giovedì 14 maggio 2015

Capellidoro




La fiaba di Capellidoro, della BuonaCerva e di BelGatto

I. Capellidoro
C’ERA UNA VOLTA UN RE  chiamato Bonaccione. Lui era amato da tutti perché era buono, solo i malvagi lo temevamo perché era giusto. La sua donna, la regina Dolcetta, era altrettanto buona quanto lui. Loro ebbero una piccola principessa, chiamata Capellidoro per via della sua magnifica chioma bionda. Ella era buona quanto il suo papà, il re, e dolce quanto la sua mamma, la regina. Purtroppo la   regina morì poco tempo dopo aver dato alla luce Capellidoro e il re la pianse lungamente. Capellidoro era troppo piccina per capire che aveva perso la mamma; lei continuava a poppare, ridacchiare, giocare e dormire tranquillamente. Il re amava molto Capellidoro e anche per ella nessuno al mondo era importante quanto il suo papà. Il padre le regalava i più bei giocatoli, i cioccolatini più buoni, la frutta più deliziosa. Capellidoro cresceva felicemente.
          Un giorno re Bonaccione ascoltando i suoi sudditi parlare tra loro, intuì che essi desideravano che lui si risposasse e che desse al regno un figlio come erede al trono. All’inizio il re non volle nemmeno sentire, però poi, all’insistenza dei suoi sudditi, acconsentì. Chiamò a sé il suo consigliere di nome Leggerone e gli disse:

“Caro amico, vogliono che io mi risposi. Io però sono ancora così afflitto per la morte della mia cara Dolcetta, che non ce la faccio ad occuparmi di persona della ricerca di un’altra donna. Incarico Lei di trovarmi una principessa che potrebbe rendere felice la mia cara Capellidoro. Non chiedo da lei nient’altro. Vada dunque carissimo Leggerone e quando avrà trovato una donna perfetta, la chieda in sposa per me e me la porti.”
Leggerone partì immediatamente, andò da tutti i re e vide molte principesse: brutte, musone, malvagie, quando infine arrivò alla corte del re Turbolento. Egli aveva una figlia bella, intelligente e che sembrava buona. Leggerone la trovò incantevole e la chiese subito in sposa per re Bonaccione, senza informarsi se colei era veramente così amabile come sembrava.
Re Turbolento era molto felice di potersi sbarazzare di sua figlia, che aveva invece un carattere perfido e prepotente e inoltre gli creava tanti guai, quindi la diede in fretta a Leggerone purché se la portasse nel regno di Bonaccione.
Leggerone partì conducendo con sé la principessa Falsetta e quattromila muli che portavano la dote e i gioielli della principessa.
Arrivarono dal re Bonaccione che fu avvisato prima del loro arrivo attraverso un corriere; il re venne incontro alla principessa. Egli la trovò carina, ma comunque lontano dall’avere un’aria dolce e buona come la povera Dolcetta! Quando Falsetta vide Capellidoro, la guardò con un sguardo così malvagio che la povera bimba, che aveva già tre annetti, ebbe paura e si mise a piangere.
“Cosa c’è?” domandò il re. “Perché la mia dolce e saggia Capellidoro piange come un bambino viziato?”.
“Babbo, caro babbo”, piangeva Capellidoro, nascondendosi nelle braccia del suo papà. “Non darmi a questa principessa! Mi fa paura, ella ha lo sguardo così cattivo.



Il re, incredulo, guardò la principessa Falsetta che non poté cambiare abbastanza in fretta la sua espressione, cosicché egli poté osservare quello sguardo crudele che intimoriva tanto Capellidoro. Decise immediatamente che la sua bambina non dovesse


  vivere con la nuova regina e la lasciò con la sua tata che l’aveva accudita fino ad allora e le voleva tanto bene. La regina quindi vedeva di rado Capellidoro e quando capitava di vederla non riusciva a nascondere il suo odio.
Dopo un anno la Regina Falsetta diede alla luce una bimba con i capelli neri come il carbone e la chiamò Brunettina. Brunettina era carina, ma molto meno bella di Capellidoro. In più era malvagia come sua madre e come ella non sopportava Capellidoro; le combinava infatti tanti guai: la mordeva, la tirava per i capelli, le distruggeva i giocattoli, le sporcava i bei vestitini. La buona piccola Capellid’Oro non si arrabbiava mai e trovava sempre scuse per Brunettina:


“Papà”, diceva ella al re, “non sgridarla! Lei è cosi piccina, non sa che mi fa male distruggendomi i giocattoli… Mi morde solo per scherzo… Mi tira i capelli solo per giocare.”
Il re Bonaccione abbracciava sua figlia e non diceva nulla, ma vedeva che Brunettina faceva quelle


cose per cattiveria e Capellidoro la perdonava perché era molto buona. Egli amava sempre più Capellidoro e sempre meno Brunettina.


La regina Falsetta, vedeva anche lei tutto questo, ma odiava sempre di più la povera Capellidoro e, se non avesse temuto il re Bonaccione, l’avrebbe fatta diventare la bambina più infelice del mondo.
Il re ordinò che Capellidoro non restasse mai da sola con la regina. Nonostante egli fosse buono, era risaputo da tutti che puniva severamente i malvagi, per questo la regina non aveva il coraggio di disobbedire.









II. Capellid’Oro si smarrisce

Capellidoro aveva già sette anni e Brunettina quattro. Il re regalò a Capellidoro una bella carrozza, trainata da due struzzi e guidata da un cocchiere di dieci anni, nipote della tata che aveva cresciuto Capellidoro. Il bimbo si chiamava Golosetto. Voleva molto bene a Capellidoro con la quale giocava da quando erano piccolissimi e anche lei era molto buona con lui. Il cocchiere però aveva un grande debole: i dolci. Sarebbe stato capace di fare cose malvagie solo per ricevere un sacco di caramelle.
Capellidoro gli diceva spesso:
“Ti voglio bene Golosetto, ma non mi piace vederti così goloso, ti prego, prova a rinunciare a questo brutto difetto che fa inorridire tutti!”
Golosetto le baciava la mano e le prometteva di migliorare, ma continuava a rubare dolci dalla cucina e caramelle dalla dispensa. Era spesso punito per la sua disobbedienza e per la sua golosità smisurata.
Regina Falsetta venne a conoscenza di questo difetto di Golosetto e pensò di poterlo usare per liberarsi di Capellidoro. Ecco il progetto che inventò:
Il giardino dove Capellidoro andava a passeggiare con la carrozza trainata dai due struzzi in compagnia di Golosetto, si trovava accanto ad una bellissima foresta, chiamata la foresta di Lillà ed era divisa da un recinto: il recinto divideva il giardino dalla foresta che tutto l’anno era in fiore, con tanti fiori di lillà. Nessuno si addentrava in quella foresta giacché tutti sapevano che era una foresta incantata e chi vi entrava non ritornava mai più. Golosetto conosceva pure lui il terribile segreto della foresta. Il re gli aveva severamente vietato di portare la carrozza di Capellidoro da quelle parti, temendo che inavvertitamente sua figlia potesse entrare nella foresta di lillà.
Varie volte il re aveva provato a rafforzare il recinto con un muro divisorio o a rendere più spesso il recinto, ma, ogni volta che metteva le pietre o le divisorie, un potere invisibile le faceva scomparire.
La perfida regina provò a conquistare Golosetto, donandogli ogni giorni dei dolci. Quando riuscì a renderlo dipendente dai suoi dolci, cosicché egli non poté più vivere senza caramelle, gelati o torte, lo chiamò e gli disse:
“Golosetto, dipende solo da te ricevere un baule pieno di caramelle e cioccolatini o non mangiare più dolci per tutta la tua vita.”
“Non mangiare mai più dolci?! Oh Signora, morirei di tristezza! Mi dica, signora, cosa devo fare per evitare una simile disgrazia?”
“Devi…”, disse la regina guardandolo negli occhi, “devi portare la principessa Capellid’Oro vicino alla foresta di Lillà.”
“Non posso, il re mi ha ordinato di starne alla larga”.
“Non puoi?! Allora vattene! Non ti darò più dolci e ordinerò che nessuno del palazzo te li dia.”


“Signora, non sia così crudele con me”, disse piangendo Golosetto, “mi dia un ordine che posso eseguire!”.
“Ripeto, voglio che porti Capellidoro nella foresta di Lillà, che la incoraggi a scendere dalla carrozza, che oltrepassi il recinto e si addentri nella foresta.”
“Ma signora”, disse Golosetto tutto pallido in volto, “se Capellidoro entrasse nella foresta di Lillà, non ne uscirebbe più. Lei sa bene che la foresta è stregata. Mandare là la principessa è come mandarla a morte sicura!”
“Ti chiedo per la terza e ultima volta: vuoi un grande baule pieno di dolci, che io riempirò di nuovo ogni mese o non vuoi ricevere mai più dolci e caramelle?”
“Ma chi mi salverà dalla tremenda punizione che mi darà il re?”
“Tu non preoccuparti per questo. Appena avrai portato Capellidoro nella foresta di Lillà verrai da me. Ti darò il tuo baule di dolci e al tuo futuro poi ci penserò io.”
“Abbia pietà di me signora, non mi costringa a portare alla morte la mia cara padroncina, che è stata sempre tanto buona con me!”
“Esiti ancora, piccolo miserabile?! Che t’importa di cosa accadrà a Capellidoro? Ci penserò io più tardi a metterti al servizio di Brunettina e starò attenta che non ti manchino mai le caramelle.”
Golosetto ci pensò ancora, era indeciso se sacrificare la sua buona principessa per qualche chilo di caramelle. Tutto il giorno e tutta la notte si tormentò con questa domanda, se valeva la pena o meno commettere questo crimine. La paura di non poter più soddisfare la sua avida gola disobbedendo alla regina, insieme alla speranza di poter ritrovare Capellidoro con l’aiuto di qualche buona fata, misero fine ai suoi dubbi e decise di ubbidire alla regina.
All’indomani, alle quattro, Capellidoro volle andare con la sua carrozza, trainata dagli struzzi, a passeggiare, abbracciò e baciò il suo papà e gli promise di tornare in due ore al castello. Il giardino era grande, Golosetto guidò gli struzzi nella parte opposta della foresta. Quando erano già abbastanza lontani e nessuno li poteva ormai vedere, cambiò la direzione e andò verso il recinto che divideva il giardino dalla foresta. Il ragazzo era triste e silenzioso, il peccato che stava per commettere gli pesava sul cuore.
“Cosa ti è successo Golosetto? Perché non dici una parola? Sei malato per caso?” chiese Capellidoro.
“No principessa, non sono malato”.
“Quanto sei pallido! Dimmi cosa opprime il tuo cuore, caro mio Golosetto, che provo ad accontentarti!”
La bontà di Capellidoro rischiava di ammorbidire e quindi salvare l’animo di Golosetto, ma poi pensò ai dolci promessi dalla regina malvagia e sconfisse la bontà che stava per sopraffarlo. Non ebbe neanche il tempo di rispondere che gli struzzi arrivarono al recinto che portava alla foresta di lillà.
“Oh, che bei fiori di lillà”, esclamò Capellidoro, “che buon profumo! Come vorrei raccogliere un mazzo di questi rametti di lillà e donarli a papà! Scendi Golosetto e raccoglimi dei fiori!”
“Io non posso scendere”, disse Golosetto, “gli struzzi potrebbero fuggire durante la mia assenza.”
“Non fa niente, riesco a guidarli anche da sola al castello!”
“Ma il re potrebbe arrabbiarsi se ti lascio sola. Meglio se scendi tu e raccogli i fiori che ti piacciono.”
“E’ vero, mi dispiacerebbe se tu fossi punito per colpa mia, mio caro Golosetto!”
E dicendo questo saltò con leggerezza fuori dalla carrozza, attraversò il recinto e iniziò a raccogliere i rametti fioriti.
In quel momento Golosetto rabbrividì, i rimorsi di coscienza gli struggevano il cuore, per cercare di riparare al suo errore, chiamò qualche volta Capellidoro affinché tornasse, ma, malgrado lei non si trovasse a nemmeno dieci passi da lui, non lo sentì e si addentrò sempre di più nella foresta proibita. Per un po’ Golosetto continuò a vederla ancora raccogliere i rametti con i fiori, ma poi sparì dalla sua vista.
Per lungo tempo pianse ancora Golosetto per il suo crimine e maledisse la sua avidità: odiava la regina Falsetta. Finalmente pensò che era già giunta l’ora in cui Capellid’Oro avrebbe dovuto trovarsi a casa; entrò sulla porta di dietro e andò subito dalla regina che lo aspettava. Quando scorse il suo volto pallido e gli occhi arrossati dalle lacrime di rimorso, capì che Capellidoro era perduta.
“Fatto?”, chiese la regina.
Golosetto annuì con la testa. Non aveva più la forza di parlare.
“Vieni!”, disse la regina, “Ecco la tua ricompensa.”
Gli donò quindi un baule pieno zeppo di dolci di ogni tipo e lo fece mettere su uno dei muli che avevano portato i suoi gioielli.
“Tieni questo baule Golosetto e vai alla corte di mio padre. Vattene e torna entro un mese che te ne daro un altro”, disse e gli diede in mano anche un sacchetto pieno d’oro. Golosetto salì sul mulo e, senza dire una parola, partì subito al galoppo. Il mulo era testardo, ma anche imbizzarrito; non sopportava più il peso del baule, così si alzò sulle zampe posteriori e buttò giù dalla sella il baule e Golosetto che sbatté la testa sulla ghiaia e morì sul colpo.
Questa fu la ricompensa per la sua avidità. Non poté nemmeno assaggiare i dolci che gli aveva dato la regina in cambio del suo crimine.
Nessuno lo pianse, perché nessuno gli voleva bene al di fuori della povera Capellidoro che si trovava nella foresta di Lillà.





III. La Foresta di Lillà
Quando Capellidoro s’addentrò nella foresta, si mise a raccogliere i più bei rami di lillà, contenta che ce ne fossero tanti e che profumassero così bene. Ne vedeva sempre di nuovi e di più belli. Allora svuotava il suo grembiule e il suo capellino che erano già pieni e li riempiva di nuovo.
Era già passata un’ora da quando Capellidoro era impegnata così. Cominciava ad avere caldo e a sentirsi stanca, i rametti di lillà erano pesanti e pensò che era tempo di ritornare al palazzo. Ella cercò la via di ritorno, ma si vide circondata solo da alberi di lillà. Chiamò Golosetto. Nessuno le rispose. “Forse mi sono allontanata troppo”, disse Capellidoro, “devo provare a tornare sui miei passi, anche se sono stanca. Se Golosetto mi sente mi verrà incontro.”
Camminò così per qualche tempo, ma non vide la fine della foresta. Invano chiamava Golosetto, nessuno le rispondeva. L’assalì la paura.
“Cosa sarà di me da sola in questa foresta? Cosa dirà il mio babbo quando non mi vedrà ritornare? E, povero Golosetto, come potrà tornare senza di me al palazzo? Sarà sgridato, forse anche picchiato, tutto per colpa mia, perché io volevo raccogliere i rametti di lillà. Quanto sono disgraziata! Morirò di fame e di sete in questa foresta, se i lupi non mi mangeranno stanotte!”
Capellidoro si sedette sotto un grosso albero e pianse lacrime amare. Pianse tanto che si stancò, poggiò la testa sul mazzo di rami di lillà e s’addormentò.






IV. Il primo risveglio di Capellidoro. Il BelGatto
Capellidoro dormì tutta la notte, nessun animale selvaggio disturbò il suo sonno e il freddo non si fece sentire. All’indomani ella si svegliò tardi e si stropicciò gli occhi, meravigliata di non trovarsi nella sua stanzetta, ma circondata solo dagli alberi. Chiamò la sua tata, ma le rispose solo un gentile miagolio.
Stupita, ma non spaventata, Capellidoro si guardò intorno e vide ai suoi piedi un magnifico gatto bianco che lo guardava con tenerezza e miagolava.
“Oh, BelGatto quanto sei gentile!”, esclamò Capellidoro, passando la mano nella sua bella pelliccia, bianca come la neve. “Sono così contenta di vederti. Mi porterai a casa tua: io ho fame, non ho mangiato niente e mi mancano le forze per camminare, se non mangio”.
BelGatto miagolò di nuovo e indicò con la zampetta un fagottino di stoffa bianca e fine, che aveva davanti a sé. Capellidoro aprì il fagotto e vi trovò dei panini al burro: ne assaggiò uno e lo trovò delizioso, ne offrì un pezzo anche a BelMicione che lo apprezzò tanto.
Quando sia lei che BelGatto furono sazi, Capellidoro si chinò sul gatto per accarezzarlo e gli disse:
“Ti ringrazio moltissimo per la merendina che mi hai dato. Adesso mi potresti portare da mio padre, che sarà molto preoccupato per me?”.
BelGatto scosse la testa e fece un miagolio lamentoso.
“Oh, ma tu capisci ciò che ti dico! Allora ti prego, abbi pieta di me, portami in una casa che io possa non morire di fame, di freddo e di paura in questa inquietante foresta!”
BelGatto fece segno con la testa per indicare di aver capito tutto, fece qualche passo e si guardò indietro per essere sicuro che Capellidoro lo stesse seguendo.
“Eccomi qua BelGatto”, disse Capellidoro, “ti seguo! Ma come possiamo attraversare questi cespugli? Non vedo nessun sentiero.”
Come risposta, BelGatto si lanciò verso i cespugli che si aprirono da soli davanti a lui e a Capellidoro e si richiusero dietro di loro. Stavano camminando così da quasi un’ora, quando la foresta divenne più chiara, l’erba più fine e i fiori più colorati; si vedevano uccellini canori bellissimi e scoiattolini che si arrampicavano sugli alberi. Capellidoro, pensando che ormai stessero uscendo dalla foresta e che presto avrebbe incontrato suo padre, guardava con gioia tutto ciò che vedeva attorno a sé; si sarebbe anche fermata volentieri a raccogliere dei fiori, ma BelMicione miagolava tristemente ogni volta che Capellidoro voleva fermarsi.
Dopo un’ora di cammino Capellidoro scorse un magnifico castello. BelGatto la condusse fino al recinto dorato. Capellidoro non sapeva come fare, non c’era alcun campanello e la porta era chiusa. BelGatto era scomparso. Ella era rimasta sola.






V. Il BuonaCerva
    BelGatto entrò probabilmente da una porticina per i gatti e avvertì qualcuno del castello, perché il portone si aprì senza che Capellidoro avesse fatto alcunché. Entrò nel giardino del castello, ma non vide nessuno. Le porte si aprirono da sole. Capellidoro entrò in un corridoio di marmo bianco pregiato. Tutte le volte che lei si avvicinava, le porte si aprivano da sole. Capellidoro attraversò una serie di bei salotti e alla fine arrivò in un salotto blu dorato. Su un letto di piante profumate stava riposando una maestosa cerva bianca. BelGatto le stava accanto. Quando vide Capellidoro, la cerva si alzò e le venne incontro:
“Benvenuta Capellidoro. Io e mio figlio ti aspettavamo da un bel po’!”
Sentendo parlare una cerva, la bambina si spaventò.
“Tranquilla, sei tra amici, conosco bene tuo padre e gli voglio bene come voglio bene a te.”
“Gentile Signora, se Lei conosce mio padre, il re, mi aiuti a tornare da lui, sarà molto preoccupato per la mia assenza.”
“Mia cara”, sospirò la cerva, “Non posso farti ritornare da tuo padre. Ti trovi sotto il potere del mago della Foresta di Lillà. Anch’io sono sotto il suo potere che è più forte del mio. Manderò a tuo padre, invece, sogni che lo rassicureranno sulla tua sorte, lui capirà così che sua figlia si trova da me.”
“Cosa? Signora”, esclamò Capellidoro, “vuol dire che non rivedrò più il mio caro padre?!”
“Cara Capellidoro, non pensiamo ora all’avvenire. La saggezza è sempre ricompensata. Ritroverai tuo padre, ma non ora. Abbi pazienza, sii gentile e ubbidiente. BelGatto e io faremo di tutto perché tu sia felice.”
Capellidoro sospirò profondamente e lasciò cadere qualche lacrima. Poi pensò che doveva sentirsi riconoscente nei confronti della cerva, invece di farle credere che trovarsi in loro compagnia fosse per lei una sofferenza e si sforzò di essere ben disposta. BuonaCerva e BelGatto la portarono nella sua stanza. La stanza preparata per Capellidoro era tutta tappezzata di seta rossa e ricamata con del filo d’oro. I mobili erano rivestiti di velluto bianco, ricamato con fili di seta splendente. Là erano rappresentati tanti animali: uccelli, farfalle, insetti. Accanto c’era la sua stanza di lavoro, tappezzata con la seta di colore celeste e ricamata con le perline. I mobili erano rivestiti con seta color argento e con borchie turchine. Sulla parete vi erano due ritratti: rappresentavano una donna giovane e splendida e un giovane uomo affascinante, i loro vestiti indicavano la loro origine regale.
“Di chi sono questi ritratti, signora?” domandò Capellidoro.
“Non posso risponderti bambina mia”, disse la Cerva. “Più tardi lo saprai, ma ora è pronta la tavola per la cena. Devi aver fame.”
Infatti Capellidoro moriva di fame. Seguì BuonaCerva nella sala da pranzo dove la tavola era apparecchiata in un modo particolare. Per terra c’era un grande cuscino, rivestito di seta bianca per BuonaCerva. Davanti a lei c’era un mazzo di erbe selezionate, fresche e succulenti e in un vasetto d’oro c’era dell’acqua fresca e limpida. Nella parte opposta della tavola c’era una sedia alta per BelGatto, davanti a lui, in una casseruola dorata, c’erano tanti pezzi di pesce e beccaccino fritti. C’era inoltre un piatto di cristallo, colmo di latte fresco. Tra BuonaCerva e BelGatto c’era una poltroncina scolpita d’avorio, coperta di velluto rosso, fissato con chiodi di diamante per Capellidoro. Davanti ad ella stava un piatto d’oro, pieno di verdure e frittura di pollo e beccaccini e un panino fresco. Il cucchiaio e la forchetta erano d’oro e il tovagliolo di una stoffa molto fine. Il bicchiere e la brocca d’acqua erano di cristallo. Il servizio a tavola era gestito da alcune belle gazzelle, che indovinavano tutti i desideri di Capellidoro, di BuonaCerva e di BelGatto.
La cena era squisita, con pietanze raffinate e succulenti. I dolci, una vera goduria. Capellid’Oro aveva fame e mangiava tutto con appetito. Dopo la cena tutti e tre andarono a fare una passeggiata sugli incantevoli sentieri del giardino, pieno di fiori e alberi di frutta. Dopo la passeggiata, Capellidoro era stanca e BuonaCerva la portò a dormire. Nella sua stanza la aspettavano due gazzelle, che la aiutarono con grande abilità a cambiarsi e vegliarono poi il suo sonno.
Capellidoro si addormentò subito, non prima però di aver pensato a suo padre ed aver pianto per essere lontana da lui.






VI. Il secondo risveglio di Capellidoro
Capellidoro dormì profondamente e quando si svegliò le sembrò di non essere più la stessa persona che era quando andò a dormire. Le sembrava di essere diventata più grande, di pensare come un adulto, di aver imparato molte cose, come se durante il sonno avesse letto tanti libri e avesse scritto, disegnato, cantato, suonato il pianoforte e l’arpa.
Tuttavia, la stanzetta era uguale a quella in cui, la sera prima, ‘BuonaCerva la portò a dormire.
Turbata e irrequieta, andò a guardarsi allo specchio e vide una bella ragazza, incantevole, e quasi non si riconobbe perché cento volte più bella di quando era andata a dormire. I suoi bei capelli le arrivavano fino alle caviglie, la sua pelle bianca e rosea, i begli occhi azzurri, il nasino piccolo, la boccuccia piccola e rosa, le sue guance rosa, la sua vite sottile e graziosa. Non aveva mai visto, in vita sua, una ragazza così bella.
Scombussolata e spaventata si vesti in fretta e corse da BuonaCerva. La trovò nello stesso salotto dove l’aveva vista per la prima volta.
“BuonaCerva!”, gridò lei, “Cosa mi è successo? Sono andata a letto bambina e mi sono svegliata adulta? Mi sbaglio o sono cresciuta così tanto in una sola notte?”.
“Non ti sbagli Capellidoro, oggi compi quattordici anni. Il tuo sogno è durato sette anni. Quando sei arrivata da noi non sapevi scrivere e leggere. Mio figlio BelGatto e io stessa abbiamo voluto risparmiarti le fatiche dei primi anni di studio. Hai dormito per sette anni e durante questi noi ti abbiamo dato un’istruzione, ti abbiamo insegnato una serie di cose mentre dormivi. Vedo invece nei tuoi occhi che dubiti delle tue conoscenze. Vieni allora con me nella tua stanza di lavoro e vedrai quante cose conosci.
Capellid’Oro seguì BuonaCerva nella sua stanza di studio. Si sedette al pianoforte e si mise a suonare, vide che suonava bene. Provò anche con l’arpa e vide che sapeva suonare benissimo a anche l’arpa e sapeva cantare in maniera meravigliosa. Prese la penna e il pennello e vide che sapeva scrivere e dipingere bene. Poi sfogliò dei libri e le sembrò di averli già letti. Sorpresa ed emozionata abbracciò BuonaCerva e BelGatto.
“Oh! Miei meravigliosi amici! Quanto vi sono grata che avete così tanto curato la mia educazione, facendo crescere la mia anima e il mio spirito!”.
BuonaCerva la accarezzò, BelGatto la leccò con delicatezza sulle mani. Dopo i primi momenti di gioia, Capellidoro disse però con timidezza:
“Non pensate che io non vi sia riconoscente, cari amici miei, se oltre tutto ciò che avete già fatto per me vorrei sapere anche cosa fa mio padre. Piange ancora per me? E’ mai riuscito a tornare sereno dopo che mi ha perso?”.
“Il tuo desiderio è troppo legittimo per non essere soddisfatto. Guarda in questo specchio Capellid’Oro e vedrai tutto ciò che è avvenuto da quando sei qui e anche cosa sta facendo adesso tuo padre.”
Capellidoro guardò e vide l’appartamento di suo padre: il re camminava su e giù con aria pensierosa, sembrava che aspettasse qualcuno. La regina Falsetta entrò e disse al re che Capellidoro, malgrado il divieto e le insistenze di Golosetto , volle lei stessa portare la carrozza con gli struzzi verso la foresta di Lillà, dove la carrozza traballò e Capellidoro fu buttata oltre il recinto nella foresta. Golosetto perse la testa per il dolore e la paura, quindi fu rimandato dai suoi genitori. Vide il re disperato correre verso la foresta di Lillà e solo usando la forza gli impedirono di addentrarsi per cercare Capellidoro. Quando fu portato a casa era devastato dal dolore e chiamava continuamente la sua cara figliuola. Alla fine s’addormentò e vide nel sonno che Capellidoro si trovava al castello di BuonaCerva e di BelGatto. BuonaCerva lo rassicurò che Capellidoro avrebbe vissuto  un’ infanzia felice e tranquilla e che un giorno l’avrebbe rivista.
Lo specchio diventò opaco, poi si schiarì nuovamente e Capellidoro vide ancora suo padre. Adesso sembrava invecchiato, aveva i capelli bianchi e un’aria addolorata. Teneva vicino a sé un piccolo ritratto di Capellidoro che baciava spesso, fra le lacrime. Era solo. Capellidoro non vedeva né Brunettina, né Falsetta.
Pianse disperatamente:
“Perché mio padre non ha nessuno accanto a sé? Dove sono mia sorella Brunettina e la regina?”
“La regina ha dimostrato così poca afflizione per la vostra morte (perché vi credevano morta, cara)”, spiegò BuonaCerva, “che il re iniziò a odiarla e la rimandò da suo padre Turbolento, il quale la rinchiuse in una torre, dove morì di rabbia e di noia.”
“Vostra sorella, Brunettina è diventata perfida e violenta, così vostro padre la diede in fretta in sposa ad un principe di nome Arrabbiato, che ha un comportamento rude e adesso pensa lui a lei. Brunettina si è accorta che la malvagità non porta felicità e adesso sta provando a cambiare. Quando la rivedrete, l’aiuterete a migliorare col vostro esempio.”
Capellidoro ringraziò gentilmente per queste notizie. Avrebbe voluto chiedere ancora quando poter rivedere suo padre, ma, per non sembrare ingrata e frettolosa nel voler abbandonare i suoi amici, decise di aspettare un momento migliore per porre questa domanda.
Le giornate di Capellidoro passavano in fretta perché aveva sempre tante cose da fare, tuttavia a volte era triste. Con BuonaCerva poteva parlare solo a tavola o durante le lezioni, BelGatto la comprendeva, ma, dato che poteva risponderle solo miagolando, l’unico modo di farsi capire era attraverso i segni. Le gazzelle che la servivano erano mute.
Capellidoro andava a passeggiare sempre in compagnia di BelGatto che le mostrava i più bei sentieri e i più bei fiori. BuonaCerva fece promettere a Capellidoro di non oltrepassare mai il recinto del giardino e non entrare mai nella foresta. Capellidoro le domandò varie volte il perché di questa grande difesa, ma ottenne sempre la stessa risposta:
“Capellidoro non entrare mai nella foresta! E’ una foresta proibita, che porta solo disgrazie! Meglio se non entri mai!”.
A volte ella andava nel padiglione che si trovava su un’altura da dove vedeva bene la foresta, vedeva alberi bellissimi, fiori incantevoli e uccelli canori che volavano di qua e di là; sembrava che la chiamassero a sé.
“Come mai BuonaCerva non mi permette di andare in questa foresta? Che pericoli posso incontrare?”.
Ogni volta, quando pensava a queste cose, BelGatto, miagolando in maniera lamentosa, la tirava per il vestito, forzandola a scendere dal padiglione.
Capellidoro sorrideva, seguiva BelGatto e continuava le passeggiate nel parco solitario.






VII Il pappagallo
Erano passati quasi sei mesi da quando Capellidoro si era svegliata dal suo sonno di sette anni. Era tanto tempo. Le mancava suo padre ed era triste. I suoi amici sembravano indovinare i suoi pensieri. BuonaCerva sospirava, BelGatto miagolava in maniera lamentosa. Capellidoro evitava di parlare di ciò che le struggeva l’animo, perché BuonaCerva le aveva così promesso: “Rivedrai tuo padre quando compirai quindici anni, se continuerai a comportarti in maniera saggia, ma ascoltami, non chiederti sempre sull’avvenire e soprattutto non provare a lasciarci.”
Una mattina Capellidoro stava sola e meditava sulla sua vita strana e monotona. Fu svegliata da tre colpetti alla finestra che la fecero trasalire: vide un pappagallo verde col collare e la cresta arancioni. Sorpresa da quella apparizione, aprì la finestra e fece entrare il pappagallo. Ancor più grande fu la sua meraviglia quando il pappagallo si mise a parlare con voce rauca:
“Buongiorno Capellidoro, so quanto Lei si annoia qualche volta e ha tanta voglia di chiacchierare con qualcuno. Per questo sono venuto a tenervi compagnia, ma per carità non dica a nessuno che mi ha visto, perché BuonaCerva mi torcerebbe il collo.”
“Ma cosa dici bel pappagallo! BuonaCerva non farebbe mai male a nessuno! Lei odia solo i malfattori.”
“Capellidoro, se non mi promette di tener segreta la mia visita con BuonaCerva e BelMicione, me ne vado subito e non torno più.”
“Se lo desidera così tanto, glielo prometto bel pappagallo. Chiacchieriamo un po’, da tanto tempo non chiacchiero con nessuno! Lei mi sembra allegro e spiritoso! E molto divertente!”
Capellidoro ascoltava le storie del pappagallo, i suoi complimenti teatrali sulla sua bellezza, sul suo talento e sul suo spirito. Capellidoro era affascinata. Dopo un’ora il pappagallo volò via, non prima di aver promesso che sarebbe tornato il giorno dopo. Lui ritornò così per diversi giorni e continuava a lusingare e divertire Capellidoro. Una mattina bussò alla finestra e disse:
“Capellidoro, Capellidoro! Apri in fretta, ti porto notizie da tuo padre, ma non fare molto rumore se non vuoi che mi si torca il collo.”
Capellidoro aprì la finestra e disse:
“Parla, hai davvero notizie di mio padre, bel pappagallo? Dimmi, ti prego, dimmi come sta.”
“Vostro padre sta bene Capellidoro, ma piange ogni giorno per la vostra assenza. Gli ho promesso di impegnare tutte le mie forze per liberarvi dalla vostra prigione, ma non posso far nulla senza il vostro aiuto.”
“Prigione? Ma cosa dici? Tu non hai la minima idea di quanto siano gentili con me i miei amici, quanto mi vogliano bene. Loro sarebbero tanto contenti di farmi tornare da mio padre. Vieni con me, ti presento a BuonaCerva.”
“Capellidoro, tu non conosci i tuoi amici”, disse il Pappagallo con voce rauca. “Loro mi odiano perché a volte sono riuscito a portar via le loro vittime. Non rivedrai mai più tuo padre, non uscirai mai da questa foresta se non riesci tu stessa a trovare il talismano che ti tiene legata qui.”
“Quale talismano? Non so di cosa parli. Che interesse avrebbero BuonaCerva e BelGatto a tenermi rinchiusa qui?”.
“Per non annoiarsi da soli, Capellidoro. Per quanto riguarda il talismano è una semplice rosa che tu devi cogliere per liberarti di questo esilio e tornare fra le braccia di tuo padre.”
“Dove posso cogliere la rosa? Nel giardino non ci sono delle rose.”
“Te lo dirò dopo, adesso non posso dirti di più, devo andare via perché sta arrivando la Cerva, ma se vuoi capire il potere della rosa, chiedilo a BuonaCerva, vedrai cosa ti risponderà. A domani, Capellidoro, a domani!”.
Il pappagallo volò via contento per essere riuscito a seminare nel cuore della fanciulla i germi della diffidenza, dell’ingratitudine e della disubbidienza. Appena se ne andò il pappagallo, arrivò BuonaCerva, sembrava agitata.
“Con chi parlavi Capellidoro?”, le domandò guardando con sospetto verso la finestra aperta.
“Con nessuno, Signora!”, rispose Capellidoro.
“Sono sicura di averti sentita parlare.”
“Probabilmente parlavo da sola.”
BuonaCerva non rispose. Ella era triste, le cadde anche una lacrima.
Capellidoro era preoccupata anche lei. Le parole del pappagallo le fecero vedere in una luce nuova il suo rapporto e i suoi obblighi verso BuonaCerva e BelGatto. Invece di pensare che una cerva che parla, che ha il potere di rendere intelligenti le bestie, di addormentare una bimba per sette anni ed occuparsi della sua educazione, che una cerva che abita ed è servita come una regina non può essere una cerva qualsiasi, invece di pensare con gratitudine a tutto ciò che BuonaCerva aveva fatto per lei in questi anni, Capellidoro iniziò a credere ciecamente a tutto ciò che le aveva raccontato questo pappagallo sconosciuto, di cui nessuno garantiva la veridicità e che non aveva alcun interesse a rischiare la vita per liberarla. Lei si fidava di lui perché lui l’aveva lusingata. Capellidoro ormai non sentiva più riconoscenza per la vita serena e tranquilla che aveva con BuonaCerva e BelGatto, decise quindi di seguire i consigli del pappagallo.
Chiese durante la giornata:
“BuonaCerva, perché tra tanti bei fiori nel nostro giardino, non trovo il fiore più bello: la rosa?”
BuonaCerva ebbe un brivido e disse preoccupata:
“Capellidoro, Capellidoro, non chiedermi questo fiore perfido che punge tutti quelli che lo toccano. Non parlarmi più di questo fiore. Tu non sai che pericoli nasconde questo fiore per te.”
I tratti di BuonaCerva divennero così severi che Capellidoro non osò insistere.
La giornata finì male, Capellidoro era imbarazzata, BuonaCerva era scontenta e BelGatto era triste.
La mattina dopo Capellidoro aspettava alla finestra e, appena l’aprì, il pappagallo entrò.
“Ecco Capellidoro, hai visto quanto era turbata BuonaCerva quando le hai detto della rosa. Io ti ho promesso di aiutarti a trovare questo fiore affascinante. Ecco, devi uscire dal parco ed addentrarti nella foresta. Ti accompagnerò, ti porterò là dove si trova la più bella rosa del mondo.
“Come potrei uscire dal parco? BelGatto è sempre sui miei passi quando faccio le passeggiate.”
“Prova a liberarti di lui, se non ti permette di uscire, esci lo stesso!”.
“Se la rosa di cui parli si trova lontano, si accorgeranno della mia assenza.”
“E’ a un’ora di cammino. BuonaCerva è stata attenta a tenerti lontana dalla rosa, perché tu non possa uscire da questa prigione!”.
“Ma a che scopo mi tiene in prigione? Quanto è potente? Non potrebbe trovarsi altri piaceri piuttosto che dedicarsi all’educazione di un bambino?”.
“Questo ti verrà spiegato più in là, Capellidoro”, disse il pappagallo, “quando tornerai da tuo padre. Sii decisa, Capellidoro! Durante la passeggiata mattutina, molla BelMicione ed esci nella foresta, io ti aspetterò.”
Capellidoro promise e chiuse la finestra per paura che BuonaCerva la scoprisse.
All’indomani, dopo la colazione, Capellidoro andò a fare la sua solita passeggiata. BelMicione la seguiva, malgrado il comportamento dispettoso di Capellidoro. Arrivati al sentiero che portava alla foresta, Capellid’Oro disse a BelGatto:
“Voglio essere sola, vattene, BelGatto!”.
BelGatto finse di non capire. Capellidoro si dimenticò così tanto di se stessa che gli diede un calcio.
BelGatto miagolò in maniera lugubremente triste e corse al castello.
Capellidoro rabbrividì al sentire il grido di BelMicione, volle richiamarlo, rinunciare alla rosa e raccontare tutto a BuonaCerva, ma le mancò il coraggio e si vergognò. Non senza paura aprì il cancello e, malgrado la paura, entrò nella foresta. Il pappagallo l’aspettava già.
“Forza, Capellidoro! In un’ora siamo arrivati alla Rosa che ti riporterà da tuo padre.”
Tali parole ridiedero a Capellidoro la determinatezza e la fiducia che iniziavano a scemare. Avanzava sul sentiero che il pappagallo le indicava volando da un ramo all’altro. La foresta, che dal giardino di BuonaCerva sembrava così bella, diventava sempre più difficile da penetrare, dovunque s’imbatteva in rovi e pietre, non si sentivano più gli uccelli, i fiori erano spariti. Capellidoro cominciava a sentirsi sopraffatta da uno strano malessere. Il pappagallo la invitava a muoversi.
“Sbrigati, Capellidoro. La Cerva si renderà conto che non ci sei, ti inseguirà, mi storcerà il collo e tu non vedrai più tuo padre.”
Stanca, respirando con affanno, con le braccia e i piedi graffiati, con le scarpe rotte, Capellidoro stava per rinunciare a proseguire, quando il pappagallo gridò:
“Siamo arrivati, Capellidoro. Ecco il posto delle rose!”.
Capellidoro vide alla fine del sentiero un recinto che fu aperto dal pappagallo. Il terreno attorno era pieno di pietre, ma nel mezzo si trovava un magnifico cespuglio di rose con una Rosa più bella di tutte le rose del mondo.
“Coglila, Capellidoro, l’hai davvero meritata!”, disse il pappagallo.
Capellidoro tirò il ramo verso di sé e, malgrado le spine le pungessero le dita, prese la rosa. Nello stesso momento, sentì una forte risata e la rosa le cadde dalle mani urlandole:
“Grazie, Capellidoro, che mi hai liberato dalla prigione nella quale mi teneva rinchiuso il potere della BuonaCerva. Io sono il tuo genio malvagio , ormai sei sotto il mio potere.”
“Ha, ha, ha”, rise il pappagallo, “Capellidoro, ormai posso tornare alla mia forma di stregone. Mi è stato più facile convincerti di quanto credessi. Ti ho resa facilmente malvagia e ingrata, semplicemente lusingando la tua vanità. Tu stessa hai causato la morte dei tuoi amici, il cui nemico mortale sono io. Addio Capellidoro.”
Con queste parole sparirono sia il pappagallo che la rosa. Capellidoro restò sola nella fitta foresta.






VII. Espiazione
Capellidoro restò pietrificata. Il suo comportamento le si rivelava in tutto il suo orrore: era stata ingrata nei confronti dei suoi amici devoti, che l’avevano cresciuta per sette anni. Chissà se sarebbero mai riusciti a perdonarla? Che ne sarà di lei se non volessero riprenderla? Inoltre, cosa significavano le parole malvagie del pappagallo: “Tu stessa hai causato la morte dei tuoi amici”?.
Volle subito tornare al castello di BuonaCerva. I rovi e le spine le sfregiavano le braccia, le gambe e il viso, tuttavia continuava a farsi strada tra i cespugli e, dopo tre ore di penosa marcia, arrivò nel luogo in cui si trovava il castello di BuonaCerva e BelGatto. Ciò che vide non lo dimenticò mai. Al posto del bel castello vi erano solo delle rovine. Invece dei fiori e begli alberi vi erano solo rovi, cardi e ortiche. Terrificata e desolata, volle penetrare dentro le rovine del castello per vedere cosa fosse avvenuto ai suoi amici. Un grande rospo uscì da sotto una lastra di pietra e le sbarrò la strada:
“Cosa fai ancora qui? Non è stata proprio la tua ingratitudine a causare la morte dei tuoi amici? Vattene! Non offendere il loro ricordo con la tua presenza!” disse il rospo
“Oh, miei cari amici! BuonaCerva, BelGatto”, pianse Capellidoro, “magari potessi espiare con la mia morte la disgrazia che vi ho causato.”
S’inginocchiò sui rovi e le ortiche piangendo amaramente, devastata dal dolore. Non sentiva nemmeno le spine dei cardi o le pietre taglienti. Pianse così per molto tempo, poi si alzò per cercare un riparo, ma non trovò che pietre e rovi. “Va bene, che mi mangino gli animali selvaggi o che io muoia di freddo e di dolore. Almeno  la mia anima spirerà qui sulla tomba dei miei amici, BuonaCerva e BelGatto.” Appena pronunciò tali parole, sentì una voce:
“Il rimpianto fa riscattare molte cose.”
Alzò la testa verso il cielo, ma non vide altro che un Corvo che volteggiava sopra di lei.
“Quanto amaro sarà il mio pentimento, potrò mai far tornare alla vita BuonaCerva e BelGatto?”
“Forza, Capellidoro! Espia la tua colpa col rimpianto. Non farti però accecare dalla disperazione!”.
Povera Capellidoro! Si alzò e si allontanò da quel luogo di desolazione e di tristezza. Percorse uno stretto sentiero in quella parte della foresta dove i grossi alberi avevano preso il posto dei rovi e la terra era coperta dal muschio. Capellidoro, sfinita per la stanchezza ed il dolore, crollò accanto a uno di questi begli alberi e continuò a piangere singhiozzando.
“Coraggio, Capellidoro! Spera!” le disse una voce.
Lei non vide che una rana la stava guardando con occhi compassionevoli.
“Cara ranocchia, sembri avere compassione del mio dolore. Cosa sarà di me, ormai che mi trovo sola al mondo?”.
“Coraggio e speranza”, riprese la voce.
Capellidoro sospirò. Provò a trovare qualche frutto per saziare la sua sete e la sua fame, ma non trovò nulla. Un rumore di campane la tolse dai suoi pensieri tristi. Vide avvicinarsi lentamente una bella mucca, che si fermò accanto a lei e le fece vedere che aveva una ciotola a tracolla. Riconoscente per l’aiuto inatteso, Capellidoro prese la ciotola, munse la mucca e bevve con tanto appetito due ciotole intere di latte. La mucca le fece segno di mettere a posto il vaso. La fanciulla la abbracciò e le disse con tristezza:
“Sicuramente questo regalo le devo ai miei poveri amici. Dall’altro mondo hanno visto il mio pentimento e hanno pensato di allievare così le mie sofferenze.”
“Il pentimento fa perdonare molti errori”, si sentì dire dalla voce.
“Nemmeno se piangessi per mille anni non perdonerei il mio errore.”
Imbruniva. Malgrado la desolazione, Capellidoro pensò che comunque sarebbe stato meglio ripararsi di notte dagli animali selvatici, i cui ruggiti sembrava sentire. Scorse, a qualche passo di distanza, un riparo fatto di rami intrecciati di vari arbusti. Doveva un po’ piegarsi per entrare, poi, aggiungendo un po’ di rametti, riuscì a farsi una deliziosa capanna Dato che c’era ancora luce, raccolse del muschio, si fece un materasso e un cuscino morbidi. Prese alcuni rami più grossi che fissò dentro la terra per nascondere e proteggere l’entrata della sua casetta, poi entrò e si addormentò per la stanchezza. Quando si svegliò, il sole era già alto nel cielo. All’inizio fece fatica a raccogliersi le idee, poi si ricordò della triste realtà e iniziò a piangere e lamentarsi. Aveva fame. Iniziava a disperarsi per cosa avrebbe mangiato. Nuovamente sentì le campane della mucca: bevve latte in gran quantità, poi rimise la ciotola a posto, abbracciò la Bianchina e la seguì con lo sguardo quando si allontanò, nella speranza di rivederla ancora. Infatti ogni giorno, alla mattina, a mezzogiorno e all’ora di cena, Bianchina offriva alla ragazza il suo pasto frugale. Capellidoro passava il suo tempo piangendo per i suoi amici.
“Con la mia disobbedienza, ho causato una disgrazia che mai potrò riparare. Non ho perso solo i miei amici, ma ho perso anche l’unica possibilità di rivedere mio padre, che forse ancora aspetta la sua figlia disgraziata, obbligata a vivere sola in questa terribile foresta, regnata dal mio demone malvagio.”
Per distrarsi, Capellidoro sistemò la sua capanna: costruì il suo bel letto di muschio e foglie, intrecciò una sedia di rami, con qualche spina lunga e sottile fece degli aghi, con qualche pezzo di canapa, trovato nelle vicinanze della capanna, si fece dei fili, quindi rammendò le sue scarpe rovinate dai rovi.
Passarono così sei settimane. La sua tristezza e il suo pentimento erano forti come prima, la vita solitaria e difficile che viveva aveva rinforzato i sinceri rimpianti per i suoi errori. Avrebbe accettato di vivere tutta la sua vita in questa foresta, se attraverso ciò avesse riscattato la vita di BuonaCerva e di BelGatto.






IX. La tartaruga
Un giorno se ne stava seduta sull’uscio della sua capanna, rammentando tristemente sul danno che aveva causato ai suoi amici e le apparve una tartaruga gigante che le disse con voce gutturale:
“Capellidoro,  mettiti sotto la mia protezione, io ti  portarò fuori dalla foresta!”.
“E perché dovrei cercare di uscire da questa foresta, signora Tartaruga? Qui ho provocato la morte dei miei amici, qui voglio morire anch’io.”
“Tu sei sicura che i tuoi amici siano morti?”
“Cosa? Potrebbero essere ancora in vita? No, non ci credo. Ho visto il loro castello in rovine. Il Pappagallo e il Rospo mi hanno detto che sono morti. Lei è cosi buona che vuole alleviare il mio dolore, ma io non ho più il coraggio di sperare. Se vivessero, non mi avrebbero lasciata disperare con il pensiero che ho provocato la loro morte.”
“Anche loro potrebbero essere in balia di un potere che è più grande di loro e forse ti hanno abbandonata malgrado la loro volontà. Come ti ho detto, il rimpianto può riscattare molte colpe.”
“Cara signora Tartaruga, se loro sono ancora in vita, me lo dica la prego, che non ho sul cuore la loro morte e che posso sperare di rivederli un giorno. Accetto qualsiasi punizione per avere questa felicità.”
“Capellidoro, non mi è permesso di rivelarti la sorte dei tuoi amici, ma se hai il coraggio di salirmi in groppa, di viaggiare così per sei mesi senza farmi alcuna domanda, ti porterò in un posto dove conoscerai tutto ciò che vuoi sapere!”.
“Le prometto tutto ciò che vuole, signora Tartaruga, pur di sapere cos’è accaduto ai miei amici.”
“Stai attenta, Capellidoro. Sei mesi senza scendere dalla mia groppa, senza proferire una parola! Una volta che saremo partititi, se tu non avrai il coraggio di andare fino in fondo, resterai per sempre sotto il potere del stregone Pappagallo e di sua sorella Rosa e non potrò mandarti nemmeno i piccoli soccorsi che ti ho inviato in queste sei settimane.”
“Andiamo Signora Tartaruga! Partiamo subito! Preferisco morire di stanchezza e noia che di rimpianto e d’ansia. Ciò che mi ha detto mi ha ridato il coraggio e un barlume di speranza, adesso sento di poter fare un viaggio ancor più faticoso di quello di cui mi parla.”
“Come desideri, Capellidoro. Salimi in groppa. Non soffrirai né sete, né fame, né sonno. Per tutto il tempo del nostro viaggio non ti succederà niente di male. “
Capellidoro salì in groppa alla tartaruga.
“Da ora, silenzio!”, disse, “Non più una parola fino a quando arriveremo e anche allora aspetterai che parli io per prima.”








X. Il viaggio e l’arrivo
Il cammino di Capellidoro durò sei mesi, proprio come aveva promesso la tartaruga. Passarono tre mesi prima di farcela ad uscire dalla foresta. Dopodiché attraversarono un’arida pianura per altre sei settimane. Alla fine della pianura Capellidoro scorse un castello che le faceva venire in mente quello della BuonaCerva. Dopo un altro mese di viaggio avevano raggiunto appena il grande viale che portava al castello. “Chissà se non sarà proprio questo il posto dove potrò sapere qualcosa sulla sorte dei miei amici?”, si domandava Capellidoro, ma, malgrado la tormentava l’impazienza, non osava chiedere. Se avesse potuto scendere e correre, sarebbe arrivata al castello in pochi minuti, ma la Tartaruga continuava ad incedere con lentezza e Capellidoro rispettò la parola data. Non disse nulla. Si rassegnò ad aspettare, malgrado tutto. La Tartaruga sembrava rallentare, invece di affrettare il passo. Ci mise altri quindici giorni per percorrere questa grande viale. A Capellidoro sembrarono quindici secoli. Non perdeva di vista il castello e la porta. Sembrava un castello abbandonato, non si vedeva alcun movimento attorno ad esso. Finalmente, passati i centottanta giorni, la tartaruga si fermò e disse:
“Scendi ora! Giacché mi hai obbedito e sei stata coraggiosa, meriti la ricompensa che ti avevo promesso. Entra nella piccola porta davanti a te e chiedi, alla prima persona che incontri, della fata di nome Gentilezza e lei ti dirà cos’è accaduto ai tuoi amici.”
Capellidoro saltò giù vivacemente dalla groppa della tartaruga. Temeva che dopo una così lunga immobilità non sarebbe riuscita più ad usare le sue gambe. Invece si sentiva leggera, come quando viveva felicemente con BuonaCerva e BelMicione, quando correva tutto il giorno nel bellissimo giardino tra fiori e farfalle.
Dopo aver ringraziato di cuore la tartaruga, aprì la porta e si trovò faccia a faccia con una ragazza vestita tutta di bianco che le domandò con voce gentile: “Con chi desidera parlare?”.
“Sto cercando la fata Gentilezza. Le dica per favore che la principessa Capellidoro la prega gentilmente di riceverla.”
“Mi segua principessa”, disse la ragazza
Capellidoro la seguì tremando. Attraversarono tanti bei salotti, incontrarono tante altre giovani in bianco, come colei che la stava guidando. La guardavano sorridenti, come se la conoscessero. Arrivarono in un salotto molto bello, che rassomigliava a quello della cerva nella Foresta di Lillà.
Questa reminiscenza la impressionò così profondamente che non si accorse nemmeno della scomparsa della ragazza in bianco che prima le stava accanto. Guardò con tristezza i mobili del salotto. Erano gli stessi del salotto della Cerva nella Foresta di Lillà, in più c’era solo
un bell’armadio grosso, lavorato in maniera pregiata in avorio e oro. Capellidoro si sentiva attratta in modo inspiegabile da questo armadio, lo guardava senza poter distogliere lo sguardo, in quel momento la porta si aprì ed entrò una bella donna, ancora giovane e vestita in maniera molto raffinata. Ella si avvicinò a Capellidoro e le chiese con voce dolce e carezzevole:
“Che cosa desideri da me, cara bimba mia?”.
“Cara Signora!”, disse Capellidoro buttandosi davanti ai suoi piedi, “Mi hanno detto che Lei potrebbe farmi avere delle notizie sui miei buoni amici BuonaCerva e BelGatto. Gli ho persi per colpa mia, perché non li ho ascoltati. Ho pianto per lungo tempo, credendo fossero morti, ma la Tartaruga che mi ha portato qui, mi ha dato nuove speranze dicendomi che magari sono ancora vivi e che forse potrei ritrovarli. Mi dica signora se sono vivi e cosa devo fare per meritare di rivederli.”
“Capellidoro”, disse la fata Gentilezza con aria molto triste, “tu conoscerai la sorte di tuoi amici, ma qualsiasi cosa accadrà non perdere mai la speranza e il coraggio.” Dicendo tali parole, prese per mano la ragazza che tremava e la condusse all’armadio bianco.
“Ecco Capellidoro la chiave di quest’armadio. Aprilo e sii forte”, disse e le diede in mano una chiave d’oro.
Capellidoro prese la chiave con mano tremante e aprì l’armadio. Ma cosa vide dentro? La pelle della BuonaCerva e di BelGatto, agganciate su chiodi di diamante. Capellidoro emise un grido disperato e svenne fra le braccia della fata.
La porta si aprì nuovamente e un principe, bello come il giorno, si affrettò verso Capellidoro dicendo:
“Mamma, la prova è stata troppo dura per la nostra cara Capellidoro!”.
“E’ vero figliuolo e il mio cuore soffre tanto per lei, ma tu sai che quest’ultima punizione era necessaria per liberarla per sempre dal giogo del crudele genio della foresta di Lillà.”
Dicendo tali parole la fata toccò con la bacchetta Capellidoro che ritornò subito in sé e, piangendo in preda ai singhiozzi, desolata, disse:
“Lasciatemi morire! La mia vita mi è insopportabile. Non ho più alcuna speranza, non esiste più alcuna felicità per me. Cari miei amici, presto sarò accanto a voi!”.
“Capellidoro, cara Capellidoro , i tuoi amici vivono e ti vogliono bene. Io sono BuonaCerva e lui è mio figlio BelGatto. Lo stregone malvagio della Foresta di Lillà, approfittando della negligenza di mio figlio, si è impadronito di noi e ci ha dato l’aspetto sotto il quale ci hai conosciuti. Non potevamo tornare al nostro aspetto originale fino a quando tu avessi colto la rosa che io sapevo essere il tuo demone malvagio e che tenevo imprigionato. L’ho piantata lontano dal castello per allontanarlo dalla tua vista. Sapevo quante disgrazie ti avrebbe portato se lo avessi liberato. Il cielo mi è testimone che sia io che il mio figlio avremmo preferito vivere tutta la vita come BuonaCerva e BelGatto, pur di risparmiarti le immane sofferenze che hai dovuto attraversare. Malgrado le nostre premure, il pappagallo è arrivato fino a te. Ciò che è avvenuto dopo lo sai benissimo, cara la mia bambina. Ciò che non sai è quanto abbiamo sofferto noi con te per tutte le tue lacrime e per la tua solitudine.”
Capellidoro non smetteva di abbracciare e ringraziare i suoi amici, la fata e il principe. Continuava a fare mille domande:
“Cos’è successo alle gazzelle che mi servivano?”.
“Le hai viste, cara Capellidoro, sono quelle giovani che ti hanno accompagnata fin qui. Loro con noi hanno sofferto questa triste trasformazione.
“E con la buona mucca che mi portava latte ogni giorno?”.
“Abbiamo convinto la Regina delle Fate a mandarti questa piccola consolazione. Anche le parole di incoraggiamento del corvo venivano sempre da noi.”
“Chi ha mandato la Tartaruga?”.
“La Regina delle Fate, intenerita dalla tua sofferenza, tolse al genio della foresta ogni potere su di te, con la condizione di ottenere da te un’ultima prova di sottomissione, costringendoti a fare questo lungo e noioso viaggio. Ti ha dato un’ultima punizione facendoti pensare che io e mio figlio fossimo morti. Ho supplicato la regina delle fate di risparmiarti quest’ultima prova, ma ella fu irremovibile.”
Capellid’Oro continuava ad ascoltare, guardare ed abbracciare i suoi amici perduti da tanto tempo e che aveva temuto fossero scomparsi per sempre. Poi si ricordò di suo padre. BelGatto, ora PrincipePerfetto, come sempre indovinò i suoi pensieri e lo fece sapere alla fata, la quale disse:
“Preparati figliuola a rivedere tuo padre: l’ho informato del nostro arrivo e ti aspetta.
Un istante dopo, Capellidoro si trovò in una carrozza fatta di perle ed oro. Alla sua destra si trovava la fata, ai suoi piedi si trovava il principe che la guardava con tenerezza e amore. La carrozza era trainata da quattro cigni di un bianco splendente, che volavano così veloci che in cinque minuti arrivarono al castello di re Bonaccione. L’intera corte era attorno a lui ed aspettava Capellidoro. Quando la carrozza comparve, esplosero tante grida di gioia che i cigni stavano per perdere la testa e sbagliare la strada. Il principe che li guidava riuscì a controllarli e fermò la carrozza davanti alla grande scala d’onore del castello.
Il re corse verso Capellidoro, che saltò giù dalla carrozza direttamente fra le braccia del suo papà. Restarono per lungo tempo abbracciati. Tutto il mondo piangeva di gioia.
Quando il re tornò in sé baciò teneramente le mani della fata che gli aveva riportato la figlia, dopo averla cresciuta e protetta. Abbracciò il PrincipePerfetto che trovò molto affascinante.
Festeggiarono per otto giorni il ritorno di Capellidoro. Alla fine di questi otto giorni la fata volle tornare a casa sua. Il PrincipePerfetto e Capellidoro erano così tristi al pensiero di doversi lasciare, che la fata e il re promisero che non si sarebbero mai separati. Il re sposò infatti la fata e Capellidoro sposò il PrincipePerfetto, che tanto per lei ormai restava per sempre BelGatto della foresta di Lillà.
Brunettina s’impegnava a migliorare e veniva spesso a trovare Capellidoro. Anche suo marito Arrabbiato divenne più tranquillo.
Capellidoro visse una vita felice. Diede alla luce figlie che somigliavano a lei e figli che somigliavano al PrincipePerfetto. Tutto il mondo voleva bene a loro e tutti attorno a loro erano felici e contenti.