sabato 20 giugno 2015

Elogio della distruttibilità- frammenti-

Per secoli l'uomo ha cercato la materia indistruttibile. L'intera civiltà e filosofia è fondata sulla ricerca dell'elemento indistruttibile. L'alchimia la cercava sempre, anche la filosofia, è il mondo immobile dell'uno. E l'uno è infattio solo squilibrio, anche per dare vita c'è bisogno di due, di due diversissimi che mai saranno uguali
Inutile che la leggenda di Creso che ci insegni che l'oro vale ben poco, che l'indistruttibilità è come la morte, l'uomo ha riuscito trovare il materiale indistruttibile: la plastica e ne ha riempito il mondo.

Un sogno dell'umanità si è compiuto con la plastica ed ha dimostrato l'insensatezza dei idealismi, di grandi sogni umani.
Bisognerebbe rivalutare, trovare il senso della distruttibilità, del lento degrado fino al ritorno all'indeterminato della materia, materia che morta non è se parliamo di terra, acqua, fuoco, aria. Avremmo cosi la risposta a molte domande che riguardano ciò che tradizionalmente era considerato il male. Presumo che il male non sparisce come concetto, ma vengono rivalutati degli elementi che fanno parte del processo di ritorno alla terra: il marcire, arruginire, invecchiare, le mosche o altri insetti che hanno un ruolo fondamentale in questo processo.

L'inutilità dell'essere immortali, il senso della fragilità come abbiamo parlato in quel articolo primo ma ora da un altro punto di vista.

mercoledì 17 giugno 2015

Tre fiabe della regina (Carmen Sylva)



IL CARAIMAN
Le  rocce gigantesche del Caraiman sorgono cupe e minacciose . Sembra che da esse  si sia staccata un blocco di pietra restando sospeso a mezza costa. Questo blocco di pietra rassommiglia ad una cornamusa; ed eco la leggenda che si racconta su di essa.



NEI TEMPI REMOTI, tanto remoti che il cielo era ancora molto più vicino alla terra e le acque  ricoprivano quasi tutta la terra, lontano, nei Carpazi, viveva un potente mago. Egli era più alto del più alto abete e portava sulla testa un albero coi rami sempre verdi, la sua barba lunghissima era di muschio, come di muschio erano anche le sue sopracciglia; la sua veste era fatta di scorza degli alberi, la voce aveva il rimbombo del tuono e sotto il braccio portava una cornamusa grande quanto una casa.
Con quella cornamusa egli poteva ottenere tutto ciò che desiderava il suo cuore. Suonava melodie soavi e attorno a lui, fino alla linea dell’orizzonte, sbocciavano i fiori e cresceva l’erba; quando soffiava più forte, creava gli essere viventi; ma quando soffiava con ira, sollevava una tale tempesta che la montagna si piegava, il mare si ritraeva dagli scogli e scopriva a nudo la terra. Un giorno fu assalito da potenti nemici; invece di difendersi portò la cornamusa alle labbra mutando i suoi nemici in abeti, quindi si liberò da loro. Egli non si stancava mai di suonare e sentiva grandissima gioia quando l’eco gli rimandava indietro le sue canzoni; ma ciò che gli riempiva più il cuore di gioia era vedere come s’inanimava tutto intorno a lui. Migliaia di pecore venivano da tutte le alture, da tutte le valli e portavano piccoli alberelli sulla fronte, così Caraiman le riconosceva come sue creature; tra le rocce apparvero anche i cani che riconoscevano la sua voce.
Egli esitò a lungo a creare uomini, perché aveva visto che negli altri paesi le persone erano poco inclini a gesti di benevolenza e non erano capaci ad amarsi. Tuttavia pensava che i bambini fossero invece amabili e buoni e trovò come soluzione di popolare il suo regno solamente con i bambini. Quindi suonò la più soave melodia che aveva mai suonata e all’improvviso spuntarono fuori fanciulli e fanciulle in numero infinito. Adesso vi potete immaginare quanto era particolare i regno del Caraiman: non si faceva che suonare e comparivano quei piccoli marmocchi, tutti contenti, rotolandosi sulla bella e verdeggiante terra benedetta di Dio. Dopodiché si intrufolavano sotto le pecore per succhiare il latte dalle loro mammelle; raccoglievano frutta ed erbe e le mangiavano, dormivano sul morbido muschio, protetti dalla roccia e dalla mattina alla sera erano sempre allegri. Anche dormendo erano felici perché il Caraiman suonava alcune melodie che favorivano i sogni più dolci. Giammai si udirono parole offensive nel regno del Caraiman: quei bimbi erano infatti così gentili e felici che non litigavano mei tra di loro; invidia e gelosia erano sconosciute, giacché ognuno aveva le stesse qualità dell'altro. Il Caraiman stava attento che ci fossero sempre abbastanza pecore per nutrire tutti i bambini e che per le tante pecore crescessero erbe a sufficienza, quindi, per ottenere tutto ciò, non si scordava mai di suonare. Nessun bimbo si faceva del male e per questo i cani dovevano fare da guardia, trasportandoli e scegliendo un terreno adatto per i loro giochi. Se qualcuno cadeva nell'acqua, i cani lo tiravano fuori, quando qualcun'altro era troppo affaticato, un cane lo prendeva in groppa e lo portava sotto l'ombra più fresca per farlo dormire. I bimbi erano felici come in paradiso; loro del resto non desideravano nulla, perché non avevano visto ancora nulla; non c'erano abiti ricchi o poveri, nè grandi palazzi accanto a misere capanne da far guardare gli uni con avidità i beni degli altri. Non c'erano malattie, né morti presso il Caraiman; gli esseri da lui creati venivano al mondo così sani come se fossero usciti dall'uovo. E poi non c'era alcuna ragione di morire quando c'era tanto spazio nel mondo. Tutto il paese donde il Caraiman aveva scacciato il mare non era popolato, e per pecore e bimbi lo spazio era più che sufficiente per molto tempo ancora.
I fanciulli non si preoccupavano di leggere o scrivere; del resto non ne avevano bisogno, perché tutto era previsto e si risolveva da sé; loro non dovevano preoccuparsi di nulla ed era superfluo per loro diventare savi, perché il pericolo era loro ignoto.
Intanto, diventando più grandi, essi cominciarono a scavare delle piccole case nella terra e a coprirle di muschio, poi dissero d'un tratto: "Questo è mio!". Ma appena uno ebbe pronunciato per la prima volta: "Questo è mio!", gli altri vollero fare altrettanto. Alcuni si costruirono delle casette simili; ma altri trovarono molto più comodo installarsi in quelle già finite; e quando i proprietari si lagnarono gridando, i cattivi piccoli conquistatori si misserò a ridere. Quelli che erano stati derubati cominciarono a servirsi dei loro piccoli pugni - e nacque la prima guerra.
Alcuni corsero da Caraiman e si lamentarono; allora egli suonò un gran tuono rimbombante e li fece tremare tutti di paura. Fu così che per la prima volta essi impararono a conoscere la paura e poi, siccome i ladruncoli tenevano il broncio ai delatori, nel bello e piacevole regno di Caraiman scoppiò la zizzania. Fu penoso vedere come tutti quei piccoli uomini si comportassero già così male come i grandi negli altri paesi. Caraiman iniziò a pensare a qualche rimedio. Avrebbe potuto cacciarli tutti insieme nel mare e crearne di nuovi, ma questi avrebbero sicuramente finito per comportar si allo stesso modo ed egli amava molto i suoi piccini! Allora pensò di allontanare quel che poteva essere l'oggetto di discordia; ma così tutto sarebbe diventato sterile e nudo, giacché la disputa aveva avuto luogo appunto per un po’ di terra e di muschio e poi perché gli uni erano stati laboriosi e gli altri pigri. Pensò dunque di fare un regalo: infatti donò loro pecore, cani e anche un giardino. Ma questo peggiorò la situazione: alcuni coltivarono i loro giardini, mentre coloro che li lasciavano incolti, si accorsero subito che i giardini lavorati erano più belli e che le pecore davano più latte, essendo migliori i pascoli. Questa fu una grande sventura. I pigri fecero una lega, attaccarono i laboriosi e s’impadronirono di molti dei loro giardini. La maggior parte dei laboriosi o se ne andò altrove e, sotto le loro mani, tutto ben presto divenne assai bello, o non si lasciarono spodestare e ne nacquero lunghe lotte, nelle quali alcuni furono uccisi.
Quando essi videro per la prima volta la morte rimasero pietrificati di sgomento e di dolore, giurando l’uno all’altro di mantenere per sempre la pace e l’amicizia. Ma non riuscirono a restare a lungo tranquilli; e siccome non si volevano ammazzare cominciarono a derubarsi con furbizia tutti i beni. Questo fu ancora ben più triste. Il Caraiman aveva il cuore così appesantito che versò torrenti di lacrime, le quali colarono nella vallata fino al mare. I cattivi fanciulli, però, non si resero nemmeno conto che queste erano le lacrime che il loro padre aveva versato per loro e perseverarono nell’ira.
Il Caraiman pianse ancor più forte e le sue lacrime diventarono fiumi e torrenti che distrussero il paese e lo cambiarono ben presto in un grande lago, nel quale perirono innumerevoli esseri.
Allora cessò di piangere e prese a soffiare un vento impetuoso, che fece asciugare la terra. Intanto il verde era sparito, grosse pietre coprivano case e giardini, le pecore non trovavano più pascoli e siccome non davano più latte, i fanciulli tagliarono loro la gola con una pietra tagliente, per vedere se il loro latte non uscisse magari da un’altra parte. Invece di latte venne fuori sangue e quando i fanciulli ne ebbero bevuto diventarono sempre più feroci ed avidi: uccisero molte pecore, rubarono quelle dei loro fratelli, bevvero sangue e mangiarono carne.
Allora il Caraiman disse: “Bisogna creare animali più grandi, altrimenti non ne basteranno più”.
Quindi egli suonò di nuovo la cornamusa. Allora vennero al mondo i bufali e i cavalli con ali a lunga coda riccia, e scomparirono gli elefanti e i serpenti. I fanciulli cominciarono a guerreggiare con quegli animali, cosi divennero più grandi e più forti; addomesticarono molti animali, ma da molti altri furono perseguitati e uccisi. Siccome non avevano una vita semplice, cominciarono a emergere tra di loro numerose e gravi malattie. Ben presto furono del tutto simili agli uomini di altre nazioni ed il Caraiman diventò sempre più fosco e di cattivo umore, perché tutto quel che aveva voluto far di bene, era andato a finir male.
Le sue creature non avevano più in loro né amore, né fede; non pensavano che loro stessi erano la causa delle loro sciagure! Invece credevano che il Caraiman le aveva loro mandate per leggerezza e per passatempo. Rifiutavano di ascoltare la cornamusa che altre volte li aveva incantati con simili dolci suoni. Il gigante del resto non soffiava più tanto; anzi, era triste, così triste che il tedio lo esauriva e spesso dormiva per lunghe ore sotto l’ombra delle proprie sopracciglia, che si riunivano alla barba. Talvolta, quando si svegliava, portava la cornamusa alle labbra e soffiava dentro a quel malvagio mondo, gridando ai quattro venti. I venti, svegliandosi, scatenavano una tempesta talmente violenta che gli alberi gemevano strofinandosi gli uni con gli altri fino a infiammarsi: così il fuoco divorava foreste intere. Allora con l’albero che aveva sulla testa, egli raggiungeva le nuvole e scuoteva la pioggia in basso per spegnere l’incendio.
Gli uomini non avevano che un pensiero: ridurre per sempre al silenzio la cornamusa. Essi andarono con lance e giavellotti, con fronde e pietre a combattere il gigante, ma egli rise così forte da provocare un terremoto, che li inghiottì insieme coi loro animali e con le loro case. Un altro gruppo arrivò con pali di resina accesi per incendiare la sua barba, ma egli starnutì spegnendo il fuoco e facendo ruzzolare gli uomini all’indietro. Un terzo gruppo volle legarlo nel sonno, ma egli allungò le sue membra e tutti i lacci si ruppero, la banda intera fu distrutta.
Essi tentarono inoltre di mettergli contro tutti gli animali feroci da lui stesso creati, ma egli serrò nei suoi pugni l’aria e una neve densa cominciò a cadere: era una neve senza fine, che li avviluppò, li seppellì e li gelò. Dopo migliaia di anni, quando non vi fu più sulla terra un solo dei loro simili, quegli animali furono ritrovati in carne ed ossa nel ghiaccio.
Gli uomini pensarono di impadronirsi della cornamusa, e decisero di trascinarla lontano mentre il gigante dormiva, ma egli vi posò la testa sopra e  il peso era tale che tutti gli uomini e gli animali non poterono smuoverla.
Essi, allora, si avvicinarono leggermente al gigante e fecero un piccolo buco nella cornamusa, ed ecco che si scatenò una tempesta tale che non si poteva  più distinguere il mare, la terra e il cielo: di tutta la creazione del Caraiman non restò più nulla.
Il gigante però non si svegliò più. Egli dorme ancora oggi con la cornamusa sotto il braccio, la quale risuona, quando la tempesta vi s’ingolfa e discende nella vallata della Prahova.
Se qualcuno riuscisse a ricucire la cornamusa, di nuovo la terra apparterebbe ai bambini.





LA GROTTA DI JALOMITZA
Se attraversiamo la gola che separa Varful cu Dor da Furnica e raggiungiamo all’altro lato del Bucegi, incontriamo la Jalomitza, un corso d’acqua la cui sorgente si trova in un'inquietante grotta calcarea. Davanti alla grotta si erge un piccolo monastero costruito in tempi antichissimi. La gente dice che la grotta è profonda, senza fine, cosicché se qualcuno ha osato una volta addentrarsi, non è mai più ritornato.
TANTO TEMPO FA, questa grotta fu abitata da un terribile stregone il quale, così si racconta, rapiva le belle fanciulle dai campi, dalla casa paterna e anche dai piedi dell’altare. Esse lo seguivano tutte senza resistenza e non furono mai più viste. Un giorno un giovane audace aveva giurato di liberarle ed entrando coraggiosamente nella grotta chiamò il mago:”Bucur! Bucur!”, ma non si fece vedere nessuno: né Bucur, né qualcuna delle vergini rapite.
Nel grazioso villaggio di Rucar, ai pendii di Bucegi, viveva una leggiadra fanciulla di nome Jalomitza. Ella aveva giurato di non seguire il mago, non importa sotto quale sembianza le si fosse presentata e qualunque fossero state le promesse con le quali avrebbe voluto sedurla.
“Anche se mi portasse nella sua caverna”, diceva ella, “io ne uscirei fuori nuovamente”.
Queste erano parole molto audaci e i vecchi scuotevano la testa e alzavano le spalle dicendo:
“Quando il mago lo vorrà, lei lo seguirà volentieri come hanno fatto tutte le altre”.
Passò un tempo assai lungo, durante il quale non apparve nessuno e non accadde nulla che mettesse alla prova il coraggio della fanciulla. Ella era la gioia e la delizia di tutti gli uomini, con le sue guance rosa, le labbra rosse, i capelli ondulati e color di fiamma e i grandi occhi azzurri. Il nasino era fine, un po’ indiscretamente in su. Dalla camicia riccamente ricamata, usciva un collo fine, bianco come la neve e sulla fronte, sulle tempie, sulla nuca si inanellavano riccioli rossi sfuggiti alle trecce e ribelli al pettine.
Quando la domenica si vestiva per la danza dell’hora scioglieva le sue trecce, si trovava coperta come in un mantello d’oro di cui neppure la terza parte poteva ella vedere nel suo piccolo specchio.
C’era un giovane nel villaggio che le correva sempre dietro: alla fontana, ai campi, alla danza. Lei non è che voleva sapere gran che del povero Coman che era tuttavia un ragazzo buono e benestante. Aveva bei campi, cavalli e vacche, bufali e montoni; portava una giubba di pelle bianca stupendamente ricamata e un candido mantello foderato di panno rosso e riccamente adorno di nastri e d’oro.
A molte fanciulle piaceva Coman, solo a Jalomitza no. Ella pensava all’incantatore Bucur e ai mezzi per combatterlo, onde vendicare tutte le povere ragazze cadute della sua trappola.
Nel meriggio di una splendida domenica, mentre i danzatori riscaldati si riposavano un istante, risuonarono in quel vicinato suoni così dolci di un flauto che tutta la giovane compagnia ne fu sorpresa.
Tutti, curiosi, si affrettarono a vedere chi stesse suonando: un bel giovane pastore stava appoggiato ad un albero, i piedi incrociati l’uno sull’altro, calmo come se fosse stato sempre lì e intanto nessuno lo aveva visto venire, nessuno lo conosceva.
Egli continuò a suonare, come se fosse solo sulla terra: una volta però alzò gli occhi e guardò Jalomitza, che si era avvicinata a lui e ascoltava le divine melodie, con le labbra aperte e le narici frementi. Dopo qualche tempo egli la guardò di nuovo, poi una terza volta.
Allora Coman le sussurrò :
“Scappa, Jalomitza, quest’uomo è malevolo”.
La fanciulla fece un gesto d’impazienza con le spalle e i gomiti.
“Jalomitza”, brontolò di nuovo il geloso, “non ti vergogni a lasciarti guardare cosi?”.
Neanche questa volta ella rispose, anzi, gli volse le spalle.
“Jalomitza, io te lo dico chiaro e tondo, questo pastore non è altro che Bucur, lo stregone!”
In questo momento il pastore s’inchinò senza smettere di suonare e Jalomitza sentì freddo al cuore e inaridirsi la gola.
“Che ne sai tu?”, disse con dispetto, ma non senza un leggero tremito nella voce.
“Lo so, perché lo sento; lo sento, perché t’amo; e perché t’amo vedo che ne sei affascinata di lui e che tu sarai la sua vittima come tutte le altre”.
“Io? Giammai! Lo giuro”, gridò Jalomitza e divenne pallida come la morte.
“Ecco il mio flauto, suona tu!” esclamò il pastore e porse il flauto a Coman.
Senza rendersi conto di quel che facesse Coman prese il flauto, cominciò a suonare e suonò con un incanto tale, come mai aveva suonato nella vita sua, ma con orrore presto si accorse di non poter più smettere. Compose delle nuove hora ch’egli non aveva mai udite e vide che intanto lo straniero danzava con Jalomitza.
Allora egli iniziò a suonare una Doina talmente triste che tutte le donne avevano lacrime agli occhi. Jalomitza stessa lo pregò di smettere, ma lui continuò a suonare ancora e ancora guardandosi attorno con l’angoscia della morte: il flauto non taceva più. Giunta la sera, la folla si diradava, la gente cominciò a rincasare. Coman suonava ancora e Jalomitza rimase al suo fianco come sotto un incanto. Il pastore straniero era scomparso.
“Smettila Coman, mi spezzi il cuore! Sai bene che anche se non sono innamorata di te ho giurato di non appartenere mai a quell’altro. Smettila Coman, sii ragionevole!”.
Ma Coman continuò a suonare, ora gaiamente come se volesse ridere, ora in modo talmente straziante che l’usignolo dall’umida vallata gli rispondeva. Sempre più vicino, sempre più vicino venne l’usignolo; al chiarore della luna Jalomitza lo vide posarsi sulla testa di Coman e accompagnare il flauto col suo canto. Poi l’uccello si allontanò, attirandola con dolci suoni e Jalomitza lo seguì tutta la notte senza saper dove la portasse.
Coman, col flauto, seguiva il fantastico usignolo addentrandosi nella fredda vallata, fiancheggiando il ruscello.
Fattosi giorno, Jalomitza, spaventata, portò la mano alla testa.
“Dove mi trovo, dunque? Mi trovo molto lontana dalla casa e questa contrada mi è ignota. Coman, dove siamo? Io ho paura.. L’uccello era Bucur!”.
Intanto Coman non rispose, ma suonò un'allegra danza. Allora uno stallone, lanciatosi attraverso la prateria, volteggiò attorno alla giovane ragazza, le offrì il suo dorso, quasi toccandola con la testa.
“Ah, esclamò ella, fossi uccello e potessi volare! Io riconosco il mostro."
Appena finì di pronunciare tali parole (in men che non si dica, ella spiego le ali e spiccò in volò, mutandosi in) una tortorella e volando lontano, molto lontano, verso il mattino pieno di rugiada.
Lo stallone, invece, divenne un falcone e precipitò su di lei da un’altezza vertiginosa per portarla in cattività nei suoi monti.
“Ah, se io fossi un fiore del prato”, pensò la giovine piena di angoscia.
Nello stesso battibaleno ella divenne un nontiscordardime sulla sponda del ruscello, ma il falcone divenne farfalla e si posò sul fiore, gli volò attorno, si cullò su di lui.
“Se io fossi una trota del ruscello!”, pensò Jalomitza.
Nel medesimo istante mutò in una trota, ma la farfalla divenne rete, l’afferrò e la trasse in aria, finché ella credette di morire.
“Vorrei essere una lucertola”, pensò mezza morta la povera fanciulla.
E subito ella strisciò come il vento tra l’erba e i fiori e si credette al riparo sotto ogni foglia, sotto ogni pietra, ma, da sotto la pietra vicina, uscì un serpente che la fermò, affascinandola coi suoi occhi terribili, in modo che ella non riusciva più a muoversi. Lungamente essi stettero così; i fianchi della piccola lucertola battevano fino a rompersi.
“Se io fossi suora! Potrei stare nascosta nel convento”, pensò ella.
In quel battibaleno scorse sopra la sua testa l’alta cupola arrotondata di una chiesa. Ardevano le candele e un canto solenne s’innalzava cantato da un coro di centinaia di suore. Jalomitza era inginocchiata dinanzi ad un'icona; il suo cuore batteva ancora di paura, ma ella aveva già la speranza di essere al riparo nel santuario.
Riconoscente, ella alzò gli occhi all’immagine, ma ecco, gli occhi di Bucur si distaccarono e l’affascinarono talmente, ch’ella non poté allontanarsi, nemmeno quando la chiesa era ormai abbandonata. Fattosi notte, gli occhi dell’icona diventarono luminosi e le lacrime di Jalomitza grondarono senza cessare sulle pietre, sulle quali era inginocchiata.
“Ahimè!”, esclamò, “ nemmeno in questo santo luogo tu mi dai tregua. Oh potessi diventare una nuvola!”.
E subito la vòlta al di sopra di lei divenne la vòlta del cielo ed ella navigò come una nuvola ad un’altezza meravigliosa, ma il suo persecutore prese la forma del vento e la inseguì da nord a sud, da est a ovest, attorno alla terra.
“Meglio essere un granello di sabbia”, pensò infine la piccola nuvola.
Allora ella cadde a terra, granellino di sabbia dorata nel Riul Doamnei chiamato fiume della principessa, giacché l’oro che vi si trova apparteneva una volta alla principessa; ma Bucur diventò un contadino, che attraversava a piedi nudi il fiume alla ricerca dell’oro e pescò nel fondo il granellino. Questo però scivolò prestamente dalle sue dita e divenne capriolo, il quale fuggì verso la foresta, ma, prima di riuscire ad arrivarci, Bucur si fece aquila e, piombato su di lui dall’alto, lo portò tra i suoi artigli al Bucegi, nel suo nido. Appena si sciolse da questa stretta, la giovane cadde in forma di goccia di rugiada su una genziana, ma lui divenne raggio di sole e si diresse su di lei per succhiarla; allora ella, diventata camoscio, si lanciò senza saperlo proprio dentro la grotta dell’incantatore. Egli da cacciatore corse a lei ridendo e mormorò:
“Infine, ti tengo”.
Ella fuggì, addentrandosi sempre di più nella grotta, fino in fondo, dove vide che tutte le pietre attorno a lei erano meravigliose fanciulle dai cui occhi cadevano inesauribili lacrime:
“O fuggi, gridarono centinaia di voci, fuggi da qui, o sfortunata ragazza”.
“Un bacio di lui e tu diverrai pietra come noi!”.
Ma a queste parole, una freccia volò attraversando la caverna e ferì il camoscio fuggente. Nell’angoscia della morte ella esclamò:
“Ch’io sia ruscello! Potrei così sfuggirgli!
E subito si precipitò fuori dalla grotta un selvaggio ruscello; il mago, lanciata una maledizione divenne roccia egli stesso e prese tra le sue braccia il ruscelletto, che continuava a sfuggirgli sempre.
Coman arrivò in questo momento alla grotta, riconobbe la voce della sua Jalomitza che chiamava “Coman! Coman!” e con un ultimo sforzo, scagliò il flauto contro la roccia, sotto la cui forma riconobbe Bucur.
Fu rotto l’incantesimo. Né Bucur, né Jalomitza poté oramai più cambiare forma: oggi ancora ella continua a scorrere via dalle sue braccia avide. Coman eresse una cappella davanti alla grotta, si fece eremita e rimase fino alla morte in contemplazione della sua dolce amata.







OMUL
Chi sa come mai la gente chiamò quella montagna Omul, “l’uomo”. La montagna era talmente piccola o l’essere umano era gigante quanto la montagna? Chi mai sarà stato dunque quest’uomo? Sarà stato un grande eroe che ha vinto delle battaglie? Sarà stato un’eremita che visse in solitudine? Sarà stato un brigante il cui nome incuteva terrore al solo pronunciarlo? Sarà stato un mendicante di cui nessuno sapeva l’origine? O forse un imperatore davanti al quale i re avevano tremato?
L’essere umano.
Ecco la sua storia.
C’ERA UNA VOLTA un fanciullo il quale ardeva dal desiderio di compiere grandi imprese. Nulla gli sembrava né troppo grande, né troppo audace, né troppo grandioso che egli non potesse tentar di raggiungere.
Amava la sua patria come una sposa, donava ai poveri quanto poteva, serviva le dame, sia quelle povere che quelle ricche, proteggeva i deboli, ma tutto ciò era poco, ben poco per accontentare lo slancio del suo cuore.
Infatti diceva che, finché vedrà la gente straziarsi e soffrire, sopperire all’odio e all’inganno, la sua vocazione sarà quella di rendere felice l’umanità.
Sua madre era una buona imperatrice, venerata come una santa; ella aveva avuto il dono di guarire i malati, imponendo su di loro le mani, quindi da vicino e da lontano gli ammalati accorrevano in folla per essere guariti da lei. Per questo motivo ebbe molti nemici e subì varie persecuzioni,  resa sospetta davanti all’imperatore, le fu proibito di guarire, anzi, fu bandita dalla Corte. Ella allora si ritirò sulle montagne, dove la accompagnò tutto il popolo e, malgrado  l’esilio, continuò a guarire migliaia di ammalati. Ben presto però, in parte per colpa del grande dolore, in parte per la troppa fatica, ella esaurì le sue forze, si mise a letto e morì. Gli ammalati non smisero di venire a trovarla, venivano ora alla sua tomba per essere guariti.
Non gli fu dato di portare con sè in esilio il suo unico figlio, però lui di nascosto andava a trovarla, le stava accanto per lunghe ore pendendo dalle sue labbra, ascoltava le sue parole dolci come il miele, guardava attentamente le sue belle mani che diffondevano forza e guarigione.
“Madre, quando rendi sana la gente, la rendi anche migliore?”, chiese egli una volta.
“E’ più facile essere buoni quando si è sani”, rispose ella e accarezzò i bei capelli del figlio
“Ma io sono sano e intanto non sono buono”, disse lui con tristezza.
“L’uomo non è buono tutto d’un tratto, s’impara piano piano ad esserlo, figliolo mio!”.
Così avevano detto quelle sagge labbra che ora si sono chiuse per sempre. Il ragazzo si gettò disperatamente a terra accanto alla morta.
“No, io non ce la faccio, non ce la faccio a vivere senza la mia mammina!”, gemeva tra le lacrime. “Mamma, mammina mia, svegliati, guarisci il mio cuore! Mi fa tanto male! Mamma!”.
La gente stava in silenzio attorno alla morta e al figlio in lacrime, lacrime che nessuno riusciva ad asciugare.
Tanto cosa gli avrebbero giovato le lacrime altrui? Cosa volevi che fosse per lui il fatto che un intero popolo accompagnava nell’ultimo viaggio la bara della loro benefattrice per deporla nel grembo della terra? Era devastato dal dolore, col corpo e l’animo dilaniati. Per lui era scesa la notte, il sole era diventato grigio cupo. Oramai era solo soletto nell'immenso mondo dal quale la sua mamma era stata strappata via.
Dopo il funerale della madre sparì, nessuno sapeva dove fosse andato, l’avevano sentito piangere singhiozzando, l’avevano visto rifiutare la pala con la quale avrebbe dovuto buttare la terra sulla bara di sua madre e poi era scomparso. L’imperatore mandò esploratori per cercarlo in tutti i confini dell’impero, ma questi tornavano senza alcun risultato, sembrava l’avesse inghiottito la terra.
Nessuno conosceva quell'eremita, che si era fatto credere morto per vivere nascosto nelle grotte di Bucegi. Una donna sola sapeva di lui ed ella, l'amica della madre, gli aveva fatto promettere di prendersi cura del figlio quando lei non ci sarebbe stata più. Questa donna era l’imperatrice.
 “Insegnami ad essere buono!”, con tali parole approdò il bimbo orfano nella grotta dell’eremita e lui lo riconobbe subito. Poi si rincantucciò nell'angolo più scuro della grotta e si mise ancora a piangere, quasi volesse consumare in quel pianto i suoi occhi e il suo cuore.
Il vecchio restò in silenzio, ma passava la sua mano ossuta sulle guance, accarezzava la sua barba e muoveva di continuo le sue palpebre appesantite nella lotta con le lacrime, che volevano assalire i suoi occhi.
“Emmanuel, figliuolo mio”, disse infine, “Sii come tua madre, allora sarai buono”.
“Ma lei non aveva un’anima così ardente, selvaggia ed impetuosa come la mia”.
“Ne sei così sicuro? Chi te l’ha detto che ella non sia stata un giorno come te?”.
“Come me? Questo è impossibile!”.
“Lei aveva tanta energia e nella giovinezza l’energia è impetuosa. Tu non sai quanto ella abbia sofferto”.
“Mai quanto me”.
“Figliuolo, figliuolo! La sofferenza ti mette solo adesso e per la prima volta alla prova e credi che nulla sia uguale alle tue pene. In questo momento tu pensi solo a te stesso. Questo lei non lo aveva mai fatto.”
“A chi mai dovrei pensare? Io non ho più nessuno al mondo!”.
“A chi?” .
L’eremita indicò verso la vallata e d’un tratto sfilarono davanti a loro le immagini di tutti i mali e di tutte le sofferenze che gravavano sulla terra: infermi, ciechi, storpi, poveri, prigionieri, gente in pericolo, malati, donne con bambini che piangono; giorno e notte durò la sfilata delle immagini, tre volte si è alzò e tramontò il sole e tre volte la luna, ma il proseguirsi delle varie forme di sofferenza durava ancora. Emanuel abbassò lo sguardo e non proferì una parola. L’eremita posò allora la sua mano sugli occhi stanchi del giovane e questi si chiusero immediatamente.
Egli prese poi in braccio il bimbo e lo portò all’interno della grotta, gli fece bere un po’ di latte, quindi lo lasciò riposare. Dopo due giorni il fanciullo si svegliò fresco e forte.
“Sai tu perché devi vivere?”, gli domandò l’eremita.
“Sì”, disse il giovane con voce trasognata, “ho fatto un sogno così meraviglioso che mi sembra di aver girato l’intero mondo”.
“Ora va e servi. Nessuno ti riconoscerà e se hai bisogno di me, basta che ti corichi pensando a tua madre e sarai subito presso di me. Evita di fare qualsiasi malvagità perché in quell’istante il volto di tua madre scomparirà e non ritroverai più la strada che porta da me.
Con mille sacre promesse Emanuel si congedò dall’eremita e si avviò verso la valle in cerca di persone da servire.
Non arrivò molto lontano quando incontrò una vecchia signora che trascinava sfinita alcuni fagotti pesanti, fermandosi spesso per riprendere fiato. Lei guardò di sbieco il bel giovane che la salutò con gentilezza e le chiese cortesemente se potesse prendere e portare quel peso per lei fin dove volesse.
“Però è pesante e la strada è lunga”.
“Un motivo in più per darvi una mano”, soggiunse Emanuel gentilmente. Si caricò dunque addosso tutto il peso e partì così velocemente che la signora faceva fatica a tenere il passo. Camminarono fino all’imbrunire quando arrivarono ad una piccola casetta. Emanuel depose il carico, salutò l'anziana signora e volle allontanarsi. La donna lo misurò con attenzione: “Vuoi andare via senza nessuna ricompensa?”, domandò. “E dove pensi di passare la notte?”.
Emanuel indicò la terra: “C’è abbondantemente spazio per dormire in questo mondo”, le rispose sorridendo.
“No, figlio mio, non se ne parla nemmeno, tu dormirai nella mia casetta, dove troverai da mangiare e da bere, ho abbastanza per due persone."
Ella lo ospitò gentilmente e gli chiese da dove venisse e cosa volesse fare.
“Vengo dall’eremitaggio e ora voglio servire”.
“E che ricompensa aspetti in cambio?”.
“Io? Nessuna”.
Ella gli preparò il letto. Egli dormì dolcemente per tutta la notte e, appena spuntò l’alba, volle allontanarsi senza rumore per non svegliare l'anziana signora. Invece lei era già in piedi e gli aveva preparato un po’ di latte e di pane. Emanuel si sentì imbarazzato. La donna gli disse:
“Non rifiutare ciò che è buono, fosse esso solo un quarto d’ora di sonno prendilo, se l’occasione si presenta. Io non voglio lasciarti andare senza ricompensa perché tanto troverai presto ingratitudine sulla tua strada. Ecco il mio dono: ogni bene che farai agli altri, lo farai per la tua gioia, per te sarà uguale se ricevi gratitudine o meno, tu sarai felice per il solo fatto di aver fatto del bene, ma se infliggerai il male agli altri, quel male si ritorcerà contro di te, sia se essi si lamenteranno sia se non lo faranno. Pensaci bene figlio mio!”.
Ad Emanuel questo dono sembrò al quanto insolito ed era indeciso se rallegrarsene oppure no. Ringraziò però la donna e s’incamminò.
Incontrò sulla strada un uomo che giaceva mezzo morto, cadendo da una rupe si era sfracellato. Non aveva ormai che la forza di gemere: “Mio bimbo! mio povero bimbo!”.
Emanuel lo raccolse con attenzione e lo portò a casa, con tal pesante fardello la lunga strada gli pareva interminabile. Sull’uscio della casetta stava una leggiadra pulzella come lui giammai aveva visto. Non era più bambina, ma neanche giovane donna: aveva dei grandi e sognanti occhi scuri, i suoi capelli erano di un nero corvino e ondeggiavano attorno alla sua testolina. Ella alzò le sue piccole, delicate mani gridando: “Padre mio!”.
Il suo volto avorio diventò bianco, come il muro della sua cassetta.
“Non c’è nulla di grave”, tentò di tranquillizzarla Emanuel. “Non si è fatto tanto male e noi lo faremo guarire presto”.
“Raba, bimba mia!”, gemette il ferito, “Non piangere se io morirò. Tu devi ancora essere felice, tanto felice”, Dicendo codeste parole egli perse coscienza per molti giorni. Emanuel non si mosse dal suo capezzale, lo curava con la sollecitudine di un figlio.
La piccola Raba gli ubbidiva in tutto, come a un fratello. Sperava che il babbo si salvasse perché ella non aveva nessun altro nel mondo e sarebbe rimasta derelitta sulla terra, diceva con voce soffocata dalle lacrime.
Giorno e notte tutti due vegliarono presso il morente, spesso Raba poggiava la testolina sul cuscino del suo babbo e s’addormentava esaurita. Una volta, mentre lei era così assopita, il malato tornò in sè, strinse la mano di Emanuel e mormorò: “Raba!”. Il giovane fece un segno di assenso e strinse la mano smagrita del moribondo, il quale richiuse gli occhi per non aprirli mai più. Emanuel si accorse della morte, ma restò in silenzio per non disturbare il sonno dolce della bimba, tanto la poverina la aspettava un risveglio terribilmente doloroso.
Si attanagliava e non sapeva cosa fare con l’orfana. “Oh, se vivesse mia madre!”, pensò e, stanco, si stese sul suolo. In un battibaleno egli si trovò nella grotta dell’eremita che lo accolse dicendo: “Sì, portala da me, voglio tirarla su per te”.
“Quindi sai tutto?”, domandò Emanuel stupito.
Conosco tutto ciò che stai attraversando, in quanto tua madre, che accompagna tutti i tuoi passi, me lo racconta. Lascia da me la bambina e tu continua a servire”.
Emanuel credette di avere soltanto sognato, poiché un movimento di Rada lo svegliò.
“Babbo!”, gridò ella disperata quando osservò il viso del defunto.
Il suo giovane protettore le prese la mano e disse:
“Ti ha affidato a me, sei ora mia sorella e sei mia figlia. Conosco un posto dove sarai sicura. Vuoi seguirmi?”.
“Dovunque tu vorrai”, disse tra le lacrime la bambina, “Non ho più niente e nessuno”.
Seppellirono il padre morto, poi, mano nella mano, salirono alla grotta. Arrivarono a notte inoltrata. Emanuel sentì la piccola mano tremare nella sua e diventare fredda.
“Non temere”, le disse, “Ti porterò presso un uomo molto buono che ti vorrà molto bene”.
L’eremita accolse Rada con tanta tenerezza che svanirono tutte le sue paure e ben presto chiacchieravano nella più serena confidenza.
All’alba, dopo un sonno rinfrescante, Emanuel fu svegliato dolcemente dall’eremita con tali parole:
“Risparmia alla bambina il dolore di un nuovo addio. La saluterò io per te. Vai, il lavoro ti attende!”.
Emanuel guardò con tenerezza la dormiente fanciulla. Le sue lunghe ciglia nere ombreggiavano le sue guance smagrite, respirava così leggermente che il petto si sollevava appena.
“Vorrei tanto restare. E’ bello qui!” ,sussurrò il giovane.
Ma l’eremita lo cacciò via delicatamente, accompagnandolo sull’uscio.
“Quel che tu hai fatto non è nulla ancora nulla, figlio mio. Non ti sei ancora meritato il riposo”.
Emanuel ridiscese nella vallata ed incontrò un servitore di suo padre, l’Imperatore, che però non lo riconobbe. Egli era impegnato nel costruirsi un tugurio con rami e con argilla, mentre la sua donna si prendeva cura di un paio di bambini.
“Cosa ci fai tu qui?”, chiese Emanuel all’uomo che, sebbene avesse la faccia solcata dal dolore e sembrasse di dieci anni più vecchio,  lui l’aveva subito riconosciuto, per non tradirsi doveva trattenersi a non chiamarlo col nome “Ilie”.
“Io non sono stato sempre così povero come tu mi vedi adesso; per lunghi anni ero servitore dell’Imperatore, avevo anche portato suo figlio tra le mie braccia, ma una cattiva stella ci perseguita, sono stato licenziato e mi trovo con moglie e bambini sulla strada.
“Come mai?”.
“Perché il giovane principe è scappato, chissà dove e tutti coloro che non sono riusciti a trovarlo, sono stati licenziati. L’imperatore non si è mai interessato di suo figlio fin quando viveva con lui. Ora deve cadere il cielo se non lo trova, ma lo dimenticherà presto, perché sta per risposarsi, e quando la nuova imperatrice gli darà un figlio, egli non penserà più all’altro, però noi resteremo poveri e sfortunati”.
“Magari io posso aiutarvi!”.
“Tu?”, chiese Ilie guardandolo con disprezzo, “Come potresti aiutarmi?”. “Come ti chiami? Chi sei tu?”.
“Mi chiamo Manoil e voglio servirti. M’intendo di giardinaggio”.
“Manoil! Il mio giovane principe si chiamava Emanuel. Che lo raggiunga la mano di Dio, lui è la causa della mia sventura. E tu non sei altro che un vagabondo. Mi porterai solo pena e imbarazzo”.
“Vedrai, mettimi alla prova. Mi potrai cacciare in qualsiasi momento, se sarò un servo inefficiente”.
“Tu mangerai il pane dei miei figli, senza dar niente in cambio!”.
“Proviamo!”.
Ilie alzò le spalle.
“Senti però, vagabondo, giuro sul cielo, se mi fai anche solo il minimo danno o mi indebiti, ti tratterò senza alcun riguardo, proprio così come anche altri trattarono me”.
Non era ancora calata la sera che Emanuel aveva già raccolto le erbe aromatiche, cucinato la mamaliga, zappato un pezzo di terra: era di un'incredibile laboriosità. Egli corse in città ed impegnò il suo mantello in cambio di sementi di granturco e di una capra che poi portò in casa con tanta allegria. Quanto erano contenti i bambini e quanto erano grati ad Emanuel! Ma Ilie continuava a brontolare, non rivolgeva mai una buona parola al giovane e solo raramente gli dava da mangiare.
Solo quando gli si ribadiva la sua vecchia posizione, allora diventava amichevole e raccontava lungamente e col gusto dell’opulenza dei pasti e dei buoni bocconi che ne cadevano per i suoi figlioli, della gente che gli faceva sperticate riverenze per ricevere prima un'udienza, dell’imperatore che era sempre di cattivo umore, guardava accigliato e rimproverava aspramente i suoi famigliari per la minima sbadataggine.
Ad Emanuel veniva da ridere pensando a come Ilie lo trattava chiamandolo vagabondo e pezzente ad ogni occasione.
“E il principe” continuava Ilie “era della stessa pasta. Faceva ogni sorta di cattiverie e stupide buffonate, e quando gli si voleva chiedere conto, spariva per accoccolarsi dalla madre che lo aveva viziato, come fanno tutte le madri”, qui Ilie lanciò uno sguardo pungente alla moglie, “e che l’imperatore aveva ripudiato per causa  del cattivo stile di vita e per i suoi rapporti con gente da nulla”.
A queste parole Emanuel gridò come fosse stato morso da un serpente:
“Menti! Ella era una santa!”.
Ilie guardò con sorpresa il giovane e chiese:
“Che ne sai tu dunque, Manoil?”.
“Io…io…Io ho visto come guariva gli infermi. Io ho…”
“Ebbene?”
“L’ho visto adorata da tutti quei poveri”.
“Non mi voleva particolarmente bene e suo figlio mi ha pure picchiato una volta, non l’ho dimenticato neanche oggi, perché non ho potuto renderglielo e non volevo accusarlo, sapendo che sarebbe stato duramente punito. Adesso rimpiango di esser stato troppo buono, giacché è per lui che io sono nella sventura.”
Dove Emanuel era più amato era al mercato, dove portava le verdure da lui coltivate per poi dare il guadagno a Ilie. Ben presto era un asino a portargli i cesti, mentre un altro giorno Emanuel portò a casa una mucca.
Le donne e le fanciulle gli donavano dei fiori e i bambini lo chiamavano da lontano.
“Manoil! Manoil! Vieni, il mio cavalluccio si è spezzato! La nostra capra è malata! La mamma ha del lino e vuol pregarti di venderlo, tu ne trarrai miglior partito di lei. Mia sorellina è caduta e chiama sempre Manoil perché tu hai guarito il Sandu.
Tutti avevano bisogno di lui e per tutti lui aveva del tempo. Questa cosa irritava Ilie perché era geloso e voleva averlo solo per sé. Egli temeva sempre che il suo servo non facesse delle generosità a suo danno, benché Manoil coltivasse per sé un pezzo a parte. Egli aveva trovato alcuni poveri per i quali era la provvidenza. (poco chiaro, potrebbe essere: egli temeva che il suo servo fosse generoso utilizzando i suoi soldi e dunque danneggiandolo, benchè Manoil regalasse i guadagni del suo lavoro, dato che coltivava una parte per sè?)
Aveva scoperto uno sgabuzzino così piccolo, dove appena entrava un misero letto. Là giaceva una fanciulla cieca e inferma. Ella era caduta parecchie volte, così malauguratamente che si era rotte le braccia in parecchi punti e queste erano così malamente riassestate che non avevano più la forma umana. Infine si era rotta anche una gamba, così stava sempre a letto a sferruzzare. Sua sorella era fuori per l’intera giornata a lavorare e quando la sera rincasava e si accorgeva che la cieca non aveva lavorato abbastanza, la picchiava. Le grida della sventurata avevano attratto l’attenzione di Emanuel. Egli dette una severa lezione alla cattiva sorella. Le lasciò del cibo, ma non si allontanò solo quando vide mangiare la cieca.
Inoltre aveva incontrato una donna infelice con un paio di figliuoli, il cui marito era in prigione. Emanuel ne aveva udito parlare e aveva sentito dire che quella donna non permetteva che alcuno andasse a trovarla. Egli dovette bussare lungamente invano e solo quando le promise di portare buone nuove di suo marito, ella acconsentì ad aprire. Era talmente malata che aveva dovuto trascinarsi sulle ginocchia per giungere fino alla porta. Un bambinello giaceva nella paglia e sputava nel cucchiaio di zinco dove beveva anche. Una bimbetta piangeva in un angolo, mentre un altro bambino dagli occhi sbarrati e dalle guance febbricitanti tossiva senza sosta.
Emanuel sentì stringersi il cuore alla vista di tanta miseria, ma egli non varcava mai una soglia invano. Come un angelo benedetto, elargiva la pace e la gioia, e ben presto incuria e miseria mutavano dapprima in una povertà laboriosa, poi in un certo benessere.
Qui portò erba medica e qualcosa da lavorare ogni giorno a casa; giacché la donna si vergognava di mostrarsi davanti agli altri.
Riuscì anche a procurare lavoro e pane ad un uomo che, dopo la prigione di un anno, era stato lasciato in libertà e, non trovando un impiego in nessun luogo, era quasi ridotto a morir di fame coi suoi figliuoli.
Emanuel era riuscito con la sua parola convincente, a dissipare la diffidenza che quell'uomo ispirava.
Erano innumerevoli le sue opere di beneficenza: i fanciulli di Ilie gli volevano molto bene e la moglie chiedeva sempre l’aiuto di Manoil,  cosa che rendeva Ilie terribilmente geloso.
Egli trattava il giovinotto più male di giorno in giorno e lo caricava d’un lavoro inaudito, ma Emanuel non si lamentava. Non sospettava nemmeno che Ilie potesse essere geloso, pensava solo che forse il benessere generava in lui quella durezza di cuore.
Un giorno, Emanuel era di nuovo al mercato. Era riuscito a vendere tutte le mercanzie di Ilie ed anche le sue ed aveva già distribuito il suo guadagno tra i bisognosi, quando un uomo che aveva perduto le braccia, avvicinatosi a lui, chiese l'elemosina.
Emanuel non aveva mai toccato nulla di Ilie, ma per questa volta credette di poterlo fare e mise un po’ di denaro nella tasca dell’infelice. Proprio in quel momento fu preso per il collo.
“Ah, ladro miserabile!”, gridò Ilie schiumando di rabbia, ti ho colto alla fine sul fatto e ti farò vedere furfante, quel ch’io penso di te, che mi rubi il mio avere e allontani da me mia moglie.
Lo picchiò col pugno di ferro ed il nodoso bastone. Il sangue ribolli sul viso del giovane volle mettersi sulla difensiva, ma riflettè e lasciò cadere le braccia sotto quella gragnuola di colpi. Quell’infamia non durò a lungo perché, radunatasi la gente, la sorella della fanciulla cieca arrestò coraggiosamente le braccia d’Ilie, gridando:
“Non ti permettere di maltrattare il tuo e il mio benefattore! Vergognati!”.
Allora Emanuel volse ad Ilie il viso pallido come la morte e disse con occhi fiammeggianti:
“Ci lasciamo Ilie, servo mio!”
E scomparì.
Ilie, barcollando portò le mani alla testa.
“Ahimé, balbettò, egli non era altro che il nostro principe”.
Tutto il mercato fu in subbuglio, molti corsero per ritrovare il principe, l’amato Manoil. Altri insultarono e picchiarono Ilie ché aveva distrutto con i suoi modi brutali la felicità di tutti. Ilie stesso fu inconsolabile quando vide che Manoil era introvabile.
Il giovane era fuggito di corsa così in fretta quanto la sua giovane età permetteva, era andato lontano in un campo di granturco, dove, sotto le grandi foglie, si gettò a terra e pianse come non aveva mai pianto dalla morte di sua madre.
“Ora”, esclamò, “ora comprendo quanto sia amara l’ingratitudine” e strinse il suo pugno tra i denti finché ne uscì il sangue.
“O madre, madre, io posso tutto sopportare fuorché la vergogna!”.
Appena pronunciato questo nome, apparve dinanzi a sè l’eremita che gli posò la mano sulla spalla:
“Guarda”, gli disse, “riconosci tu ancora la tua piccola Rada?”.
Emanuel abbagliato, guardò la meravigliosa fanciulla, la quale, dopo averlo osservato con l’umido fuoco dei suoi profondi occhi neri, riabbassò le ciglia e parve che un velo si stendesse sulle guance rosse. Egli non riuscì a proferire la parola; sorpreso e ammirato, dimenticò perfino di salutarla e continuò a guardarla.
“Nevvero”, disse l’eremita, “che sono stato miglior custode io del tuo tesoro, che non sei stato tu di quello del tuo servo? Io mica l’ho donato ad alcuno!”.
Emanuel guardò spaventato il vecchio e chinò la testa, come fanciullo acerbamente rimproverato. “Non si può fare beneficienza nel nome di un altro”, proseguì il vecchio, “Questo è stato il tuo errore, figlio mio”.
“Quanto l’ho duramente espiato”, disse il giovane con le guance ardenti e gli occhi in lacrime.
“Ma qui ti aspetta la tua ricompensa, che però non te la sei meritata ancora”, soggiunse l’eremita, e indicò nuovamente verso Rada, i cui sguardi andavano dall’uno all’altro con sorpresa.
“E adesso passiamo pure qualche ora di gioia prima che tu torni al lavoro”.
Rada aveva preparato un pasto squisito all’esterno della grotta. L’intera grotta era stata trasformata dalle sue mani di fata, all’interno pendevano tappeti e l’eremita portava una camicia da lei tessuta e da lei ricamata. Ella stessa era vestita con molto decoro e contegno e gli fece vedere con orgoglio i libri che aveva letto insieme al loro amato maestro.
Emanuel diventò nuovamente triste:
“Divento ogni giorno più ignorante”, disse. “Non ho tempo di studiare. Non sarò degno di te, Rada!".
“Trovati un altro lavoro”, disse il solitario, “e impiega ciò che guadagni per farti un'istruzione”.
“E i poveri?”, chiese Emanuel.
“Ci sono vari modi per fare del bene, le elemosine spirituali valgono le altre.
Emanuel aveva passato qualche ora felice nella grotta, ma il sole stava calando sull’orizzonte, dipingendo le montagne di color viola e porpora, mentre la valle s’avviluppava d’ombre azzurrognole.
“Devi andare prima che la sera scenda completamente”, disse l’eremita.
Emanuel guardava con gli occhi tristi lontano. Questa volta aveva il cuore talmente pesante. Rada lo attirava come una calamita e le sue ultime esperienze erano state talmente amare.
L’eremita notò quest’esitazione, ma finse di non essersene accorto e affrettò subito e con severità la partenza. Emanuel, indignato nell’intimo suo di quella durezza, trovava che il mondo era ben cambiato.
Discese lentamente, più lentamente che mai. Più di dieci volte egli guardò indietro. Rada, avvolta dalla rosea luce del tramonto, gli faceva segni di addio. Egli compresse con la mano i battiti del sul cuore che gli si stringeva in uno spasimo prima ignoto.
Perché l’eremita l’aveva cacciato via così di notte? Perché non gli era permesso di attendere l’indomani? Perché doveva egli apprendere con tanta pena quella scienza dell’abnegazione che avrebbe dovuto renderlo degno dell'incantevole vergine? La durezza dell’eremita era incomprensibile.
Così pensava Emanuel; poi si coricò sotto una roccia e si addormentò.
Nel sogno vide sua madre come guariva gli innumerevoli malati, apponendo sul loro capo le sue mani, si svegliò di soprassalto e gridò al cielo stellato:
“Diventerò un medico! Cosi potrò soccorrere i sofferenti!”.
Discese nella vallata ed entrò da un farmacista:
“Posso essere il Suo apprendista?”.
“Che cosa sai fare?”.
“Conosco le erbe mediche, le so piantare e coltivarle, nient’altro”.
Il farmacista si mise a ridere, ma non rise a lungo giacché il giovane uomo che ora diceva di chiamarsi Manea, dava prova di una notevole intelligenza e di uno zelo straordinario.
Oltre a lavorare, egli studiava ogni notte e dava anche, gratuitamente, delle lezioni ai poveri fanciulli.
Erano queste le sue elemosine perché impegnava i suoi piccoli guadagni per la sua istruzione.
Non abitava da molto tempo qua, quando una grande festa fu celebrata nell'intero paese. L’imperatrice aveva regalato un figlio al marito, che chiamarono Trandafir e che avrebbe dovuto rimpiazzare il primogenito scomparso. Emanuel sorrise con malinconia: “Ormai non manco più a nessuno”, disse tra sé e sé e lavorò con maggior lena tutta la notte.
“Un buon medico ha il suo indiscutibile valore. Lasciamo che sia imperatore il mio fratellino”.
I suoi sforzi sovrumani non tardarono ad essere ricompensati; gli venne in aiuto anche il suo naturale talento, ereditato dalla madre. Non aveva ancora finito i suoi studi, ma dai paesini vicini e lontani veniva chiamato dovunque fosse un ammalato. Spesso pensava a Rada col più vivo desiderio di rivederla, ma era intimamente convinto che l’avrebbe riveduta appena sarebbe stato degno di lei. In questo momento, l’amore per la scienza prevaleva su ogni altro sentimento. Per la prima volta nella vita egli non voleva solamente servire il suo prossimo, ma voleva realizzare se stesso e voleva farlo con le sue proprie forze.
I suoi lineamenti divennero più decisi e marcati segnando il continuo sforzo intellettuale, le numerose veglie avevano reso i suoi occhi lucenti e profondi.
Egli era anche amato come prima lo era stato Manoil, e quando sentivano il nome del dottore Manea, tutti gli sguardi si rischiaravano e nei cuori addolorati rinasceva la speranza.
Or accadde che il piccolo erede al trono Trandafir si ammalò così gravemente che tutti temevano il peggio.
L’imperatrice invece, aveva sentito del giovane medico che tutti i bambino amavano e mandò a cercarlo. Egli entrò col cuore palpitante nel castello paterno, ove ogni passo gli ricordava la propria infanzia e donde egli stesso si era bandito da solo in un momento di collera e d’infantile caparbietà. Suo padre non lo riconobbe e lo guardava ansioso nel viso, quando fu presso al letto del fratellino che lottava con la morte.
Emanuel lo osservò con attenzione poi disse:
“Io credo che si possa guarirlo”.
Il viso, di solito duro e altezzoso dell’imperatrice, viso dinanzi al quale tremava anche il suo sposo, s’inondò di lacrime.
Emanuel stava giorno e notte accanto al piccolo Trandafir.
Una sera il bimbo cadde in un sonno calmo e profondo, Emanuel pregò i genitori di riposarsi, giacché il pericolo era finito: egli avrebbe vegliato.
In mezzo alla notte, il piccolo malato si svegliò, tese le braccia verso il fratello, gliele passò attorno al collo e lo baciò.
“Emanuel”, disse il bimbo con voce chiara, così dolcemente, così teneramente come da anni questa parola non era stata mai più pronunziata.
Poi il bimbo si addormentò di nuovo.
Al mattino egli era fuori pericolo: i genitori testimoniarono la loro riconoscenza al salvatore del figlio, insistendo che egli restasse al castello. Il giovane medico non si lasciò persuadere né dalle preghiere né dalle promesse e l’imperatrice, che prima l’avrebbe stretto volentieri fra le braccia, finì con l'irritarsi per la sua partenza.
Emanuel allora pensò di andare a trovare la sua Rada per sposarla. Egli credeva finalmente di averla meritata, quando l’eremita venne da lui:
“Ragazzo mio”, gli disse e la barba gli tremava attorno alle labbra “temo che la ricompensa meritata ti sia sfuggita. Avevo inviata Rada giù nella valle perché si perfezionasse in tutte le virtù della donna ed ora ho saputo che ella vuole sposare un altro."
Emanuel sentì il sangue salirgli in testa, gli occhi gli lampeggiarono di sdegno.
“E’ stata dunque questa la tua sollecitudine paterna?”, gridò, “Oggi che volevo riceverla dalla tua mano, tu mi sottometti a questa inumana prova. Non mi hai raccontato che frottole! Oh Dio! Sento di impazzire!” Egli scosse il vecchio e gli diede uno spintone. Il povero uomo vacillò e andò a urtare con la testa contro un angolo acuto, dalla ferita sgorgò il sangue. Emanuel si spaventò di quel che aveva fatto, si buttò in ginocchio accanto al vecchio e mise in atto tutto il suo ingegno per farlo ritornare a sè. Finalmente questo aprì gli occhi e, muovendosi con immane fatica le labbra, disse:
“Figlio ingrato!” disse, poi sospirò per l’ultima volta e morì fra le braccia del giovane uomo disperato. Emanuel lo chiamò coi nomi più teneri, lo pregò di perdonarlo, ma, ahimè, era troppo tardi! Egli aveva perduto tutto: padre, amico, fidanzata, tutto: e con loro aveva perso anche il suo cuore pieno d’amore ed innocenza.
Scomparve dalla contrada e s’immerse nella solitudine della montagna Bucegi. Questo non durò a lungo, giacché fu riconosciuto perché non riusciva a trattenersi dal guarire i montoni malati dei pastori. Presto arrivava da lui anche la gente e lo stimavano come se fosse un santo. Non lo chiamavano che l’Uomo e quando vi era un ammalato o un infelice, si correva a cercare l’uomo. Egli era sempre serio come se avesse cento anni. Aveva dimenticato di essere giovane, tanto gli pesava sul cuore la colpa irreparabile. Da quel momento egli aveva smarrito nell’oblio l’immagine di sua madre. Viveva così, portando in silenzio il peso del suo immenso dolore e malgrado faceva quanto bene poteva, lui, l’Uomo straordinario verso cui gli sguardi s’innalzavano con timidezza e con profondo rispetto, nonostante le loro parole di riconoscenza, egli restava sempre sconsolato giacché udiva nel suo cuore quel “Figlio ingrato!”, sussurrato dalle labbra del suo unico amico.
Il piccolo Trandafir si ammalò di nuovo, però il buon dottore Manea era scomparso e siccome il piccolo malato chiamava incessantemente  “Emanuel!” tutti dicevano che probabilmente era presto per morire, giacché diceva il nome del suo fratello morto che egli non aveva mai incontrato.
Infatti il bimbo morì davvero dopo qualche giorno e, spezzato dal dolore morì anche il padre. L’intero popolo era sconvolto perché non aveva più un imperatore.
Allora si sparse una notizia meravigliosa.
“Emanuel è vivo!”, ripetevano di villaggio in villaggio, di città in città. La gente non sapeva chi avesse sparso la notizia, ma molti si ricordavano di aver visto una meravigliosa fanciulla girovagare in compagnia di un vecchio. Chiedevano a tutti di Emanuel, cercavano le sue tracce. Così arrivarono a Bucegi, dove i pastori mostrarono loro il cammino verso la grotta dell’Uomo.
Lo trovarono seduto, la testa appoggiata sulla mano, guardando con cupa malinconia dinanzi a sè. Essi restarono per lungo tempo a contemplarlo. Poi egli sollevò lo sguardo e gridò:
“Rada!...Ilie!... Voi qui? Cosa volete da me?”.
“Oh Maestà!”, si lamentò Ilie, buttandosi in ginocchio davanti a lui. “Potrà mai Sua Altezza perdonare la mia ingratitudine?”.
Emanuel sobbalzò dapprima, poi disse:
“Io perdonare? Sia lodato Iddio che egli mi abbia dato il modo di farlo! Ma te…Rada dov’è il tuo uomo?”. Un espressione amara contrasse le sue labbra.
“Io non ho marito, ti sono stata sempre fedele e ti ho cercato in tutto il paese, il cui imperatore tu sei, siccome tuo padre e il tuo fratellino sono morti”.
Emanuel si alzò bruscamente e dovette poi appoggiarsi alla roccia:
“Rada”, disse egli, “Io non sono degno di te. Io sono l’assassino di nostro padre.”
“Lo so”, disse Rada, “lo so da molto tempo. Egli me l’aveva raccontato in sogno ed è stato sempre lui a dirmi di cercarti”.
“E tu mi vuoi?”.
Emanuel voleva nascondere il suo viso tra le mani, ma ella ne lo impedì e si gettò fra le sue braccia.
Allora risuonarono da tutte le parti grida entusiaste: “Evviva il nostro imperatore! Il nostro buon imperatore! Il padre dei poveri, il protettore dei deboli, il salvatore di tutte le miserie! Viva il nostro imperatore!”. E d’un tratto tutti quelli ai quali aveva fatto del bene lo circondarono, gli baciarono le mani, le vesti, i piedi chiamandolo Manoil, Manea, dottore ed imperatore. Egli era come stordito e guardava Rada che annuiva. Poi la prese per mano e disse:
“Ecco la vostra imperatrice, la donna più devota. Senza di lei voi non mi avreste mai trovato”.
Una folla infinita li accompagnò fino al castello, la fiumana di gente si ingrossava sempre di più sulla strada, ognuno veniva a raccontare i suoi benfatti, che, per la maggior parte, lui aveva pure dimenticato da un po’.
Ilie ridiventò il suo servo e fu incaricato di cercare tutti quelli che furono cacciati dal servizio per colpa sua. Rada visse felice e contenta al suo fianco e con i suoi baci cancellava le rughe che gli solcavano la fronte quando il pensiero gli correva alla peggior ora della sua vita.
Essi ebbero molti bei bambini.
Nemmeno i figli dei loro figli vivono più, la montagna ancor oggi si chiama Omul, l’Uomo.


Carmen Sylva è lo pseudonimo letterario della regina della Romania 

Traduzione dal originale Pelesch Marchen @ Lucia Teszler con l'aiuto di Paola Silvestri  e Oronzo Turi