regina dei Mani, la prima dei celesti, archetipo immutabile degli dei e delle dee, a cui concedo di governare col mio assenso le luminose volte del cielo, le salutari brezze del mare, i lacrimanti silenzi degli inferi; io, la cui potenza, unica se pur multiforme, tutto il mondo venera con riti diversi, con diversi nomi. I Frigi, primi abitatori della terra mi chiamano Pessinunzia madre degli dei; gli Attici autoctoni, Minerva Cecropia; gli isolani ciprioti, Venere Pafia; i cretesi famosi arcieri, Dianna Dictinna; i siculi trilingui, Proserpina Stigia; gli antichi Eleusini, Cerere Antica, gli altri mi chiamano Giunone, altri Bellona, e chi Ecate, e chi Ramnusia; e infine i popoli che il sole nascente rischiara coi suoi primi raggi, cioè entrambi gli Etiopi e gli Egizi, d'antica sapienza, solo questi mi onorano con le cerimonie che  mi sono proprie, e mi chiamano col mio vero nome di Iside regina (...)


Apuleio- Asino d'oro, trad Marina Cavalli

venerdì 7 agosto 2015

SHIRIN- Povesti si Povestiri de Jokai


SHIRIN(RO)                                                                                 


Hoinârim prin Persia. Două umbre ne urmăresc necontenit, una  e umbra proiectată de soare, celalată   de faptele trecutului. Nu există vreo piatră, vreun deal pe acest  pământ care să nu aibă o legendă  înțesută de istoria omenirii; acele colibe sărăcăcioase de pământ sunt construite pe stralucitoare orașe ale antichității, iar caprele de colea  pasc iarba de pe mormintele regilor.
Ici colo se se văd  dealuri, din care se intrezăresc niște pietre. Cercetători străini vin să dezgroape dealurile părăsite. Nimeni nu își mai amintește de ce o fi fost ce se ridica acolo, când cu înfiorare tainică citesc din pietre că acolo se ridica  orașul Ninive.  Ne continuăm drumul, intrebăm alte coline și tot așa timp de trei zile de mers  toate ruinele  ne răspund că aici se înălța  orașul Ninive. Nu i se poate vedea un capăt de la celalt, o întreagă țara doarme scufundată aici. Oamenii din popor trec nepăsători alături de aceste ruine si se înteabă mirați  ce-or fi găsind străinii așa de interesant in aceste dealuri, pe care, de când e lumea cresc doar mărăcini și iarbă verde.
Înmormântată zace  Persia, temuta rivală a  Romei, uitate-i sunt armatele sale cuceritoare, la fel și  curțile-i  somptuase. Nimeni nu se închină la mormintele lor, numele și faptele lor se prăfuiesc pe foile uitate ale cărților de istorie. În schimb tradiția, graiul viu al poporului, a salvat nemuritoare amintirea  iubirilor lor, a viselor lor de tandrețe, și iacă așa poveștile cele vechi ne vorbesc despre iubirile feerice ale vechilor timpuri.
              Nici cei mai vechi înțelepti ai poporului n- ar putea sa zică ce se află sub aceste dealuri, dar dacă intrebi „ce reprezinta acele trei valuri de pământ, unde fetele tinere din împrejurimi vin să cânte doine dulci și să danseze in horă ca niște zâne?„ oricine ar putea să îți spună că acolo e mormântul lui Ferhad, artistul nemuritor;  mormântul său e acela pe care crește trandafirul roșu, iar celalt mormant e al splendidei reginei cu plete crăiești, Shirin; un trandafir alb crește pe mormântul ei; iar între ei doarme somnul de veci Omaya, malefica bătrână care le-a întins capcana. Pe mormântul ei cresc doar mărăcini. Cele două tufișuri de trandafir există acolo din negura timpurilor, de atunci, cu brațele lor, par a se căuta; când le cad petalele vântul împodobește locul cu un covor de petale de trandafir. Fetele din împrejurimi iacă sosesc aici pentru a îngriji acești trandafiri și pentru a-și povesti una alteia dragostea dintre Shirin si Ferhad
               Lanțul muntos din Behistun imbrățișează într-un amplu semicerc una din cele mai aride podișuri ale Persiei de Apus. La inceput apar doar mici dealuri înverzite care apoi devin tot mai înalte, până se transformă in  munți pleșuvi, si  stânci amețitoare. Una din stancile cele mai mari si mai sălbatece e Taq-e Bostan, “tronul gradinilor” (arcul de piatra arch of the beautiful garden ) care, întunecos si cu fruntea sa goală, fără vegetație  se inalță si domina  Kermanshah-ul ca un rege batran si chel pe mireasa sa tânără și in floare care șade la picioarele sale.


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In acel timp demult uitat în Persia domnea Corsoe Invingatorul, iar acest loc acum napadit de paduri nepatrunse se numea Paradisul. Aici era locul de vilegiatura preferat al regelui Corsoe. În aceste paduri intinse cat vezi cu ochiul  pline de salbaticiuni de toate felurileputea vâna cu elefantul tigrii regali. Si azi traiesc aici pauni si struti salbaticiti, urmașii ai acelora care mancau orezul rosu din mana reginelor persiene.
Printre palmieri paradisului se înălțau palatele princiare, statui, monumente ridicate în onoarea zeilor, câte un templu, pe a cărei prispă protejau tauri înaripați și cu chip uman, simbol unitar frumusetii, inteligentei si puterii.
Im mod deosebit Corsoe Invingatorul a îmbogățit paradisul cu multe statui noi statui si monumente
Cu mulțimile soserau la curtea sa sculptori greci siși romani, abandonând pământul clasic unde la acea ora chefuiau vandalii si avarii, care nu apreciau ăn mod deosebit artele frumoase.
Intr-o zi regele dădu sfoară în țară ca sculptorii din regat să se adune la curte, îi chemă pe toți într-o mare sală rotunda care avea o unica fereastră cât o poartă, acoperită cu draperii de mătasă purpurie, acolo îi adună în jurul său
Artiști/ glăsui regele/ oameni inspirați de puterile cerești, voi care vă împărtășiți din taina creației. La porunca( mea , ați umplut acest pământ cu lucruri miraculoase, ați transformat ce e pasager in nemuritor, ați sfășiat gloria efemera *din ghiarele uitării( , ați limat dinții *gliarele ) uitării ca să nu dăuneze gloriei efemere. O nouă muncă vă așteaptă, vreau să imortalați o frumusețe cum nu a mai existat în lume, sa imortalați opera divinității.

Sculptorii intuiră și murmurară:

Shirin
örökkévalóvá tettéket a hírt, kiragadtátok a mulandóság kezéből a dicsőséget, megfosztottátok a feledékenységet fogaitól, hogy ne árthasson velők a halandó nagyságnak; most egy új munka vár reátok, halhatatlanná tenni azt, ami legszebb volt valaha az ég alatt, halhatatlanná tenni az istenség remekét.
Da, așa e. Ei vreau să-i înalț o amintire veșnică, pentru ca lumea să o amintească , să se bucure de ea și să o admire și după sute și sute de ani. Încercarea e grea: cine poate să o priveasca fără a -și pierde lumina ochilor, fară ca să0i tremure mâna, darămite să creeze ceva asemănptor ei O veți vedea o singură dată de fapt, pentru o clipă doar cât o respirație. Să nici nu se apuce de treabă cel căruia nu iîi rămâne întipărită imaginea ei de o singură privire; cel care nu cunoaște meșteșugul de a sculpta în piatra buze grăitoare, chip zâmbitor, piept suspirător*piheg) să nici să nu se apuce de treabă.Pentru că, dacaă se va găsi printre voi vreunul care să o sculpteze așa fidel cum o doresc eu, acela va fi răsplătit cu vârf și îndesat. Îmi va putea cere orice, și dacă ar fi destul de iconștient ca să îmi ceară coroana de pe cap i-o voi da; dar daca statuia care o va reprezenta nu va fi fidela sculptorul va fi pedepsit, ca sacrilegul care a răpit focul sacru ca să gătească. Voi fi neîndurător precum a fost Pallas Atene cu Aracne cu cel care ar cutează să se măsoare cu cele divine fără a avea harul de a fi la înălțime. Iar acum veniți la fereastră să priviți.

Regele trase snurul cortinei care se ridică în fața ochilor artiștilor. Li se arătă în fața ochilor o grădină rotundă, cu palmieri care salutau cu capul lor enorm, iîn timp ce de pe frunzele lor picura roua. Printre tufișurile dese de mirt se zărea un mic bazin cu apa, apele sale cristaline lăsau să se întrezărească mozaicul din pietre nestemate de pe fund, din cele patru părți ale orizontului patru zmei contintineini de arama scuipau apa in bazin, iar pe suma de pe laturile apei plutea câte o petală purtată de vânt
 Grădina era înconjurată de ziduri atât de -nalte ca dinăuntru se putea întrezări doar vârful Takhiti Bostan, dar totuți nu erau deloc opresive. lianele si alte plante cățărătoare acopereau complet zidurile, iar terasele erau cu tufișuri de trandafir si cu ierburi inalte  , cu liane de pe care cadeau ciorchini de flori din toate părțile.
De dincolo de tufișuri se auzeau sunete de harfă, mii de voci feminile îndulceau atmosfera. Corsoe Invingătorul ținea optsprezece mii de dame la curte, care nu avreau altceva de făcut decât să o distreze *să insenineze sufletulunicii( pe unica Shirin.
Egyszer szétnyílnak a bokrok, a szobrászok lélegzetvisszafojtva tekintenek oda, s szemök világa vész!
Hat hölgy lép elő, mind oly szép, mint a hold, egyik szőke, halvány skandináv szűz, másik karcsú, mint virágszál, Cirkasszia nemes vonásaival, harmadik barna hindu leány, tagjai fénylenek, mint a napsütötte érc, negyedik rózsaarcú, parázsszemű avar delnő, acél rugalmú izmokkal, vállai nyíllövés és kardforgatásban domborultak ki, ötödik szelíd kínai leány, szemekkel, mikben titkolt láng ég, tagjai átlátszanak, mint az alabástrom s hajlékonyak, mintha semmi sem volna bennök szilárd, hatodik egy ethióp nő, ifjú gyermeki alak, nagy, őszinte szép szemekkel, fekete arcán az ifjúság rózsái nyílnak, – a hajnal az éjfél közepébe.
Most előlép a hetedik. El veletek holdak! feljött a nap… E hetedik Shirin.
A körüle állók kecsei arra valók, hogy legyen árnyéka az övének. Csak felhői ők a napnak, általa megaranyozva, senki sem látja őket többé, a szemnek csak egy sugára van, s az mind Shirin arcán jön össze, csak őt látják, csak őt bámulják, csak őt nem felejtik el soha.
Ó, ne hasonlítsátok azt, ami szép, márványhoz, rózsához, liliomhoz; a kő hideg, – rózsa, liliom hervadandó; nem szép az, ami csak a szemnek szép! valami mélyebb rejtelem van a szépség fogalmában, amit az emberek éreznek, de nem értenek.
Mi volt az a bűbáj, az a megtörthetlen varázs, ami Shirin szépségéről még az utókorra is elmaradt, hogy költők tőle lelkesüljenek föl? – Szép arc mindig volt a világon. – Szép lélek volt ez, mely az arc fölött lakik, mely olyan bűbájt ad minden vonásnak, hogy költővé kell annak válnia, aki rátekint!
Ez a csodás vegyülete a lélekkifejezés ellentéteinek volt az, mi őt a világ minden szépségei között páratlanná tevé; az ajk boldog mosolygásában rejtve volt a költőibb vágyak utáni fájdalom, a homlok derűjében méltóság és ártatlanság világolt, a szemekben vágyak könnye alatt égett a szenvedély tüze, s a szempillák csukódása boldogságot és epedést vont reájok.
Ahányat lépett, annyiféle alak volt. Egy pillangó után kapott, s azt elfogta egy rózsára leszálltán; – mosolygó gyermek volt ekkor, ki tarka foglyának örül. Ekkor megszánta a lepkét s tenyerére téve, szélnek bocsátá azt; – lenge tündérnek látszék ekkor ég felé emelt orcával, mintha utána repülni készülne a könnyű pillangónak. Most valami hidegre lépett, s felsikoltott; – azt hívé, kígyó van lábai alatt; azután elnevette magát ijedelmén s kacagott, mint egy társaival játszódó najasz; – azok felvették az általa eltaposott virágot, Shirin könnyezett fölötte, megsiratta, hogy elgázolá, s keblére tűzte éledni; – azután leült a tópartra társaival, azok virágfüzéreket hoztak, átkötözték vele homlokát, könnyű ruháit, termetét, ő hagyta magát felcicomázni, mosolyogva; – a leányok valamit sugdostak fülébe, néha mosolyogva hallgatá a suttogást, máskor, mintha csiklandaná a suttogó szó, eldugta előle füleit, fejét negédesen húzva vállacskái közé; s egy szóra összerezzent, méltóságteljes haraggal tekinte társnéjára, délcegen, büszkén fölemelve fejét, szemei villogtak, szemöldei hajlása öldöklő ív volt, mint Dianáé, midőn Niobe leányait lelövöldözé.
Azok reszketve simultak meg ez istenasszonyi tekintet elől. Akkor hidegen inte nekik, hogy távozzanak el, s egyedül maradt, ábrándozó alakkal eldűlve a vízparton, s koszorúja virágait egyenként szórva a fecsegő habba.
Végre keblére tevé kezét s hosszan felsóhajtott, arcán az örömtelen boldogság nevezhetlen vágya látszott, mely lassanként rózsálló pírba olvadott át; ez volt a szerelem, mely nem tud még szeretni. Fél lábával a vízmederbe lépett, széttekintve szemérmetes arccal, ha nem látja-e valaki? s azzal megoldá nyakán és vállain a gombokat, melyek öltönyét összetarták, és ekkor egy magasztos tekintetet vetett az ég felé, mely egyedül lehetett méltó arra, hogy benne lakjék. A lebomlott öltönyt csak a közé fűzött gyöngy- és virágfonadékok tarták még bájos termetéhez, a leleplezett kar feje fölé volt emelve, mintha a napot akarná kérni, hogy ne nézzen oly szerelmesen reá.
A következő pillanatban, mint Afrodité állt a kristályhabok között.
A király leereszté a függönyt a szobrászok szemei előtt. Azok még nem bírtak gyönyör és bámulat miatt magukhoz térni. Némely lángoló szemmel, előre hajolt arccal tekinte a legördült függönyre, mintha keresztül akarná azt égetni tekintetével; más szemei elé tartá kezét, mintha a szokatlan fénytől akarná azokat óvni, ismét más a magasba emelé arcát, mintha az égben keresné a tüneményt, melyet a földön látott.
– Láttátok őt, – szólt a király – most menjetek s gondolkozzatok róla; egy év múlva e terembe fogtok ismét jőni. Annak, ki hű szobrát adandja, királyi díj leend jutalma; annak, ki beleveszt, halál fejére!
A szobrászok ábrándozó arcokkal széledeztek el, legutoljára maradt az ősz Harun, a király legidősebb művésze, ki ajkaira tett kézzel, hideg, nyugodt arccal látszék magában a felvett körrajzokat egybevetni, és mellette egy ifjú görög szobrász, kit a perzsa udvarnál elneveztek Ferhádnak; ez térdeire volt rogyva, s fejét lehajtva keblére, arcát két kezével elrejté.
– Egy év múlva visszajövünk; – szólt nyugodtan művészi önbizalommal a vén szobrász, s amint észrevette ekkor az ott térdelő ifjút, felrázta őt méla helyzetéből: – Ferhád, te nem láttad Shirint?
– Még most is látom, – viszonzá az ifjú.
– Hisz arcod eltakartad.
– Lelkemmel látom őt.
– Jer, siessünk alaprajzainkat megtenni, mielőtt elfelednők e látmányt.
– Ó, bár tudnám én őt valaha elfeledni; ó, bár feledhetné a szarvas azt a nyilat, melyet sebében visel! feledhetné a tó a napot, melynek sugáraitól kiszárad! ó, bár viselném én ősz szakálladat Harun, hogy attól félhetnék, hogy őt elfelejtem.
Ferhád támolygó tekintettel kelt föl térdeiről s Harun vállaira támaszkodva távozott el, mint kit egyszerre súlyos betegség lepett meg.


(va urma)