martedì 17 marzo 2015

IL DIO DELL'ISOLA FELICE- M. Bethlen



MARGIT BETHLEN

IL DIO DELL’ISOLA FELICE

E ALTRE STORIE



LA SELVA DEI NANI
La piccola gobba avanza a stento sul campo coperto della neve. Cammina ormai da più di un’ora ma non ha ancora raggiunto la selva. Eppure di giorno non si direbbe che è cosi tanto lontano. E’ vero che adesso tutto è diverso di quand’era in estate: perché si affonda fino al malleolo nella neve e quando la luna si nasconde dietro le nubi c’è buio pesto; e la piccola inciampa ed è già caduta più di una volta.
La bimba stringe i denti: non fa niente, arriverà anche cosi nella selva dei Nani, anche se dovrà camminare l’intera notte. Già da mesi aveva deciso che in una note con la luna chiara percorrerà questa strada, ma, chissà perché non è mai riuscita.
Una volta ha trovato il portone chiuso, un’altra volta, quando è già arrivata alla fine della via qualcuno l’ha chiamata ed ella ha dovuto tornare indietro. Insomma non è mai riuscita. Ma questa sera, quando è tornata a casa, la sua matrigna stessa l’ha cacciata fuori, chiudendole dietro il portone, perché malgrado ha mendicato tutto il giorno non ha raccolto nemmeno un soldo. L’ha anche minacciata:
“Non osare tornare davanti ai miei occhi nana gobaccia finché non mi porterai del denaro!”
“Gobba! Nana!” questa sentiva sempre accasa, questo le ripetevano quando la mandavano ad elemosinare per le strade, questo quando andava con gli altri bambini: Non ricordava neppure se un tempo l’avessero ami chiamata diversamente. Anche il babbo la chiamava cosi quando era ubbriaco; e lo era quasi sempre. Ma egli le voleva bene, più bene che la matrigna, perché non la picchiava; e quando , di rado, non era ubbriaco non permetteva che la donna la maltrattasse.
La luna fa capolino di nuovo fra le nubi e la piccola gobba sospira di sollievo. Finalmente, qui è la foresta!
Per alcuni minuti deve ora percorrere la via che conduce fra gli alberi altissimi, e poi.. si poi arriverà alla selva dei Nani!
Il cuore della piccina incomincia a palpitare tumultuosamente e le sue labbra mormorano involontariamente le parole ripetute durante il lungo cammino:
Non ti abbandonerò
Non t’ingannerò
Serbo il tuo segreto
Dono la vita!
Ha imparavo questo versetto dalla sua nonna, quando una volta la teneva sulle ginocchia e lei stava ad ascoltare le sue fiabe: forse mille volte le aveva narrato quella della selva dei Nani. Le aveva raccontato come i nani stiano, giorno e notte, trasformati, per incanto, in alberi. Ma sentono e vedono tutto quel che accade intorno a loro. Quando, nelle notti di plenilunio, una creatura umana capita tra di loro e recita questo versetto, essi rivivono, e se è candida nel cuore chi si rivolge a loro e la volontà di non tradirli, se è forte il desiderio di fare quella vita di alberi incantati, essi con un sortilegio la inviteranno fra di loro facendone la regina.
La piccola gobba è arrivata. Gli alberi stanno lì, di fronte uno all’altro, aggrovigliati e confusi, questi piegati, altri minacciosamente eretti o curvi in avanti con tenerezza.
La piccola gobba corre in fretta tra gli alberi. Lì, in mezzo a una piccola radura, sta un vecchio albero cavo, coperto di muschio. E’ cosi vecchio e cosi fracido che si vede che stava là quando la foresta non era nemmeno nata. Questo non può essere altro che il re dei Nani.
La ragazza s’inginocchia dinanzi lui e ripete con devozione il versetto della nonna:
Non ti abbandonerò
Non t’ingannerò
Serbo il segreto,
Dono la vita
Poi chiude gli occhi e aspetta. La luna si nasconde di nuovo dietro le nuvole ed ora, lentamente a grandi fiocchi incomincia cadere la neve. La piccola gobba non sente il freddo. E’ solo stanca. E finché i Nani si muoveranno, essa si coricherà un po’ sulla terra.
E’ cosi bello e silenzioso tutto! Nessuno la maltratta e può restar lì per molto tempo, per sempre.
Nel dormiveglia socchiude gli occhi e vede che il re dei Nani si china su di lei e le cinge in capo la corona. Gli alberi si ravvivano, i Nani prendendosi per mano ballano in cerchio maestosamente e la loro voce giunge a lei come il mugghio del vento lontano
“Reginetta nostra, tu ci hai fatto la promessa che non ci abbandoni!”
“.Mai, mai!” sussurra la piccola nana, la gobbetta reginella e con un sorriso beato chiude gli occhi stanchi e porta con sé i segreti della selva dei Nani… per sempre.


IL DIO DELL’ISOLA FELICE
C'era una volta in mezzo al mare un'isola abitata da una tribù. Si trovavano cosi lontano da ogni terra che alcun altro essere umano è mai arrivato fin là. Il suolo dell'isola era fertile, il mare offriva pesca copiosa e gli abitanti non avendo nemici non avevano delle armi. Ne ignoravano il bisogno. Erano pacifici, gentili e sognatori.
Poiché gli uomini usano crearsi un Dio a loro immagine e somiglianza, anche gli abitanti dell'isola si sono creati un Dio, gli hanno costruito una effigie di argilla e lo hanno alzata nel loro tempio nella tenda. L'hanno creato mite, indulgente, pronto al perdono, sulla loro immagine e somiglianza. Il Dio dell'isola felice aveva un nome lunghissimo che tradotto nella nostra lingua vuol dire: "Nostro Dio, delle cose come dovrebbero essere"
Dicevano che Iddio ritira il sole dalla volta celeste tutte le sere finché la gente possa riposare tranquillamente e credevano che la pioggia sono le lacrime di Dio traboccanti dalla sua beatitudine quando vedeva che gli uomini compivano qualcosa di buono. Erano convinti che farsi del male sia una cosa innaturale perciò sgradevole, e se qualche volta, molto di rado succedeva lo stesso, erano convinti che l'anima della persona malvagia si fosse smarita durante il sonno della notte e il vuoto da lei lasciato fosse stato invaso sa un'anima indegna, ignara di quanto faceva di cattivo e di dannoso. Quindi segregavano la persona in una località lontana solitaria dell'isola, finché la sua anima non fosse tornato in se stesso. Quando ciò avveniva lo riaccoglievano con segni di grande gioia come uno che si fosse rimesso da una malattia molto grave.
I sacerdoti del Dio indossavano una veste bianca e onoravano il loro Signore con fiori profumati che piantavano attorno ai suoi piedi. Nemmeno i fiori era lecito di tagliare per il loro Dio. Era vietato ai loro sacerdoti di recare dolore a qualsiasi specie. Gli oracoli li invocavano consultando il proprio cuore quando la consideravano degno di accogliere la parola di Dio.
Un giorno invece appare all'orizzonte una cosa miracolosa, mai vista prima: una immensa casa galleggiante, con ali bianche e splendenti che brillavano nello sfolgorio del sole.
Gli abitanti dell'isola si affollarono sulla spiaggia e guardarono con stupore quella meraviglia sconosciuta. Poi rivolgendosi al sommo sacerdote, che stava muto davanti all'entrata del loro tempio di tende, la gente domandò che cosa fosse e come dovevano accogliere quello strano dono di Dio.
Il sommo sacerdote guardò per un minuto fisso avanti a sé. Poi alzando le braccia come se volesse accogliere dall'alto la parola divina disse:
"Il Dio delle cose come dovrebbero essere vi dice attraverso la mia bocca: la casa galleggiante arriva dall'oriente, dal paese della luce; dunque deve portare con se luce, bellezza e bontà. Accogliete chi arriva a braccia aperte e con cuori fraterni, come se accoglieste me"
Gli uomini corsero con gioia nelle loro capanne, indossarono le vesti di festa, intrecciarono nei capelli vezzi di perle e ne cinsero il collo delle loro donne e fanciulle e recando nelle mani fiori e frutta, aspettarono che approdassero gli abitatori della casa galleggiante.
Frattanto intorno alla nave erano apparse molte piccole barche, le quali fendendo le onde velocemente, in breve giunsero sulla spiaggia. Nelle barche stavano uomini dalle face bianche e dalle strane vesti, e tenevano fra le mani canne luccicanti.
Gli abitanti dell'isola, coi sacerdoti in testa si avvicinarono agli stranieri con le mani alzate come era loro costume per salutare. Davanti a tutti era il piccolo figlio del sommo sacerdote, vestito di bianco e col capo incoronato di bianchi fiori, tenendo nelle mani un fascio di candide rose da cospargere ai piedi degli stranieri.
In quel momento in uno delle barche, un uomo si alzò: fra le sue mani balenò una canna e subito dopo un bagliore di fiamma si levò attraverso l'aria con uno scoppio.
Il ragazzo premendosi repentinamente le mani sul cuore lasciò cadere le rose. Una sola era rimasta nelle sue mani, ma anche quella si imporporò di sangue quando egli cadde morto a terra.
Prima ancora che gli uomini impietriti dallo sgomento , potessero muoversi, con uno schianto cento volte più forte del primo, un colpo rombò verso di loro, seguito da una detonazione come dallo scoppio di un fulmine, che fece tremare anche la terra. Una vampa s'innalzò in un secondo, offuscando le deboli mura di tende, e quando il fumo scomparve, l'effigie d'argilla del Dio giaceva in frantumi sulla terra: al suo posto stavano le schegge di un obice.
Gli uomini dalle facce bianche, balzando fuori dalle barche, saltarono addosso alla moltitudine che fuggiva terrorizzata, menando strage, strappando dal collo delle donne le bianche perle e rossi baci dalle labbra delle fanciulle. Poi ritornarono sulla riva del mare e piantarono in luogo del monumento crollato del Dio una bandiera multicolore.
Sul posto degli indigeni, non era rimasto che un uomo: il sommo sacerdote, dai capelli canuti, nella sua bianca veste, cupo e muto; stava dinanzi al cadavere del figlio assassinato, davanti al suo Dio abbattuto e infranto.
Quando gli stranieri piantarono la loro bandiera davanti ai rottami di fiero distruttori, egli alzò il capo e pronunciò una parola sola; poi si incamminò a passi lenti e uguali verso l'interno dell'isola. Quella parola significava :"Iddio delle cose come sono!"
Quando la notte calò, gli abitanti dispersi dell'isola si radunarono intorno al loro sacerdote per sentire da lui la parola del Dio. Il sommo sacerdote stette per lungo tempo muto, poi chinò il capo come se le parole fossero salite a lui dalle viscere della terra e disse:
"E' morto il "Nostro Dio delle cose come dovrebbero essere"! L'ha assassinato il "Dio delle cose come sono"! Andate dunque fate i vostri olocausti secondo il piacere del nuovo Dio"
Allora gli uomini in una lunga fila si avviarono in silenzio, verso la spiaggia, serrando tra le mani coltelli dalle lame acutissime, fremendo nei loro cuori ira e desiderio di vendetta fino allora sconosciuti.
Gli stranieri riposavano in un sonno profondo dopo la faticosa giornata. La maggior parte di loro non si risvegliò nemmeno quando gli abitanti dell'isola. strisciando quali nere e snelle serpi accanto ad essi, come ad un segno invisibile, improvvisamente e simultaneamente, immersero loro i pugnali nel cuore.
Dopo questo si radunarono in un cerchio attorno ai ruderi del tempio di tende e con le mani levate in alto salutarono il nuovo dio: il "Dio delle cose come sono"


FAVOLA DI UN RAGAZZO CHE VOLEVA IL SOLE
C'era una volta un ragazzo che amava una fanciulla; e un giorno s’inginocchiò davanti a ella, deponendo ai suoi piedi il suo cuore aperto.
La ragazza guardò incuriosita per un minuto il cuore tremmante e pulsante, poi con un sorriso stridulo, lo calpestò e lo respinse, gettandolo via coi suoi pedini.
“Sii mia!” scongiurò il ragazzo
Ma la ragazza continuò a ridere.
“Se mi porti il sole in petto al posto del cuore, forse allora, si!”
Il ragazzo si alzò, e premendosi con le mani il cuore sanguinante, partì per riuscire a portare il sole alla ragazza.
Il sole stava molto in alto sulla vòlta celeste. Il ragazzo volava sulle sue tracce come sulla ali della tempesta, volava spinto dal suo desiderio. Lo seguì per tanti e tantissimi giorni e tanti notti ancora, ma sempre invano, finché una volta lo raggiunse e stese le sue mani su di esso.
Il sole trasalì:
“Lasciami! Non c’è posto per me nel tuo petto accanto al cuore”
Ma il ragazzo, senza una parola, pigliò il suo cuore, e strappandoselo, lo buttò in un fossato della via, mettendosi nel petto il sole. Il suo desiderio era cosi ardente, la pena che soffriva da tanti giorni cosi lacerante, che non sentì neppure quell’ardore infuocato che gli dilaniava in petto il sole.
Rifacendo la strada tornò alla ragazza. Questa volse la sua testolina verso di lui:
“Dunque!”
Il ragazzo non rispose, ma repentinamente scoprì il petto, e il sole col suo accecante bagliore inondò con una luce dorata la ragazza, che apparve in tutto il suo essere come sommersa in un velo d’oro.
“Ti ho portato ciò che desideravi: ho dato però in cambio il mio cuore” disse il ragazzo sommessamente.
La fanciulla scrollò le spalle:
“Davvero? Io lo desideravo? Può darsi ma non me ne rammento più!” disse, e se ne andò.
Il ragazzo stette lì, immobile, e non si accorse che il sole sfuggiva, sfuggiva dal suo petto aperto, salendo sempre più in alto, su, sulla vòlta celeste, per ricadere poi fra i monti, fiammeggiante, ardente, rosso di sangue.

A vadalmafa
Arettentonagyur es a mandarin
Egy porszem


GLI ALBERI VOLANTI
Questa storia avvenne tanto tempo fa quando ancora gli alberi sapevano volare. Da allora stanno sempre fissi in un luogo, immobili, cupi, guardando con nostalgia le nuvole galoppanti per il cielo, aspettando il giorno in cui potranno di nuovo fendere l’aria, foglie e rami spiegati, eternamente versi… Ma chi potrà mai dire quando tornerà quel giorno?
***
Verso l’aurora si diffuse per terra un mormorio sommesso che diventava sempre più forte: si svegliavano gli alberi. Uno dopo l’altro, sempre più numerosi, estraevano i loro radici dalla terra e con lento aleggiare si sollevavano in aria. La quercia, il rovere, il tiglio agitavano con gesti lenti e maestosi i loro rami, mentre il faggio squassava ed agitava ridendo le sue frasche, e abbracciati con la betulla incominciavano una danza vibrante. Un’ombra lunga e nera passò accanto ad essi, sorvolandoli. Era il pioppo, che raccogliendo tenacemente i suoi rami, correva diritto verso il sud. Sulle sue tracce, ma superandolo, apparve uno snello ed oscuro abete, lasciando dietro di sé con un volo di rondine i suoi compagni.
Gli alberi volanti sussurravano tra di loro:
“Vanno dalla palma! Povero pioppo, perché mai si affatica! Tanto è inutile! L’abete arriverà per primo!”
Il pioppo incominciò d’un tratto a tremare e aleggiando due o tre colpi con i suoi rami, tentò di raggiungere l’abete correndo sulle sue tracce. Ma esso intanto era già scomparso nella lontananza. Il faggio invece slanciandosi con un balzo si avvinse di nuovo alla vita della betulla ed aggrappandosi alle ali d’una raffica, la fece roteare in una folle danza, finche la povera piccola betulla, chinò il capo sulle sue spalle.
L’abete intanto volava sulle ali del desiderio, senza guardare, senza pensare ad altro, volava verso la palma… Sapeva benissimo che anche lei volava, correva, ed essa pure lo aspettava e sognava solo di lui durante l’intera notte che avevano dovuto trascorrere disgiunti.
Perché gli alberi dall’alba fino al tramonto potevano volare liberamente dove volevano, ma dal tramonto fino all’alba dovevano stare immobili, i piedi radicati nella terra, dov’erano nati. Cosi aveva comandato il Signore il primo giorno che li aveva creati, grandi, forti, potenti, non soggetti a ad alcuno all’infuori di Lui…e non c’era stato fino allora alcun albero che avesse osato trasgredire il suo divieto. Perché tutti sapevano benissimo che l’ira repentina del Signore offeso non perdona.
Era mezzogiorno quando la palma e l’abete s’incontrarono. Il sole li carezzava con i suoi raggi, ma più bruciante fu il bacio in cui essi congiunsero le loro labbra. Si abbracciavano svolazzando nell’aria azzurra, e l’abete ripeteva in un sussurro:
“Ancora un bacio; poi dobbiamo di nuovo separarci per giungere a casa prima che cada la sera.
“Si caro, un altro bacio ancora, l’ultimo” Sospirava la palma stringendosi ancor più stretto al suo amore.
Il tempo passava, il sole era già tornato all’orizzonte per tramontare ed essi, sempre abbracciati e guardandosi negli occhi, ancora si sussurravano:
“Ancora un bacio, l’ultimo bacio!”
Il pioppo, che era corso per sorprendere la palma tra le braccia del suo amore, era già ritornato acasa da un bel po’ con una pensa crudele e disperata nel cuore, covando un odio ugualmente implacabile verso la palma e verso l’abete.
La betulla, stanca della lunga danza e forse più del desiderio segreto che coceva nel suo cuore, stava languidamente al solito posto, tutta tremante, spiando il ritorno dell’abete, che trascorreva ogni notte accanto a lei sognando… l’altra. Il faggio tendeva i rami stirandosi contento. E’ stato un bel giorno quello, e l’indomani sarebbe stato ancora cosi. Ora avrebbe dormito, senza alcun turbamento per il pensiero dell’albero sognato dalla betulla. Durante il giorno era sua: e non gli importava nient’altro.
Il sole continuava a calare… Gli alberi grandi e potenti scendevano maestosamente. La rovere, la quercia, il tiglio serio, attentamente, con ponderazione, affondavano le loro radici nelle viscere della terra vitale. I piccoli cespugli che sapevano solo saltellare invece di volare, tentavano di arrivare accasa con piccoli balzi..
Il sole scomparve oltre l’orizzonte…
Un mormoro di raccapriccio serpeggiò attraverso la selva: il posto dell’abete era vuoto!...
Gli alberi si guardarono con disperazione: che sarebbe avvenuto ora?
La bettulla si sforzava di coprire coi suoi piccoli rami il posto vacante, ma invano vi si affaticava, non potendo giungere fin là…Soltanto il pioppo aspettava, con stizza ostinata e caparbia nel cuore, che l’ira di Dio li colpisse…
Passò un minuto, un altro ancora… gli alberi si sentirono un po’ alleggeriti.
“Forse, forse oggi Dio ha un giorno di pietà, o forse dorme” sussurravano con sollievo.
Ma il pioppo alzò il capo:
“Iddio dorme e l’abete potrà abbracciare per l’intera notte la palma? No, mille volte no, anche se dovesse crollare il mondo! “ Strappandosi furiosamente le sue radici dalla terra, con un balzo impetuoso, si lanciò verso l’alto e si aggrappò alla nuvola che copriva le ginocchia del Signore.
“Svegliati Signore e guarda giù, sulla terra” gridò raccogliendo tutte le sue forze.
La terra tremava quando l’alito di Dio la percorreva, e gli alberi lasciavano cadere atterriti le loro foglie.
“Chi osa disturbarmi?” tuonò la voce del Signore
“Il pioppo! Oh Dio! L’abete non è ancora tornato accasa.”
“Ma noi non siamo colpevoli Signore: punisci lui, non noi!” gemettero gli alberi ingiallendo dalla paura.
Lo sguardo di Dio si stese sopra la terra.
Molto molto in giù, nel lontano sud, l’abete e la palma svolazzavano ancora, dimentichi di se stessi, e abbracciandosi, si sussurravano:
“Ancora un bacio, un ultimo bacio!”
La voce di Dio nuovamente tuonò:
“Voi che siete stati disubbidienti, vili, codardi, invidiosi e gelosi, non potrete più muovervi dai vostri posti. Tu abete, e anche tu palma, poiché avete pensato più a voi stessi che ai miei comandamenti, vivrete verdeggiando lontani l’uno dall’altra, tu nel rigido freddo del settentrione, e tu nella torbida calura del sud…Tu, però, pioppo, che hai osato disturbare il mio riposo col tuo odio tristo, vivrai da oggi lontano dai tuoi compagni, in deserta solitudine. Ed ogni volta che il mio alito passerà su di voi, percuotendovi, ricordatevi di me, e come ora, ingiallite dalla paura. Cosi sia finché sulla terra vi saranno odio e malvagità.
E’ svanita la voce del Signore e da quel giorno gli alberi stanno immobili e muti. Quando l’alito di Dio sibila e urla turbinando con l’uragano gli alberi ingialliscono dal terrore e lasciano cadere le loro foglie. Soltanto l’abete e la palma non sentono il suo soffio iroso. Lontani l’uno dall’altra, eppur vicini, aspettano, con un amore eternamente verde nei loro cuori.

Himpor

CIRO
La bambina sta seduta al suo posto caparbia e cocciuta. Non prenderà da terra il suo capelli, no, e poi no! Possono punirla, se vogliono, possono don darle la colazione; ella non se ne preoccupa! Perché è cattiva. Anche la governante le aveva detto che non ha mai visto bambina più testarda in vita sua.; e va bene, ora ella lo vuol essere sul serio!
La mamma è amareggiata, babbo è crucciato; ma lei non se ne dà pensiero. Dimostrerà di essere la più forte, e che con lei non c’è niente da fare, anche se tentassero con tutti i mezzi.
Ma ad un tratto porge l’orecchio: ode la voce della mamma e di zio Laszlo nella stanza attigua. La mamma sta raccontando e lo zio Laszlo borbotta qualche parola, interrompendola di quando in quando.
Si parla di lei:
“Per una settimana è stata preso la zia Lina dove si è divertita un mondo” disse la mamma “Ma ora che è ritornata, invece di essere grata ché le ho permesso di andar via, fa i capricci. Voleva uscire per andare a passeggio, ma visto che ha cominciato a piovere, la governante le ha detto di aspettare un po’, allora ella ha buttato a terra il suo capellino e , se la governante non l’avesse trattenuta, l’avrebbe anche calpestato. Quando però la governante l’ha sgridata, ordinandole di raccoglierlo, essa, scontrosa, ha voltato le spalle e da quel momento sta ancora lì, mentre io le ho detto che non avrà nulla da mangiare finché non avrà ripreso dalla terra il capello.
La bambina non ha sentito la risposta dello zio Laszlo, ma la porta riapre e lo zio appare. La bimba serrò i denti: lo zio potrà farle tutte le prediche che vorrà; ella non riprenderà il capello, non, e non risponderà neppure a lui! Può credere anche lo zio di lei che è cattiva: a lei non importa!
Però lo zio Laszlo non la guarda neanche. Va diritto allo scaffale e incomincia a cercare fra i libri. Finalmente trova quello che cerca: un libro di storia. Sfoglia un po’, poi volgendosi alla bambina:
“Hai già imparato qualche cosa della storia persiana” le chiede.
La bimba resta a bocca aperta per questa domanda imprevista, e dimentica la sua decisione.
“Si, l’ho studiata” risponde stupita
“Che cosa sai dunque di Ciro, dimmelo!” continua lo zio Laszlo col tono più sereno del mondo.
La ragazzina non riesce ancora spiegarsi questo improvviso interessamento ma non avendo lo zio accennato al suo cappello, incomincia a recitare la lezione.
“..E quando i navigli di Ciro, a causa della tempesta, non potevano attraversare il mare, il re, nella sua ira, si mise a frustrare le onde…”
Lo zio Laszlò ascoltava con serietà
“Deve’ esser stato un re molto potente; e i suoi soldati di sicuro lo avranno ammirato!”
La ragazzina scoppia in una risata
“Macché! Sono convinta piuttosto che lo avranno deriso!” esclama
Lo zio Laszlò la guarda:
“Perché pensi cosi?”
“Perché il mare non aveva nessuna colpa che c’era la tempesta, e tanto mica sente male se lo si percuote!”
“E il tuo cappello ha colpa perché piove, di, piccola Ciro?” chiede a bruciapelo lo zio.
La ragazzina , interdetta ammutolisce. Il cappello… il cappello, è vero…”
“Va dunque , e riprendilo subito, piccona mia. Sai che si può essere qualche volta cattivella, ma ridicola non si deve essere mai” dice lo zio Laszlò, e la lascia lì, da sola.
La ragazzina, rossa come un gambero, raccoglie il cappello da per terra senza proferire una parola.

A gerle

IL PIU’ FORTE
La donna andava spegnendosi. Lentamente, senza pena, magari trascinerà avanti ancora per qualche settimana, ma è certa che la morte verrà, cosi come il volo della freccia scoccata verso il bersaglio.
La donna lo sa. Nessuno glie ne aveva parlato, ma l’ha presagito fin dal primo giorno: a lei lo rivelava l’amore con cui era avvicinata da tutti, più caldo e trepido di prima. Eloquente era il tocco della mano del medico, quando, lievemente, con pietà, le prendeva la mano ch’era diventata esile e diafana.
La donna rabbrividiva.
Perché di già, mentre era ancora giovane e bella e vuol vivere, vivere, vivere! La morte è oscura e muta, ed ella ne ha orrore, la teme, la teme tanto! Perché non arriva qualcuno, come una volta, quand’era piccola, a prenderla fra le braccia a blandire la sua paura! Qualcuno alla cui forza ella possa avvinghiare la sua debolezza, la sua paura tremante di disperazione?
La porta si apre. L’uomo sta inginocchiato presso il capezzale.
“Ti senti già meglio, piccina mia cara?” le chiede
La donna afferra senza parola la mano dell’uomo, la tiene con forza, vi si aggrappa come il naufrago al legno che gli vien teso.
L’uomo si china sulle mani diafane, poi ad un tratto si getta a terra, ginocchioni e le bacia con selvaggia disperazione.
“Tu devi guarire capisci, io non posso vivere senza di te” le sussurra
La donna chiude per un secondo gli occhi. Poi alza lo sguardo su di lui. Sulle labbra della donna appare un sorriso cosi animato, cosi splendidamente calmo, che il suo riverbero, come una speranza appena sbocciata si riflette pallidamente sul volto dell’uomo.
Poi esclama, sommessa, dolce, piano, con una voce calda e morbida:
“Sciocco! Di che temi? Io, io mi sentirò perfettamente bene… fra poco!


IL SURROGATO DI CAFFE’
Il surrogato di caffè dalla cucina non poteva giungere, al massimo, che nelle tazze della servitù. Anche là però molto di rado. Da solito lo bevevano nella stessa cucina Esso pure riteneva tutto ciò molto giusto in fin dei conti era solo uno surrogato, il cosi detto caffè “Vittoria”. Esso era permeato della coscienza della propria dappocaggine e faceva inchini profondi e devotissimi davanti ai fini, aristocratici “Moka”, “Cuba” e soprattutto al “Perla di Ceylon”. Non se la prendeva se questi lo trattavano con indifferenza: non erano sgarbati verso di lui, no, soltanto non si accorgevano della sua esistenza, il che escludeva apriori, naturalmente ogni sgarbo. L’unico caffè che qualche volta scambiasse una parola con lui, era il “Santos”.
Il “ Santos” professava sentimenti popolari e riteneva che si dovevano seguire i tempi. Appunto perciò gli batteva sulla spalla con affabilità e ad ogni incontro lo incoraggiava benevolmente:
“Resisti ancora, giovane amico, tieni duro!”
Il “Vittoria” con un profondissimo inchino, balbettava
“Si, Eccellenza, si!”
Non aveva mai osato chiedergli in che cosa avrebbe dovuto perseverare, ma è probabile che questo non lo sapesse neppure il “Santos”
Godeva però dell’amicizia e della protezione di qualcuno, e precisamente della cuoca. A merenda quando lo versava nella chicchera dei piccoli “non ti scordar di me” esclamava ogni volta:
“Io resto fedele al mio vecchio “Vittoria” e con uno sguardo sprezzante misurava il “Moka”, il “Cuba”, fumante orgogliosamente nel bricco d’argento.
La caffetieria d’argento! Inarrivabile ideale segreto balenante nei sogni del surrogato del caffè! Se avesse potuto una volta, una sola volta far pompa di sé lì dento, una volta sola poter giungere nella sala da pranzo, grande e sfolgorante di luce, nella chicchera della bellissima signorina dai capelli d’oro, che passava ogni giorno davanti alla cucina senza degnarlo di uno sguardo, povero “Vittoria” che si appiattava modestamente in un angolo della finestra! Poter solo una volta raggiungere la sua boca, poi…poi non avrebbe contato più nulla come avrebbe finito!
Il povero surrogato di caffè qualche volta sognava che ciò accadesse. Ma svegliandosi, aveva paura del suo stesso ardire e allora diventava ancora più modesto e più umile del solito.
Un giorno venne la guerra. Il mondo incominciò a cambiare intorno a lui. Il “Moka”, il “Cuba”, il “Perla di Ceylon” anzi anche il “Santos” dai sentimenti popolari capitarono sempre più raramente in cucina, finché un giorno scomparvero completamente. Il “Vittoria” s’accorse con stupore che s’incomminciava a trattarlo con un certo riguardo e maggior distinzione. Spesse volte accadde che la padrona di casa chiedesse preoccupata:
“Abbiamo ancora del “Vittoria ?” e ottenendo dalla cuoca una risposta rassicurante , sospirava sollevata. “Grazie a Dio!”
Inoltre c’era qualche cosa che gli accresceva tanto l’amor proprio. Cioè fino allora egli era stato l’unico surrogato dell’intera cucina, senza parenti; vivacchiava senza parentela al mondo. Ma come fu come non fu, anche questo mutò. Una schiera di surrogati invase la cucina: surrogati si latte, surrogati di uova, di zucchero, di limone, e Dio sa quant’altre sorte e generi di surrogati. Il surrogato di caffè, come un vecchio ossequiato abitatore della cucina, accolse i nuovi arrivati con affabilità benevola, si potrebbe quasi dire paterna. Ma c’era anche un limite che non voleva oltrepassare. Il caffè d’orzo per esempio, lo degnava ancora di un po’ di benevolenza cosi, dall’alto in basso, perché ora professava sentimenti popolari ed infine si dovevano seguire i tempi, ma col caffè di granturco si sarebbe già varcato il limite. Il “Vittoria” non si mostrava sgarbato verso di lui, no, solo non s’accorgeva della sua esistenza, il che escludeva a priori, naturalmente ogni sgarbo.
La stella del “Vittoria” saliva. Lo portavano già tutti i giorni in una caffetteria di porcellana nella camera dei ragazzi e la cuoca alla merenda faceva sempre un cenno di apprezzamento ad ogni sorsata:
“Oh, questo è ancora il vecchio e buono “Vittoria” d’anteguerra!”
La servitù ripeteva con ammirazione il cenno di gradimento.
Ed un giorno…si un giorno accadde questo: la caffetteria d’argento stava sul tavolo della cuccina ed il “Vittoria” ci veniva languidamente versato nero e fumante. Il suo cuore palpitava cosi violentemente che egli stesso non sapeva in che stato giungesse alla sala da pranzo, sfolgorante di luce. Perché esso riteneva sfolgorante e abbacinante la sala, benché la padrona di casa si lamentasse in quel momento proprio di quanto fosse cattivo il petrolio di guerra.
Intorno alla tavola stavano sedute molte persone, ma egli ne vide una soltanto: la bellissima signorina dai capelli d’oro. E quando questa afferrando la chicchera, lo sollevò fino alle labbra, il “Vittoria” socchiuse gli occhi ed in quel brevissimo istante sentì che per quello… per quello si, valeva la pena di aver vissuto tutta una vita di avvilimento e di umiliazioni.
La ragazza depose la chicchera ed ebbe un piccolo brivido
“Si sente però che non è caffè autentico!”
Ma il “Vittoria” non sentiva ormai queste parole. Esso era già nello stomaco e il grande eterno buio calava su di lui.
Però, una volta che siamo giunti là non è lo stesso se nella nostra vita siamo stati veri caffè o semplici surrogati?


L’IMMORTALITA’ DEI MAGGIOLINI
Il maggiolino era giovane e idealista. Sognava, mentre in estasi crepitava fra i denti i teneri
germogli dell’albicocco, come avrebbe potuto render felice il mondo intero. Soprattutto lo interessava come avrebbe potuto rendere felici i maggiolini essendo questi le vere meraviglie del creato, anzi il centro dell’universo, la cui superiorità a tutti gli altri esseri era fuori discussione. Oltre gli essi ed incidentalmente, avrebbe voluto rendere felici tutti gli altri animali, compresi quei bipedi , che si chiamano uomini; anzi, estendeva la sua benevolenza anche alle piante. E' vero, lui era l’unico tra i maggiolini ad avere questo tipo di preoccupazione; lui non escludeva che anche gli altri esseri fossero dotati di anima… Naturalmente ciò era poco probabile ma infine poteva essere.; dal momento che succedono tante cose prodigiose! …per esempio, da che si sarebbe potuto arguire se anche quelle verdi foglioline di albicocco non sentivano qualcosa quando egli li addentava con un morso?
Il maggiolino prevenuto a questo pensiero, sospirò profondamente e con aria rannuvolata continuò a mangiare.
Egli esponeva spesso tale teoria, a preferenza quando anche le signorine maggioline erano presenti in occasione erano presenti in occasione del solito ritrovo pomeridiano.
Le signorine più tenere sospiravano commosse:
“Oh quanto cuore! Quanti nobili sentimenti!” e cercavano di convincerlo di mangiare almeno un boccone di quelli verdi fresche foglioline; ed egli, per solito con cuore sofferente e volto addolorato vi acconsentiva.
I vecchi maggiolini però consideravano che tutto ciò fosse una sciocchezza, e non facevano mistero di questa loro opinione. Essi dicevano solamente che non era sicuro nemmeno se lui stesso avesse anima. In ogni modo se l’aveva doveva essere ben poco sviluppata. Ma però in considerazione della sua giovane età, non era del tutto attribuirsi alla colpa sua. E col tempo avrebbe potuto anche cambiare se avesse dato retta ai vecchi e non avesse ciarlato più tanto.
Il maggiolino però, come ho detto prima, era idealista ed entusiasta, e il suo slancio giovanile non si lasciava intimidire dalle sgarbatezze dei vecchi. Quanto è bello e sublime infondere luce nelle anime che brancolano nel buio, e poi lentamente ma sicuramente guidarle verso la coscienza degli elevati ideali della maggiolinità e renderli con questi felici! Perché diventare perfetto non può significare che felicità.
Il maggiolino cercava da giorni qualcuno da cui iniziare la sua missione. Purtroppo, fino allora non aveva trovato alcuno.
Le farfalle non gli davano retta. Le api ronzavano ridendo, sfiorandolo quando egli cercava di spiegar loro come fossero molto distanti dall’altezza d’intelletto che distingueva i maggiolini, ma che loro pure con impegno costante avrebbero potuto raggiungere quella sublimità. Un uccello poi, a chi lui si era avvicinato con lo stesso intento, per poco non l’aveva preso col becco.
Il maggiolino idealista sedeva sul ramoscello dell’albicocco, quando ad un tratto si soffermò ad ascoltare due bipedi che stavano seduti all’ombra dell’albero. Erano un uomo e una donna. Questa, proprio in quel momento ritraeva la mano esclamando risoluta: “No!”
“Va bene, parliamo allora dell’immortalità dei maggiolini?” chiese l’uomo tra lo stizito e scherzoso.
Ma la ragazza, invece di rispondere, con un piccolo grido , si diede un colpo alla nuca.
L’anima del maggiolino, proprio in seguito a quanto aveva udito dall’uomo, era stata invasa da un fremito gioioso.
C’era dunque qualcuno che aveva bisogno di lui, che bramava di ascoltare le sue teorie e ch’egli poteva condurre verso le vie della felicità?!
Nella sua gioia, con un balzo era precipitato per iniziare la sua opera di proselitismo.
La ragazza si toccava ancora spaventata la nuca:
“Mi solletica, mi pizzica!” balbettò con terrore.
L’uomo si chinò su di lei:
“Dove? Ah eccolo, l’ho preso!” gridò poi trionfante, afferrando il povero idealista; lo gettò a terra e lo calpestò. Poi , chinandosi di nuovo sulla ragazza:
“Mostrami, t’ha graffiata?”
Una cingallegra che volava sopra di loro, constatò con stupore che gli esseri bipedi chiamati uomini, guardano qualche volta con le labbra.
Dopo un po’, l’uomo scorse a terra il maggiolino calpestato
“E’ stata un’ingratitudine schiacciare quel poveretto!” disse “Gli devo la più bell’ora della mia vita”
Questo riconoscimento probabilmente avrà recato una immensa soddisfazione all’anima del defunto maggiolino, nell’altro mondo, se in quei lontani paesi giunge l’eco della nostra piccola vita terrena.


FAVOLA DI UN DIAVOLETTO NATO NELL'INFERNO
Questo avvenne una volta, in tempi molto lontani: nel inferno nacque un piccolo diavolo. Era un avvenimento molto raro, un prodigio perché la popolazione dell'inferno non si accresce per mezzo delle nascite, ma solo per lo smarrimento degli angeli. Questo ha le sue ragioni. Il bambino si sa è frutto dell'amore. Nell'inferno invece l'amore serve solo in quanto tormento, attraverso la beatitudine dei suoi ricordi suscitati delle anime dei dannati.
Perciò il nuovo piccolo, arrivato inaspettatamente fu accolto non senza grande scandalo; ma poi tutti vi si abituarono e si passò all'ordine del giorno.
Il piccolo diavoletto crebbe, lì, nell'inferno. Girovagava per intere giornate fra vampe azzurre e rosse che balzavano in alto, e stava ad ammirare per ore ed ore il fuoco. Erano fiamme meravigliose! Qui ardevano i ricordi di ogni tormento, di ogni voluttà, di ogni peccato e di ogni desiderio, mai vissuti nel cuore della gente, perciò erano più accessi e più ardenti di ogni altra fiamma.
Essendo però il cuore del piccolo diavolo innocente e candido come quello degli angeli su nel cielo, egli di tutto ciò non vedeva altro che i colori sfavillanti e splendenti delle fiamme. Era fermamente convinto che non c'è nulla più bello nel mondo. Si abituò quindi all'aria soffocante ed incandescente dell'inferno, e l'odore dello zolfo era per lui più piacevole del profumo delle mammole. Talvolta poi si sedeva sulla roccia e là ascoltava i sospiri e i lamenti dei dannati. Ma in quanto né la sofferenza né il desiderio avevano mai toccato il suo cuore lui non capiva le loro parole, e credeva che il vento giocava sulle vette. Gli apparivano dolci le voci che sentiva e amava i diavoli che considerava belli e buoni in quanto erano i suoi fratelli.
Ma un giorno il Signore, ai cui occhi mille anni sono come un battito di ciglia, abbassò lo sguardo. Là, fra le anime di milioni e milioni di peccatori, scorse l'anima innocente e candida del piccolo diavolo, e col potere della sua volontà, lo trasse.
Da quel giorni il piccolo diavolo visse cosi fra gli angeli.
In paradiso però c'è la legge che tutti devono esser felici. Gli angeli si impegnano per facilitare l'adempimento di questo dovere.. Loro condussero il piccolo diavolo al ponte dell'iride: ma egli pensava al mare delle fiamme splendenti laggiù nell'inferno, e volgeva il capo con tristezza. Rabbrividiva dal freddo quando le brezze cariche di profumo accarezzavano il suo volto. Poi gli angeli lo portarono giù, dove poteva ascoltare l'armonia delle Sfere. Ma lui aveva un solo desiderio, sentire gli conosciuti suoni dei lamentosi sospiri, quindi non si rasserenava. Bramava di vedere i diavoli dalle facce nere e non lo consolava la bellezza abbagliante degli angeli. Agognava, agognava con inestinguibile rimpianto, l'atmosfera azzurrognola e sulfurea dell'inferno.
Alla fine lo portarono al cospetto del Signore. Il Signore gli toccò occhio e cuore :
"Nessuno può rimanere in paradiso malgrado la sua volontà. Ma prima di tutto guarda cos'è che tu aneli."
E il piccolo diavolo, guardando giù, vide l'inferno com'è. Vide il tormento e il dolore, che ardevano tra le vampe. Sentì e capì l'accoramento che tremava nei sospiri e il desiderio vano e si rese conto anche della malvagità e del delitto che regnava nelle anime dei suoi confratelli. Si convinse che, da allora in poi, eternamente e dappertutto, avrebbe visto, udito e sentito tutto ciò, e che i suoi occhi non avrebbero ormai più avuto quel velo.
Il suo cuore si strinse per il dolore e dai suoi occhi caddero lacrime cocenti.
Il Signore lo guardò benevolmente:
"Perché piangi? Resta con noi, ora che sai cos'è in realtà ciò che tu amavi.
Il piccolo diavolo chinò la testa:
"Si questo è l'inferno... ma io, io vi sono nato!" disse con un filo di voce e si posse in cammino verso l'inferno.


LA BAMBOLA DI PORCELLANA
Stefanino era già un’ ometto: aveva quasi sei anni. Un giorno andò a passeggiata col suo zio. Provava sempre un gran piacere ad uscire con lui, perché lo portava in posti molto interessanti. Quel giorno andarono direttamente sul corso principale, dove c’è un magnifico negozio di balocchi. Arrivando all’inizio della strada Stefanino se la godeva già, sapendo benissimo che si sarebbero fermati davanti a quel negozio. Infatti passeggiare con lo zio era molto diverso che andare con la governante che sarebbe stata volentieri per ore e ore davanti alle vetrine di cappelli e vestiti, ma se per caso s’imbattevano in qualche cosa di veramente interessante, diceva subito che faceva freddo e che bisognava andar via.
Non si era ingannato neanche per questa volta. Si erano infatti fermati davanti alla vetrina, guardando scrupolosamente tutto, dal primo all’ultimo balocco esposto. Lo zio era veramente un uomo molto savio, rispondeva con raziocinio e con esattezza a tutte le domande e non diceva mai sciocchezze come fanno gli altri uomini grandi. Anche allora gli aveva spiegato in modo cosi attraente come poteva levare il tetto della casetta delle bambole, poiché Stefanino non riusciva a capire in nessun modo come potessero entrarvi i fantocci non essendoci delle scale.
Anzi, lo zio lo aveva portato dentro il negozio, e aveva chiesto ad uno di quei signori che vendono i balocchi di aprire la casa; questo era divertentissimo perché riusciva vedere le stanze dal di sopra. C’era una sala da pranzo, un salotto con mobili minuscoli e c’era anche una camera da letto. Questa era la più vezzosa. Nell’angolo c’era un lavabo, e c’erano pure un catino, una brocca e un bicchierino, e nel bel mezzo della camera un piccolo letto, nel quale giaceva una bellissima bambola di porcellana, con capelli veri e con gli occhi azzurri.
Era cosi bella che Stefanino non poteva distogliere gli occhi da lei Lo zio, che, come ho detto, era un uomo molto perspicace, se ne accorse subito e disse:
“Stefanino, vuoi che te la comperi?”
Stefanino divenne rosso fino alle orecchie dalla felicità, e soltanto con la testa fece ripetutamente cenno di si.
Uscendo dal negozio, Stefanino si mise subito la bambola in una tasca, perché non avesse freddo, poiché la poverina indossava soltanto una piccola camicetta, essendo stata fino allora nel lettuccio. Ma guardava ogni momento se era ancora lì.
Arrivarono a casa per l’ora precisa di colazione e Stefanino mostro con orgoglio il suo nuovissimo tesoro.
Questo piaceva molto alla mamma e a Eva, ma il babbo rise forte:
“Tu sei un bel giovanotto e giochi con le bambole! Dalla piuttosto a Eva!”
Stefanino restò sbigottito senza capire. Perché mai non potevano piacergli le pupazze? Perché era un maschietto?
Però ora non riusciva più a rallegrarsi per la bambola , come prima.
Il pomeriggio andò al giardino, dove i ragazzi del vicinato usavano radunarsi con le loro piccole slitte. Si divertivano un mondo. Ad un tratto, mentre sdrucciolava sul pendio della collinetta, gli cadde di tasca la bambola di porcellana.
Un altro ragazzo se ne accorse e si affrettò a raccoglierla:
“Tu giochi con pupazze? Guardate questa signorina, si diverte con le bambole! Baby! Baby!
Gli altri ragazzetti imitarono il primo, gridandogli dietro:
“Baby! Baby!”
Stefanino stette lì muto per un po’, poi strappò dalle mani del compagno la bambola e la scagliò lontano, con tutta la sua forza. La bambola fecce un grande arco in aria e andò a battere contro un albero, cadde a terra e affondò nella neve, cosi che ne affiorava solo la piccola testa bruna.
Stefanino con gli occhi sfavillanti d’ira gridò:
“Io non sono una bambina!”
A casa, all’ora di andare a letto, la mamma gli chiese:
“Che cosa fa la tua bambola, Stefanino?”
Stefanino arrossi:
“L’ho smarrita nella neve!” bisbigliò
La mamma scrollò la testa:
“Valeva la pena di farti un regalo! Povera bambolina, come deve aver freddo, là fuori!”
Da un pezzo avevano già spento le candele; ma Stefanino non riusciva addormentarsi. Pensava e ripensava sempre alla bambola. La mamma non ha torto, fa molto freddo fuori. La povera bambolina non ha vestito, solo una piccola camicetta. Domani mattina andrà subito a ricercarla. Si, ma egli si alza soltanto alle otto e prima d’allora qualcuno può benissimo ritrovarla e portarla via.
Era talmente bella, cosi carina e la sua testolina bruna ammiccava cosi tristemente fuori dalla neve! Se non fosse già svestito potrebbe fare una scappata nel giardino e riportarla. La luna è cosi chiara che tutto il paesaggio n’è illuminato.
Infine poi le sue vesti sono lì accanto al letto e ci sono anche le sue scarpine. E’ vero non ha qui Né gli stivaletti né il soprabito, ma non fa niente, perché prima del mattino le scarpine asciugheranno e nessuno s’accorgerà ch’erano bagnate.
Quindi Stefanino si vestì e uscì, sgattaiolando per la porta. Si avvio direttamente verso la collinetta. Non era mai stato fuori a ora cosi tarda. Come sono strane le ombre e come si muovono, quasi fossero animate! Ma laggiù, davvero, qualcuno si muove! Stefanino si appiatta fra i cespugli. E vengono appunto verso di lui! Ah! E’ Giulietta con suo fratello, il soldato. Ora finalmente se ne sono andati!
Stefanino continua la sua corsa. Ad un strato si ferma irrigidito. Un cane gigantesco avanza con grandi salti verso di lui.
A Stefanino viene subito in mente ciò che babbo ha detto ieri, cioè che nei ultimi giorni si era visto aggirarsi nei dintorni un cane idrofobo: certamente sarà questo, altrimenti perché abbaierebbe tanto?
E’ già vicinissimo… Ah! Ma questo è Fido, che scodinzola festoso e corre con lui allegramente fino alla collinetta.
Grazie a Dio! Sono arrivati. La bambola è ancora lì. Stefanino la alza dalla neve, avvolgendola nelle sue vesti per asciugarla.
Povera bambolina! Uno dei piedini s’è infranto, certo quando ha cozzato contro l’albero. La camicetta è tutta rattrappita e indurita dal gelo. Però non ha subito altri guai.
Stefanino ora vorrebbe sedersi per riposarsi un po’; poi correrà di nuovo a casa e nessuno si accorgerà che è stato fuori.
Ma ora ha tanto sonno e socchiude un po’ gli occhi.
Ad un tratto sente delle voci, e sollevando gli occhi vede il babbo, la mamma e altri che stanno lì intorno a lui coi lumi in mano
La mamma piange e dice:
“Vi ho detto che era uscito per cercare la bambola”
Qualcuno se lo stringe al petto, lo copre. Stefanino riprende il sonno.
Svegliandosi, si trova nel suo letto e sente troppo caldo.
Accanto al letto stanno la mamma e il vecchio dottore.
Stefanino guarda la mamma:
“Dov’è la bambola?” domanda, e non può parlare che a stento e con voce rauca.
La mamma gli porge la bambola.
“Eccola piccino mio, ma ora stai calmo e riposati: non parlare!”
Poi rivolgendosi al vecchio medico:
“L’ha fatto per questa. Mi dica dottore, lo capisce lei questo bambino?”
Ma Stefanino preme beatamente il suo tesoro sulle guance febbricitanti e sorride silenziosamente. Che ne sanno i grandi di quanto valga una bambola di porcellana con un piede rotto, gettata via una volta, pa poi riconquistata a prezzo di dure lotte!”

A palast


IL FANCIULLO NATO CON LE ALI
Ad una donna nacque un figliuolo. Quando gli mostrarono il piccino ella vide con terrore che sugli omeri aveva lunghe cocche di membrana
“Che cos’è?” chiese terrorizzata
Il vecchio medico dalla bianca barba, che i paesani temevano perché in fama di stregonerie scrollo la testa canuta:
“Strano! E come se avesse delle ali. Bada al tuo figlio e curalo bene: forse accadrà il prodigio ed egli volerà”
La nonna non rispose, ma stringendo i denti guardava muta il figlio. Quando il medico se ne andò, riprese dalla culla il suo piccolo e con una fascia gli legò fortemente le ali.
“Non voglio che tu voli! Tu sei mio figlio, e rimarrai con me!” gli disse in silenzio.
Il bambino crebbe. La madre teneva nascoste sotto le vesti e legate le sue ali cosi che nessuno sospettasse che egli fosse diverso dagli altri ragazzi. Il bimbo si abituò ad essere cosi.
E’ vero: qualche volta le sue ali compresse gli facevano male ed egli sentiva un desio incomprensibile di liberarsi dalla stretta valle dove abitava e di spiccare il volo lontano, su, su in alto, verso la luce.
Ma quando chiedeva alla madre che mai sarà questo suo desiderio, essa rispondeva severamente:
“Potenze tristi ti tentano. Sii uomo e sappile vincere!”
Quindi il ragazzo lottò con sforzi disperati per non bramare la via del sole e della luce
***
Passarono gli anni, il ragazzo non era più un bambino. La madre osservava con terrore che invano gli legava le ali dietro alle spalle: nel cuore del fanciullo bruciava ogni giorno con fiamme più ardenti il desiderio, e il desiderio faceva crescere le ali, e li rafforzava sempre di più.
Una mattina di primavera quando il sole splendeva più radiosamente come mai, il giovane sciolse le sue ali luccicanti e splendenti, quindi sollevandosi verso l’altro volò via, verso il sole, verso la luce.
I suoi compagni lo seguirono con lo sguardo stupefatto e ammirato, poi si rivolsero alla madre:
Benedetta fra le donne, tu che puoi chiamarlo tuo figlio”
Ma la madre si nascose il volto:
“Io non ho più nessun figlio!” disse con angoscia.

Preselt gondolatok


LA REGINA DELLE NEVI
Molto lontano, nel nord si trova il regno della Regina delle nevi. A volte, molto di rado, stende le ali gigante e candide, si libera e vola lentamente nell'aria gelida su paesi stranieri. Ad ogni battito delle sue ali vengono giù migliaia e migliaia di fiocchi di neve che volano, turbinano lentamente, senza tregua, sulle sue orme.
Il cuore del suo regno non ha visto mai alcun mortale.
Lì non esiste null'altro che quiete e una morbida candore. Lì vive e lì sogna la Regina delle nevi.
Avvenne una volta che due giovano, armati solamente dalla forza del loro animo ardente, che essi credevano più grande del potere della Regina delle nevi, si avviarono a conquistare il suo regno.
Ne avevano appena varcato il confine che centinaia di messaggeri corsero ad adunarsi intorno al seggio del trono.
Uccelli delle regioni ghiacciate, dalle ali azzurrognole e verdeggianti, fendevano fischiando l'aria per portare la notizia.
Frotte di pinguini ballonzolanti, orsi bianchi che dondolavano sulle zampe, foche dagli occhi umani, tutti si prostrarono dinanzi a lei scongiurandola:
"Salvaci! Non permettere che l'uomo, il nemico penetri qui!"
La regina si levò dal suo giaciglio. Era alta, bianca e pallida. Sorrise:
"Non temete" sussurrò piano mentre dalle sue ali disciolte incominciavano a cadere lentamente i fiocchi di neve
I due giovani marciavano già da molti giorni. Non riuscivano a fermarli né la fatica, né il pericolo. Varcando il confine della Regina delle nevi si strinsero la mano:
"Non torneremo che insieme e vittoriosi!"
Ma alla prima sosta si trovarono davanti la Regina delle nevi.
" Tornate! Là vi chiama la vita, qui vi attende la morte e l'eterna quiete" sussurrò con dolcezza.
I giovani non risposerò; scrollarono le teste e proseguirono.
La Regina delle nevi si elevò nelle altitudini e sciogliendo le sue candide ali li inseguì. Lentamente, piano piano, senza tregua cadevano, volavano i fiocchi di neve.
Spesse volte comparve ancora davanti ad essi la Regina delle nevi; ma non proferì più una parola; accennava solamente verso il sud.
I giovani voltavano il capo e procedevano sempre più lentamente, sempre con più fatica nel bianco candore che cadeva ancora, senza sosta.
Un giorno, uno dei due giovani si accasciò sfinito e alzando gli occhi sul compagno, disse:
“Ti devo lasciare! Ritorna! Questo è il paese della morte!” e le sue palpebre si chiusero per sempre.
L’altro lo prese fra le braccia e lo portò là dov’erano ammucchiati grandi blocchi trasparenti di ghiaccio.
Lo depose sulla neve morbida e intorno e sopra il suo corpo mise un cumulo di ghiacci, cosi che il suo compagno potesse dormire l’ultimo sonno in una cassa di vetro verde e trasparente.
Ammucchiò sopra di lui tanti blocchi, sempre più alti, finché fecce erigere una piramide di ghiaccio che scintillava in migliaia di colori luccicanti.
Il giovane guardò per l’ultima volta il viso del compagno, pallido del parole mortale.
“Ritornerò e ti ritroverò. Non temere, non rimarrai solo!” e si pose in cammino per la via donde era venuto.
Sopra la tomba, lentamente, piano piano senza tregua cadevano, volavano i ficchi di della neve.
Prima che il giovane fosse giunto ai confini del paese, sul posto della piramide di ghiaccio sfavillante di mille colori, si stendeva un campo uniforme e infinito di neve.
La regina delle nevi socchiude le sue immense ali e candide, sosta, guarda intorno, continua a sognare…

L’IDOLO DALLE ORECCHIE DI CANE
La ragazza sta inginocchiata ai piedi dell’idolo. Con le mani protese, arriva a sfiorare appena la punta dei piedi. Gli occhi supplici si perdono scrutando verso l’alto. Ma il suo sguardo non oltrepassa le ginocchia dell’idolo. Più in alto la sua figura si perde nella penombra che domina le arcate del tempio immenso.
Nessuno può vederlo. Si sa solo che egli sta lassù, accoccolato sulle gambe, alto, irraggiungibile, muto, immobile, e con le orecchie lunghissime, penzolanti. Percepisce cosi anche i più reconditi pensieri che balenano attraverso la mente degli uomini.
Quando porge ascolto alle preghiere dei fedeli, sorride misteriosamente, arcanamente, truce, ma nessun occhio umano vede questo suo sorriso.
***
L’uragano galoppa furiosamente sopra il tempio. Le labbra della ragazza si muovono ma la sua voce non si ode. Prega con le mani congiunte e le preme sul cuore:
“Iddio, grande Iddio, dalle orecchie di cane. Tu, che nessuno ha visto mai volgi il tuo sguardo su di me e sorridi! Restituiscimi colui che mi è più caro della vita. Non permettere che diventi infedele, volubile, sleale. Tu sai che è stato mio, che mi amava, e che ora non mi degna più nemmeno di uno sguardo! Anche stasera, perfino mugghi la tempesta è salito in barca per andare da lei! Dio grande, Dio dalle orecchie di cane, ascolta la mia supplica. Fa che più non lo ami un’altra donna. Fa, ch’egli non ami più un’altra donna.
Ora, le labbra della ragazza non si muovono più. Trattenendo il respiro aspetta la risposta del Dio.
Sembra che anche la tempesta si sia placata, ammutolita…Ma d’improvviso uno spaventevole schianto: il tempio trema sotto i suoi piedi e la ragazza si prostra a terra. Rimane lì per qualche tempo, prima di osar sollevare lo sguardo: la volta fra le arcate, sempre fra le tenebre, ora è tutta fiamme e vampe: e del chiarore di una luce rossastra, la testa del Dio emerge spaventosamente. Le sue lunghe orecchie penzolanti, lasciano in ombra la meta del suo volto. Ma dalla bocca fino all’orecchio sinistro è tesa un’enorme spaccatura che deforma in un sorriso le sue labbra.
La ragazza sobbalza e lanciando indietro trionfalmente la testa
“Tu sorridi! Hai ascoltato la mia supplica!”
***
L’uragano va affievolendosi, ma le onde danzano ancora le loro cavalcate feroci.
La ragazza sta sulla riva ed aspetta che il suo uomo ritorni. Senza ira, col cuore traboccante di passione, poiché non potrà mai più esserle infedele. Le ore passano, il tempo scorre e la ragazza sta ancora ad aspettare sulla spiaggia.
“Perché tarda? Dovrebbe arrivare! Dio, il grande Dio dalle orecchie di cane mi ha sorriso.
Ma che c’è? Che portano le onde? Una barca? Si, capovolta, vuota; avanza, si avvicina in balìa del gioco delle onde, che la sballottolano qua e là. E non lungi da essa, un uomo…La ragazza non grida: è già presso di lui e strappa dalle onde il suo amore.
“E’ impossibile! Impossibile!” sussurra.
Ma le labbra dell’uomo rimangono mute.
Il Dio ha mantenuto la parola: l’uomo non amerà più nessuna donna!
La ragazza si alza. I suoi occhi sfavillano selvaggiamente, e strappando dalla cintola dell’uomo la scure, corre verso il tempio.
La volta arde ancora , illuminando da lontano il paesaggio.
La ragazza si accosta ai piedi del Dio e alza la scure.
“Mi hai ingannata! Sapevi ceh non chiedevo questo! Restituiscimelo o muori!- grida e batte con la scure.
Dalla roccia si stacca una piccola scheggia e saltando colpisce la ragazza alla tempia. La ragazza cade fulminata senza una parola
E dall’alto le labbra dell’idolo dalle orecchie di cane si scompongono in un ghigno.

A liba

NEL MONDO DEI CIECCHI
C’era una volta un paese dove tutti nascevano ciechi.
Un velo fitto e grigio copriva le pupille di tutti; ma non sapendo che si può anche vedere, nessuno sentiva la mancanza della luce sfolgorante del sole e vivevano contenti nella loro tenebra eterna.
Accadde un giorno che nel regno dei ciechi capitasse un uomo che vedeva.
Camminando fra i ciechi si accorse con stupore che essi parlavano amichevolmente e con dolcezza fra di loro, ma che la faccia dei più appariva sfigurata dall’ira, dall’invidia, dalla malvagità più torva e bieca.
Perché nel paese dei ciechi, dove nessuno vedeva, gli uomini non avevano imparato a nascondere sotto una maschera ridente le loro passioni; e i loro pensieri che nelle anime degli altri uomini sono celati, trovavano espressioni orrende sui volti degli uomini ciechi.
L’uomo che vedeva, continuando la sua strada incontrò un gruppo di ciechi che seguiva con grida di giubilo festoso e clamoroso un uomo dalla cui fronte irradiavano la bontà e il genio. I volti dei ciechi erano invidiosi e saturi d’odio.
L’uomo che vedeva s’avvicinò a loro e chiese:
“Perché odiate quest’uomo?
I ciechi gli risposero:
“Non hai sentito che noi gridiamo con festa e giubilo perché egli è grande, buono e forte? Lui è riuscito essere cosi come tutti noi bramiamo. Le tue parole sono sciocche e false. Perché dici che l’odiamo?
“Perché lo vedo” rispose l’uomo; e continuò il suo cammino.
Giunto al limitare di una selva, fecce una sosta per riposare, e stando steso in silenzio sull’erba, scorse un vecchio e una ragazza che uscivano dal folto della boscaglia.
Il vecchio teneva abbracciata la ragazza e le chiedeva amorosamente:
“Mi ami?”
La faccia della fanciulla si contorse in un moto di disgusto, nel momento in cui rispondeva dolcemente:
“Ti amo!”
L’uomo che vedeva si sollevò per metà:
“Perché dici che lo ami quando ti fa ribrezzo?”
La ragazza trasalì:
“Menti! Non hai sentito che lo amo e che sarò la sua moglie? Perché affermi il contrario?
“Perché lo vedo” rispose l’uomo.
E riprendendo il cammino incontrò un viandante e, accanto a lui, stava con aria di vendetta e con la scure alzata, uno che voleva ucciderlo.
L’uomo che vedeva afferrò l’assassino per le spalle:
“Non farlo!”
L’altro lasciò cadere l’ascia:
“Come sai tu ch’egli è il mio nemico? Non l’ho mai detto ha nessuno. Tu sei il complice di Satana!”
“No, soltanto io vedo” rispose l’uomo.
Riprese il cammino sempre più stanco e sempre più triste, per la sua via, convincendosi sempre più che in quel regno non esisteva né bontà, né amore.
Finalmente giunse sulla cima di una montagna e guardando giù, vide una ragazzetta che giocava davanti alla sua casupola. Teneva fra le mani del pane, e avidamente vi dava dei grandi morsi, quando un cane strofinandosi a lei, le lambì la mano. La ragazza sorrise:
“Anche tu hai fame!” e spezzando per metà il suo pane lo divise con l’animale.
L’uomo che vedeva si accostò alla ragazzetta posandole una mano sulla testa:
“Hai fatto bene, fanciullina mia a dividere il tuo pane con l’affamato!”
La ragazze3tta chiese stupita:
“Come sai che gliel’ho dato se tu non eri qui?”
“Ho visto!” rispose l’uomo
“Anch’io vorrei vedere!” disse la fanciulletta e lo seguì.
L’uomo che vedeva, dopo aver percorso tutto il paese, convocò il popolo dei ciechi e disse:
“Ho visto cose molto cattive e tristi assai nel vostro paese. Ma io voglio aiutarvi; porterò un medico che toglierà dei vostri occhi il velo che li offusca e cosi non sarete più ciechi ma potrete vedere come me. Potrete allora vincere tutto il male che nascostamente regna nel buio. Vedrete il sole e i fiori e tutto ciò che è di bello e di buono sulla terra”
Ma quanti tra i ciechi nascondevano in cuore pensieri torvi e cattivi balzarono in piedi e gridarono agitando i pugni:
“Tu sei il complice di Satana, che ti ha mandato tra noi! Vattene e non tornare mai più!”
Erano una moltitudine.
“Chi ha cuore candido e non ha paura della luce venga con me!....”
E si misse in cammino verso il paese della luce.



A mult emleke

IL TAVOLO ROTONDO
La ragazzino, col libro tra le mani e le gambe penzolanti sta seduta sul tavolo rotondo.
E’ convinta di studiare. Ha il libro aperto, ci tiene sopra gli occhi senza staccarli, anzi mormora a mezza voce quello che sta leggendo. Ma non s’accorge che i suoi pensieri sono altrove.
Dovrebbe imparare per domani la storia biblica: come Iddio ha creato l’universo.
“In principio Iddio creò il cielo e la terra…Allora Iddio disse: Sia luce! E la luce fu.”
La ragazzina ripete già per la terza volta il versetto, senza rendersi conto di quello ceh dice. Poi improvvisamente la colpisce la parola: luce, che ripete di nuovo, meditando.
“E’ naturale per poter vedere cosa va a creare negli altri giorni” soggiunge soddisfatta.
Ma che cosa faceva prima, quando era buio?
La governante dice che Iddio esisteva, anche prima! Sempre, dall’eternità! Perché Dio è l’eternità, cioè “una cosa che non ha principio né fine!”
La ragazzina scrolla la testa. Questo non lo capisce. Ogni cosa ha la sua fine. Anche il giorno, anche la notte, anche il filo, per quanto lungo sia: cosa è dunque che non ha fine?
La ragazzina sta seduta già da un pezzo in silenzio.
Senza volerlo, essa incomincia a girare, scivolando sull’orlo del tavolino liscio. Anche cosi si può studiare abbastanza bene. Non farà questo gioco molto tempo: soltanto fino alla fine del tavolo, poi starà seduta di nuovo tranquillamente
Ha già fatto per tre volte questo giro, facendosi scorrere intorno e ripetendo parecchie volte il versetto della Bibbia:
“In principio Iddio creò il Cielo e la Terra… Allora Iddio disse: “Sia la luce! E la luce fu….” Ma non è ancora arrivata alla fine del tavolo.
La ragazzina scivola sempre più velocemente e il suo volto si fa sempre più pensoso.
Dalla stanza vicina entra la mamma.
La ragazzina balza dal tavolo e la guarda con gli occhi lucenti:
“Mammina, ora ho capito che cosa è l’infinito! E’ un tavolo rotondo” esclama trionfante.

IL VELO GRIGIO
Ad una madre nacque una figlia.
La donna prostrandosi innanzi le Potenze Misericordiose, implorò:
“Non lasciate che al cuore di mia figlia si avvicinino il dolore e le preoccupazioni! Fate che sia risparmiata dallo spasimo della sofferenza.
Le Potenze Misericordiose si chinarono sopra la culla della bambina e , accogliendo la supplica della madre, avvolsero il cuore della piccola in un velo grigio.
La ragazza se ne stava seduta, avvolta in veli grigi, morbidi e fluenti, nella sala arcata del vecchio castello, dove le mura e i vani delle finestre erano coperti di ragnatele, e guardava con indifferente tranquillità dinanzi a sé, per intere, intere giornate.
Non la toccava Né la canzone degli uccelli canori, né l’urlo mortale della selvaggina che cadeva sotto i colpi dei cacciatori: non la sferzava l’ardore cocente del sole e non la faceva tremare la furia della tempesta scatenata. I veli grigi che avviluppavano il suo corpo e la sua anima, la proteggevano da tutto quanto potesse farle male. Sua madre non vide mai una lacrima nei suoi occhi.
Quando, un giorno, un giovane forestiero capitò nel castello e, varcando la soglia della sala, intravide la ragazza.
S’inginocchiò dinanzi ad essa e, sollevando il lungo velo che la ricopriva, le disse:
“Sei bella anche nel tuo velo grigio! Perché non ti cingi la testa di rose?
La ragazza lo guardò stupita:
“Rose? Cosa sono le rose? E perché dovrei essere bella?
Il giovanotto si guardò in giro, si sporse dalla finestra, strappò un ramoscello di rose selvatiche in fiore, e lo cinse attorno alla fronte della ragazza. Ma le spine nascoste fra le rose ferirono la testa della fanciulla e una goccia di sangue vi scorse giù, come una lacrima rossa e ardente. Allora le lacrime irruppero dagli occhi della ragazza e cadendo fitte, calde e luccicanti, ne tolsero il velo grigio, lavando la sua anima. Dalla finestra dove il giovanotto si era sporto rompendo le ragnatele, irruppero come un’ondata improvvisa i raggi del sole, trasformando il velo grigio che si stendeva sul corpo della ragazza in una tela d’oro splendente. E quando sua madre entrò, la ragazza era lì, sorrideva fra le lacrime che le irroravano il viso, col capo cinto da una corona di spine e di rose.


IL FUNGO
Il fungo fece capolino incuriosito tra il fogliame secco dell’anno prima.
Si era svegliato solo allora: durante la notte era caduta una fitta, tiepida pioggia; ed egli ha cominciato a stiracchiarsi ed era venuto fuori dalla terra precipitosamente come.. si come un fungo.
Appena si guardò intorno, s’accorse con gioia di non esser solo.
Dappertutto apparivano grandi e piccoli funghi rossi, bianchi, gialli, bruni. Un po’ più lontano ve n’era uno panciuto e vecchio, di almeno tre giorni, con un largo cappello cicciuto e bruno, che teneva una predica alla gioventù
“Su dunque, giovani amici miei, vispi in vita, su , succhiate dalla terra con tutte le vostre forze gli umori di cui è impregnata. Crescete e prolificate! Questo è più importante dovere dei funghi. Ma badate bene di non succhiare umori nocivi, che siano dannosi agli uomini e alle bestie: non succhiateli, perché tristo è chi nuoce agli altri e presto sarà distrutto.
“E chi è utile sarà mangiato!” lo canzonò un funghetto dal cappuccio variopinto di colori vivaci, con macchiette rosse e bianche. “Nessuno osa toccarmi, questo lo so di certo, e se qualcuno lo osa, se ne pentirà” soggiunse baldanzosamente.
“Va bene! Va bene! Vedremo alla fine chi ha ragione. Chi nuoce sarà distrutto, quanto vi posso dir io” brontolò il fungo bruno, e voleva dar più forza alle sue parole con un cenno del capo, ma la pappagorgia glielo impediva. Cosi stette lì, immobile, grassoccio, paffuto e dignitoso, facendo finta di non accorgersi neppure di quel funghetto rosso.
“Quel piccolo prepotente osa ancora parlare! I paperi vogliono insegnare alle oche! E’ uscito appena ieri dalla terra ed ora vorrebbe tener cattedra a chi è già qui da tre giorni!” Egli ha imparato fin dalla prima ora che non è lecito nuocere agli altri, e tutto ciò che una volta a imparato non lo dimentica più. Non impara lui molto facilmente è vero, anzi, si potrebbe dire che sia piuttosto duro, ma se qualcosa è penetrato nel suo testone, questo non se ne andrà facilmente; e vi rimarrà fino al giorno della morte.
Il rossiccio si dondolò qual e là sul suo bianco gambo e continuò a beffarlo:
“Si, si, sarai mangiato, si, si, sarai mangiato!”
Egli invece aveva imparato cosi in gioventù, e teneva aggrappato alla sua opinione. Visibilmente il suo comprendonio era più agile, pronto e facile, ma in fondo anche lui era solo un altro fungo testardo come quello bruno.
Il piccolo fungo guardò dubbioso e scrollò pensosamente il suo capellino giallo:
“Chi ha dunque ragione?”
Poter decidere la questione sarebbe stato importante, perché egli doveva, secondo l’uno o l’altro indirizzare la linea della sua vita futura. Gli alberi, i cespugli non potevano dare consigli; neanche gli uccelletti che cinguettavano e volavano via incuranti della preoccupazioni dei funghi. Ma se anche vi avessero fatto caso, solo un fungo poteva capire i mali dei funghi.
Ad un tratto trasalì. Una donna e un ragazzetto venivano avanti con un cestino fra le mani.
“Mammina, qui ci sono molti funghi” esclamò il ragazzo.
La donna si chinò verso il bruno panciuto.
“Si, ma non toccare quello rosso, perché è velenoso” disse la donna
Il ragazzo allora gli afferrò un calcio:
“Cosi almeno non potrà far male a nessuno!”
Il piccolo fungo si appiattò impaurito, mentre dal cestino, quello bruno, e sulla terra, rotolavano via, l’altro, con le macchiette rosse e bianche, ridendo con malizia gridavano nello stesso momento:
“Te l’avevo detto, si o non? Chi aveva ragione?”
“Chi nuoce sarà distrutto” mormorò il bruno con un filo di voce
“Sarai mangiato, si, si, si, sarai mangiato, si, si , si!” sussurrò il rosso con voce fioca, che appena si sentiva.
***
E il piccolo fungo giallo è rimasto solo nella foresta. Hanno portato via tutti i suoi compagni, ma egli era cosi piccolo che non si sono accorti di lui e cosi è scampato.
Man mano la sua paura incomincia a dileguarsi; solo un pensiero lo turba ancora e lo inquieta: dunque, in verità, chi aveva ragione, il rosso o il bruno…?”

A kasszas
Az almafa

LA FOGLIA SECCA
L’albero annoso si svegliava dopo un lungo sonno invernale.
Sentiva uno strano formicolio nelle membra. Era una sensazione quasi penosa, voluttuosa, un prurito ma anche un dolore, eppure una felicità giubilante… L’albero annoso conosceva benissimo quella sensazione: egli germogliava.
Quante e quante primavere ciò si era ripetuto dopo che ogni autunno aveva sempre creduto di chinare la testa per un sonno eterno. E come gli faceva male staccarsi ogni anno dalle sue vecchie foglie, che , con un attaccamento spasmodico si aggrappavano a lui quando in autunno la tempesta danzava sopra di loro…e come si scordava interamente di esse quando le nuove gemme incominciavano a sbocciare!
°°°
L’albero annoso cominciava a stiracchiarsi. Le sue radici, le sottili radici capillari, succhiavano avidamente l’umore vitale della terra. Questo umore scorreva attraverso tutto il suo corpo, e dappertutto sbocciavano le gemme. Erano cosi voraci queste piccole gemme, cosi ghiotte e avide, e crescevano a vista d’occhio, liberandosi di tutto quanto impediva la loro via! Si poteva quasi sentire la loro voce, quando, sotto il bruno tegumento sussurravano :
“Vogliamo raggi di sole, calore, vogliamo vivere! Nostra è la gioventù, nostro l’avvenire!”
Sul più alto ramo dell’albero annoso stava accoccolata una foglia secca rattrappita. Invano la pioggia autunnale l’aveva sferzata, indarno la neve l’aveva coperta per interi mesi, inutilmente la tempesta aveva tentato di scuoterla nella sua folle danza: nulla era riuscito a vincerla. Essa stava aggrappata al ramo dove era nata, dove era diventata grande e forte e dal quale dominava tutte le compagne; e non voleva abbandonarlo. Lì è vissuta e lì sarebbe morta! Ma non ancora, no! Le tempeste sono passate, l’inverno è trascorso, il sole sferza col suo ardore come una volta, ed essa potrà continuare a vivere sulla sua altissima dimora, che si è conquistata con la sua forza e il suo coraggio. Chi oserebbe affrontarla ora, poi che ha lottato cosi trionfalmente con le tempeste invernali?
Ma sotto i suoi piedi sente una leggera spinta. Che c’è? Chi osa disturbarla?
Ecco di nuovo, l’urto si rafforza.
Guarda giù. Avvolto nel suo sottile bruno involucro, affiora un piccolo bocciolo, che appena si riesce a scorgere tanto è piccolo in confronto a lei! Ma senza paura, come ignorasse la sua piccolezza, tende ad innalzarsi verso il sole. Si stiracchia, come volesse aspirare tutto l’aroma della primavera, ed esclama:
“Vattene! Vattene! Levati dalla mia strada! Tu sei l’ombra, tu sei il buio. Lasciami il sole! E’ mio diritto di averlo! Io sono la giovinezza! Vattene!
La foglia sente con disperazione, impotente nella sua immobilità, di venir spinta, cacciata via dalla forza invincibile della gemma che tende in su verso la vita.
…E nell’aria primaverile, lentamente, piano piano, vola verso la terra una foglia gialla e secca.

Konnyek
Ket sors

L’ADUNANZA DEGLI INSETTI
Gli insetti decisero in un bel giorno di organizzare un’assemblea generale. Da migliaia e migliaia d’anni vivevano allo stesso modo, tranquilli, senza cambiare un filo del loro abituale tenore di vita. La formica e l’ape lavoravano, il fuco poltriva in ozio e alla fine veniva ucciso. Il grillo invece cantava e in autunno moriva di fame. Però, tutti gli insetti, vivendo insieme, avrebbero potuto imparare uno dell’altro ciò che l’altro aveva di buono ed abbandonare quanto ognuno aveva di cattivo.
Proprio per questo decisero di organizzare un’assemblea, dove il più brillante oratore di ogni specie avrebbe tenuto un discorso istruttivo, insegnando agli altri tutto quanto fosse di utile, lodevole ed imitabile nella propria categoria. Cosi, prendendo per esempio le parole dell’ape, da allora in poi anche il fuco avrebbe raccolto il miele, e la lucciola mansueta avrebbe insegnato la misericordia alla vespa dagli istinti assassini.
Il luogo dell’incontro fu fisato in un ampio spazio nella foresta. Farfalle, bruchi, lucciole, coccinelle, api, fuchi, formiche, grilli e migliaia di altri insetti e coleotteri brulicavano sullo spiazzo.
Una campanula azzurra del lungo stello era la tribuna e nello stesso tempo anche il campanello che l’oratore spiccandovi con un salto per raggiungerlo, faceva oscillare prima di iniziare il suo discorso. Primo oratore fu l’ape. Inneggio il lavoro ininterrotto ed assiduo per il bene di tutti, dimentichi di se stessi, senza desideri e scopi egoistici vivendo solo per gli altri.
L’adunanza l’applaudì e i fuchi lo sollevarono sulle spalle con entusiaste acclamazioni.
Dopo l’ape fu la volta della formica. Anch’essa glorificò il lavoro e l’amore verso la prole. La crisalide: in essa sta nascosto l’avvenire: tutto ciò che ad esse non dava la vita, ogni speranza ed ogni desiderio non realizzato. Vivere per questo non è più bello che difendere la nostra grigia e meschina vita da ogni preoccupazione, da ogni malanno e fatica?
Anch’essa ottenne calorosissimi “evviva!” e il grillo pensò con le lacrime agli occhi alle sue uova neglette. Poi con un balzò si lanciò sul pulpito e cantò con parole acute e trionfanti le bellezze e le gioie della vita, il cui tramonto non è lecito neanche pensare. Cantò i raggi di sole che sono dolci, caldi ed infuocati, come i baci dei nostri amori per i quali vale la pena di morire, e canto la felicità, perché solo per essa vale la pena di vivere.
Terminò il suo discorso fra gli applausi scroscianti.
Le api e le formiche si affollarono attorno a lui per stringergli la mano, e pochissimi furono quelli che porsero attenzione all’inizio del discorso della lucciola, che con lento incedere salì sul pergamo. Essa parlò della bontà, dell’amore reciproco, della tolleranza che, come una tenue torcia rischiara la nostra vite, parlò del perdono e della mansuetudine, che rende facile e leggera la vita.
Anch’essa ebbe alla fine un gran successo specialmente fra le api che gridavano con particolare tenaccia “evviva!” ad ogni oratore; ed anche il ragno applaudì, esso che stava accoccolato ai piedi della campanula tessendo la sua ragnatela con soave dimenticanza di sé.
Finalmente dopo tanti altri oratori prese posto nella calice della campanula, la mosca effimera.
Essa sapeva benissimo che la sua giornata volgeva al termine e gli insetti si radunarono strettamente attorno a lei per ascoltare le sue deboli parole, appena percettibili, lente, faticose, già morenti, sussurrate come in un anelito.
“Fra breve morrò” disse con un filo di voce “morrò ma la mia breve giornata è stata più bella della vostra lunga vita. La mia brevissima giornata è stata un sogno color porpora, un soffio luccicante e splendente rischiarato dalla luce dell’amore. Vissi ed amai!” disse e con queste parole cadde riversa nella ragnatela tesa dal ragno.
L’adunanza si sciolse.
Gli insetti si sparsero ronzando.
Le api giunsero davanti al castello del alveare chiacchierando amichevolmente con i fuchi. Qui i fuchi sentirono la fragranza del miele appena raccolto e si buttarono addosso al cibo comune, ma le api accorgendosene piombarono loro addosso con ira feroce, e dimenticando l’ammonimento della lucciola fecero una strage. Anche le formiche ritornarono accasa e si accorsero con sdegno che in loro assenza alcune formiche avevano rapinato alcune crisalidi. Tosto si organizzarono, riconquistarono le crisalidi, poi, benché avessero avuto cibo in abbondanza, incominciarono a riempire una nuova dispensa.
Anche il grillo si pose nel camino verso la casa. Quel giorno aveva avuto la fortuna di sentire tante belle cose: ma accasa di sicuro i piccoli grilli piangevano e la dispensa era vuota…Ma strada facendo il sole bruciava con si gran calore, gli uccelli cantavano si lietamente, che anch’esso si perse tra le erbe fiorenti e cominciò a cantare ad altissima voce oblioso di sé.
Gli altri insetti pure tutti indistintamente, traboccanti d’entusiasmo e pieni della più vera e sincera ammirazione per le parole degli oratori continuarono a fare ciò che avevano sempre fatto da migliaia e migliaia di anni.
Solo la mosca effimera che era stata succhiata dal ragno e poi buttata fuori dalla ragnatela, giaceva pallida, smorta e tranquilla nel musco verde.

UN PASSO PIU’ IN LA’
La foresta è cosparsa di piccoli azzurri fiori a forma di stelle. Ne fioriscono otto, dieci, a mazzetti; e dove i raggi del sole battono più ardenti sono più sgargianti, mente quelli che si trovano nell’ombra dei cespugli sono più cupi.
Solo da alcuni giorni sono spuntati dalla terra, ma si sentono pienamente a loro agio. Sono convinti che tutta la foresta, tutta la terra, anzi tutto il calore che splende, esista solo per essi.
Uno dei fiori, un po’ più grande dei suoi compagni, che fiorisce solo all’ombra di un cespuglio sospira beato:
“E’ bella, spendente e calda la vita! Un essere benefico ci creò!”
L’albero annoso, che ha visto già passare tante primavere, scrolla il capo:
“Sciocchezze! Crescete, fiorite, poi appassirete! O sarete colti” soggiunge con malizia.
Il fiore sta per rispondere stizzito, ma trassale con terrore; il silenzio della foresta è rotto da voci chiassose e da un riso squillante. Sono due bimbe, con cestini fra le mani che vengono cogliendo fiori.
“Quanti ce ne sono, quanti! Non ci si accorge neppure, per quanti ne cogliamo!” esclama una di esse dirigendosi verso il fiore.
Questo si irrigidisce per lo sgomento, vedendo come muoiono i suoi compagni uno dopo l’altro.
La bimba s’avvicina sempre più, sempre più, inesorabilmente , come il destino.
“No, no! Non m’uccidere! Non cosi presto, non cosi giovane! Voglio vivere ancora!” sussurra quasi senza voce
La piccina stende la mano e coglie …un altro fiore. Poi si siede.
“Sei buona! Sei benedetta! Hai ascoltato le mie mute implorazioni! Hai avuto pietà della mia giovinezza!” balbetta il fiore
“Perché non hai colto questo fiore, che è più bello degli altri?” chiede l’altra ragazzina, sedendosi accanto alla prima.
“Ne ho già abbastanza. E questo era un passo più in là” risponde la bimba spensieratamente.


A faragott agy
A szobor



L’ANITRA SELVATICA
I cacciatori si fermarono al limitare della giuncaia
“Questo è un buon posto” disse il più anziano
“Dove dobbiamo lasciare il ragazzo?” chiese un altro “Dove ha preso la piccola anitra selvatica?”…
Il primo guardò ridendo il più giovane della brigata.
“Va bene, anche se non tiri forse puoi prendere un’altra viva. Ma poi mi raccomando non lasciarla scappar via. Il cane lo lasciamo con te.”
Il ragazzo arrosi. Erano già passati tre messi; non sarebbe il caso che il babbo smettesse di sbeffeggiarlo per quella vecchia storia? Era appena entrato nel possesso del suo nuovo schioppo e benché gli avessero detto che in quella stagione non c’era ancora la passata delle anitre selvatiche, egli si era recato al lago per abbatterne una. Aveva portato col sé anche il cane perché le snidasse dal giuncheto nel caso che non volassero da sole. Lo aveva mandato subito tra le canne ed aveva aspettato con commozione che la selvaggina s’innalzasse., quando Fido apparve d’un tratto tenendo con orgoglio tra i denti una piccola anitra selvatica, viva e coperta da piccole piume! Come era spaventata poveretta quando egli l’aveva tolta dalla bocca del cane! Era cosi tenera e vezzosa che gli era costato uno sforzo il non portarla accasa, ma , strada facendo sarebbe morta sicuramente. Perciò si era accontentato di baciarla e l’aveva rimessa fra le canne.
Non senza sforzo ha riuscito a trattenere Fido finche non la rincorresse di nuovo.
A casa, da quel giorno tutti presero a canzonarlo, dicendo che il cacciatore non era lui ma Fido.
Oggi però dimostrerà loro con che preda farà ritorno.
°°
Nella giuncaia le anitre iniziano ad agitarsi. Qua e là, quando una quando un’altra lanciavano gridi di richiamo e le madri radunavano attorno a sé i piccoli che sapevano già volare.
“Badate solo a volare sempre ben alto!” le ammonì una vecchia e grassa anitra. “Vi avevo raccontato spesso ceh sulle sponde vivono esseri che si chiamano uomini ed hanno per unico scopo della loro vita di sterminare le anatre. Se qualcuno di voi volasse troppo in basso essi lo colpirebbero con una fiamma luccicante e serpeggiante e questo cadrebbe a terra tra uno schianto orribile. Allora sopraggiungerebbe di corsa il nemico atavico, con le sue zanne lampeggianti, che, serra tra le mascelle, donde soffia un’ alito incandescente, l’anitra selvatica spesse volte ancora viva e corre via con essa. Non c’è scampo; prima che arrivi bisogna raggiungere il giuncheto ed immergersi nel fondo dell’acqua, aggrapparsi col becco alle radici e restare lì… finché non si guarisce… o non si muore.
Un giovane anatra volgendo indietro il capo con malizia disse: “Lo sappiamo, lo sappiamo!” disse con aria sprezzante “Tutto questo lo sentiamo per l’ennesima volta. Però abbiamo già svolazzato varie volte sopra il lago, l’abbiamo attraversato in lungo e in lato, senza che ci sia capitato nessun guaio del genere.
La vecchia anitra scrollo la testa:
“Nessun guaio, nessun guaio! Però è sempre meglio volare in alto!”
La giovane anatrella si lisciò le ali e spiccò in volo nell’aria. Da parte sua la vecchia poteva blaterare quanto voleva, ma lei era l’unica che conosceva da vicino l’uomo, anzi il che è ben più arduo, ella conosceva da vicino anche il cane! Questa le era accaduto quando era ancora piccina coperta di tenere piume, quando un giorno smarritasi dalla sua madre era giunta fra le canne. Ad un tratto aveva sentito uno strepito terribile, aveva sentito su di sé un alito bruciante e guardando in su aveva scorto il lampeggio degli occhi del mostro orrendo; e qualcosa di caldo l’aveva presa e trascinata via di corsa. Essa credeva di morire prima che il mostro la divorasse, di morire dal terrore.
Ma ad un tratto si erano fermati. Aveva udito una voce, poi qualcuno che l’aveva resa teneramente e poi aveva sentito come se la mamma accarezzasse la sua schiena morbida di piccole piume.
Alzando gli occhi aveva intervisto una figura gigantesca, quale si dice sia quella dell’uomo. Di lì ad un momento si era trovata di nuovo fra le canne.
Per questo essa era l’unica fra le anitre selvatiche che sapeva che l’uomo non è il nemico che si dice.
La giovane anitra fendeva con gioia l’aria. Bella è la vita, cibo ce n’è in abbondanza., e se un giorno venisse a mancare in questo luogo se ne andrebbero via verso altri lidi. L’anno dopo poi al ritorno sarà anche lei una madre. Nuoterà con i suoi piccoli nell’acqua, cercherà per loro il nutrimento, e cosi sarà poi sempre per l’eternità, sempre cosi.
“La vita è bella” disse nuovamente beata
Eì giunta già alla sponda del lago e guarda in giù, Che c’è mai lì sotto? Una figura cupa.. Ma questa è l’uomo che l’aveva liberata una volta.
L’anitra selvatica vola subito verso il basso. Si, è lui, è proprio lui, l’uomo buono e misericordioso!
Essa volerà vicino a lui per poterlo rivedere.
Ma una schioppettata echeggia nell’aria e l’anitra selvatica sente come qualche cosa le da un forte urto. L’aria si muove sotto di lei ed essa cade, precipita giù fra le canne.
“Eppure! Eppure” pensa mentre li si offusca la coscienza, e con un ultimo sforzo si immerge sotto lo specchio dell’acqua e si aggrappa alle radici. Poi tutto diviene muto intorno a lei.
Fido torna senza preda dal giuncheto.
Il ragazzo riprende il cammino verso la casa umiliato. Il babbo gli batte una mano sulla spalla.
“Un’altra volta Fido ti porterà la tua preda certamente; non ti crucciare! Un colpo sciupato: non è accaduto nulla di grave!

LA VECCHIA PANCHINA
La panchina era vecchia e piena e tarlata. Sulla sua spalliera erano scolpiti tanti cuori, motti e segni alla rinfusa, cuori intrecciati e congiunti. Ce n’erano anche nomi, come anche altre parole. Spesse volte queste parole si alternavano e si ripetevano: “T’amo” “Per sempre”
Quella moltitudine di cuori e di nomi scolpiti formava l’anima della panchina. La panchina, come ogni altro oggetto senza vita era nata senza un’anima. Appuntò per ciò il suo aspetto appariva cosi insignificante e senza espressione come quando per la prima volta l’avevano messa là sotto la quercia secolare, saggia dalle ampie fronde. Ma col tempo tutto era cambiato. Ad ogni segno scolpito si era aggiunto un brano di ricordi, un sogno roseo e diverso, un sospiro, un’afflizione e una felicità, e da tutte queste piccole cose si era formata l’anima della panca, che aleggiava intorno ad essa ed era percepita da chiunque avesse accanto a sé un’anima gemella.
L’anima della panca era un po’ leggera, un po’ ingenua e un po’ estatica; ma meravigliosamente omogenea, benché scolpita da migliaia e migliaia di ricordi umani.
E tutto ciò doveva essere avvenuto cosi.
Ognuno dei diversi uomini passati aveva portato e lasciato sulla vecchia panchina un uguale stato d’animo, la stessa sensazione, da qualunque parte fosse venuto e dovunque fosse andato: sogni belli, variopinti, splendenti, volubili, molte volte della breve vita d’un attimo, qualche volta sogni fedeli che ritornavano sempre: sogni che tutti sognano almeno una volta nella vita, sogni che si chiamano : amore!
E poiché ognuno, quando incideva nel legno un piccolo lembo della propria anima, credeva che il suo amore fosse eterno e che non dovesse passare mai, anche l’anima della panchina, che si era imbevuta dei pensieri scolpiti nel suo corpo, credeva e professava questa illusione.
Perché la panca era la panca degli innamorati. Lo sapeva tutta la città. L’orizzonte era chiuso intorno ad essa da cespugli folti e rigogliosi, nelle cui ombre protettrici si rifugiavano le coppie di innamorati.
Sopra le loro teste sussurravano le foglie della vecchia quercia. Ripetevano sempre le stesse frasi in primavera, in estate e in autunno: tutto passa, tutto torna, tutto è eterno. Perché esse così avevano imparato dalla loro genitrice, dalla quercia secolare, che è tanto saggia quanto la terra stessa ed è eternamente giovane.
Anche la quercia aveva un’anima, ma questa era tutta sua, essendo nata con lei, cresciuta con lei facendosi sempre più forte.. Perciò la gente invano incideva parole e cuori sulla sua corteccia: questa non poteva cambiarla minimamente. Essa sapeva senza che glielo dicessero, che in autunno cadono le foglie, e in primavera ne spuntano altre nuove al posto loro. Questo è il principio e la fine di ogni saggezza. Perciò non si perdeva mai a discutere con la panchina. Solo molto raramente, quando la panca, seguendo con lo sguardo qualche giovane coppia che passava a braccetto esclamava beata “Il loro amore durerà per sempre!” la vecchia quercia scrollava la frondosa testa arruffata, cosi che tutte le sue foglie si mettevano a bisbigliare: “Tutto passa, tutto…” La panchina allora la guardava stizzita:
“Non insultare l’amore!” diceva
Ma la brezza prendeva a volo le sue parole e le portava fra i rami, e le foglie continuavano a sussurrare ironicamente:
“L’amore… l’amore è eterno… tutto è eterno… tutto”
***
E’ tornata la primavera. Piccole, chiare, tenere, verdi foglioline sbocciano dalle gemme e la vecchia panchina manda un sospiro di felicità al cielo. L’inverno durante il quale nessuno viene a trovarla è passato; è finita la lunga, fredda, nera notte che essa ha trascorso dormendo irrigidita. Ecco, incominciano a venire, tornando gli innamorati, che intrecciano i loro nomi e i loro cuori sul suo grembo, arricchendola ognuno di un lembo colorito della propria anima.
La panchina sussulta scricchiolando con giubilo: riconosce la coppia che si avvicina. Si, si, sono loro! Nello scorso estate venivano ogni giorno e si sedevano qui, e nella sua lunga vita non c’è stato nessuno che avesse portato con sé e lasciato tanta luce e tanto splendore quanto essi.
Camminano l’uno accanto all’altra, con lo stesso passo cadenzato ed uguale; eppure.. la panchina sbigottisce. Che mai? E’ come se la donna che cammina a lato dell’uomo non fosse accanto a lui. I suoi occhi guardano nella lontananza, avanti, molto, molto lontano…
Le labbra dell’uomo si muovono. Le parole si inseguono frettolosamente, zampillando, correndo, come se volessero inseguire e penetrare l’anima della donna, per riprenderla e riportarla a sé prima che ella gli sfugga per sempre.
“Guardami negli occhi” supplica l’uomo, e la donna remissivamente volge la faccia verso di lui. “Ricordi? Qui siamo stati cosi felici l’anno scorso! Ci torneremmo ancora spesso, dimmi, dimmi, dimmi che ritorneremo!”
La donna sta immobile accanto a lui.
“S… si … ritorneremo…” dice anche lei. Ma i suoi occhi guardano altrove, dinanzi a se nelle lontananze.
Alla panca giunge lo spasimo dell’uomo. No, no, è impossibile che passi cosi ciò che esisteva una volta!. L’anima della panchina scolpita dalla fede amorosa di migliaia di esseri umani., ora si scuote. Poi afferma con fede, con sicura fiducia:
“Non può passare! L’amerà di nuovo. L’amore è eterno!
La vecchia e saggia quercia però scrolla il suo frascame e sorride mentre le sue foglie sussurrano sommessamente:
“Tutto passa.. Amerà… amerà di nuovo… l’amore è eterno…”

LA TIGNOLA
La tarma non era affatto dallo stesso parere con la sua madre.
Considerava il mondo una dimora ideale, molto comoda e piacevole e trovava giusto e naturale che fosse cosi.
La vecchia tignola invece voleva quasi chieder scusa perché viveva, e serrandosi in un angolino con umile sommissione, tentava di riparare alla sua colpa e di sfuggire per quanto era possibile l’attenzione delle Potenze Superiori.
La giovane tarma scrollò sdegnata le ali: per lei la vecchia predicava inutilmente. Aveva già sentito a sufficienza il ritornello che le Potenze Superiori hanno distrutto il mondo per la cattiveria e per la colpa delle tarme; e che c’erano state un giorno grandi grida di dolori, scricchiolio di denti serrati in uno spasimo mortale, un chiarore terribile e un frastuono orrendo. Dopo di questo era venuta una nuvola seminatrice di morte che, calando su di esse aveva provocato la morte di migliaia e migliaia di tignole.
“Probabilmente è stato proprio cosi, ma anche se fosse stato, questo è avvenuto tanto tempo fa ed ora le cose sono cambiate. Se le Potenze Superiori fossero adirate contro di esse, i sacerdoti che esistono in abbondanza tra le tarme dovrebbero innalzare preci al cielo” Tutto ciò non impedisce che essa si rechi ora volando fuori dell’armadio per andare a vedere un po’ il mondo com’è fatto. La vecchia, naturalmente, se ne sta nascosta nelle maniche di una vecchia giacca e non ha coraggio di attaccare una nuova veste. Vive morsicchiando lo stesso indumento che ha già nutrito la sua mamma, la sua nonna e la sua bisnonna! Naturalmente perché le Potenze Superiori non si irritino.
“E’ ridicolo! Iddio ha creato il mondo e naturalmente anche i vestiti solo per loro. Se le distruggesse che ragione potrebbe avere di esistere Lui stesso?”
La giovane tarma naturalmente si guarda bene a toccare le vecchie vesti stracce. Nell’armadio c’è un cesto piatto, foderato di una bella flanellina bianca e su questa essa fa baldoria da settimane e settimane.
La tarma getta ancora uno sguardo soddisfatto verso la sua dispensa, poi vola nella stanza.
La giovane donna, seduta davanti alla finestra, alza lo sguardo:
“Balia, guardate, una tarma! Guardate nell’armadio; avranno fatto nido in uno dei cestini? Ad ogni evenienza dovrete batterli bene: ora da un giorno all’altro possiamo averne bisogno. Inoltre si potrebbe mettere la canfora anche tra gli altri indumenti.
La vecchia tarma non aveva torto. L’Ultimo Giudizio non si fece aspettare. Sul mondo inondato da una luce accecante non rimase pietra su pietra. Tutto l’ordine fu rovesciato, un fracasso e uno schianto terribile dappertutto, poi silenzio e una nuvola asfissiante, gravida di morte che penetrò in ogni angolo succhiano l’anima di migliaia e migliaia di tarme.
La giovane tignola se ne stava rannicchiata in un angolo, abbattuta, annientata. Sopravvisse, ma valeva la pena di vivere ancora fino alla fine questa vita ora che l’intero mondo le era crollato intorno?
Continuava a mormorare con le labbra tremanti:
“Perché è accaduto tutto questo? Perché?... Era stata una combinazione? Un accidente? Il delitto non poteva essere stato cosi grande da cagionare la distruzione di un mondo intero!”
In questo non aveva torto. La vera causa era lì, nel cesto da viaggio foderato con bellissima flanella bianca e guardava innanzi a sé, inconsciamente. Non sapeva che il suo nascere aveva costato la vita a tante e tante tarme. Ma se anche l’avesse saputo…infine la vita della tarme è veramente importante solo agli occhi delle tarme

Az igazak es az asszony



I DEI
Quando sulla terra tutto era ancora giovane e i campi erano fertili e gli uomini vivevano facilmente e felicemente, il cielo era abitato da Dei sereni e benevoli. Gli uomini recavano loro offerte di fiori. Gli Dei guardavano con un sorriso giù sulla terra profumata ed esclamavano con compiacenza:
“Bello e felice è il mondo che avevamo creato. E resterà sempre cosi in quanto noi siamo immortali”
Ma il Destino che mai sorride e mai piange li ammoni aspramente:
“Anche gli Dei, ceh vivono dalla fede degli uomini, moriranno nel giorno in cui nascerà Qualcuno che sarà più grande di loro!”
***
Passò da allora molto tempo e ormai gli uomini vivevano a stento e difficilmente sulla terra invecchiata. Le pestilenze e le carestie imperversavano dovunque sul mondo. Gli uomini erigevano templi e inondavano di fiori le are degli Dei; ma invano.
Allora un uomo scosse il pugno e disse:
“Siete tristi e spietati! Siete assetati di sangue non di fiori”
Tutti quelli che si trovavano attorno a lui stettero muti, serrarono i denti e da quel giorno non offrirono agli Dei che olocausti sanguinosi.
Ed essi pure mutarono, gli eternamente sereni… Il sorriso di deformò sulle loro labbra, mutandosi in un ghigno beffardo; piacere e gioia furono per esse da allora, il sangue e la morte. Divennero spietati e crudeli, tristi e inesorabili.
Quanto più passava il tempo quanto più a stento sopportavano gli uomini il peso delle mani insanguinate degli Dei. Avvenne allora che in una notte gelida di dicembre uno degli uomini crollato sulla terra, alzò le mani congiunte verso il cielo, implorando:
“Quando verrai tu, che sei mite e buono, tu, che redimerai dei nostri Dei crudeli e vendicativi?”
In alto gli Dei trasalirono tremando: era nato Qualcuno che era più forte di loro!

Trad. Ignazio Balla e aggiornato di Abraxas





venerdì 6 marzo 2015

BETHLEN:STORIE DELLA CITTA' TRISTE


Storie della citta triste - Contessa M. Bethlen (1925)
Trad Ignazio Balla (1929) rivista da @abraxas (2015)

LA FAVOLA DELLA CITTA' TRISTE

Lontano, lontano nel nord, si erge una triste città. Il suo cielo è appesantito da nubi plumbee e grigie. Le sue strade sono cupe e desolate: la vita vi scorre come in un perenne nebbioso meriggio autunnale. Gli uomini che l'abitano camminano esitanti, come se ognuno cercasse qualche cosa e, quando s'incontrano, si guardano di sfuggita, girano la testa altrove e s'allontanano.
Nella città triste vivono coloro che, un giorno lontano, furono molto amati da qualcuno, ma, poiché raramente la gente dà il giusto valore a ciò che possiede già, essi cacciarono via questo grande amore, lasciando chi tanto li amava, senza rendersi conto che, cosi facendo, si derubavano da soli. Vissero ancora, cercarono nuovi amori, ma, un giorno , risvegliandosi, si ritrovarono soli nella città triste: da quel momento iniziarono a camminare senza metà e a cercare, senza fine...
A volte si incontrano e per un tratto di strada si accompagnano, ma alzando lo sguardo, si accorgono di non conoscersi.
Solamente una cosa potrebbe salvare gli abitanti della città dannata: chi un tempo li amò dovrebbe tornare, venire loro incontro e prendendoli per mano sussurrare ad ognuno di essi: "Ti amo ancora!"
Allora le nubi plumbee diventerebbero rosee, le strade tornerebbero a splendere sfolgoranti e la felicità tornerebbe nella città triste.
Ma finché questo non avverrà, nella cupa città gli abitanti continueranno a camminare esitanti e a cercarsi, ma quando si incontreranno, gireranno la testa altrove e si allontaneranno....







LE PERLE DELLA PRINCIPESSA


Attorno alla culla della principessa c’erano tre fate.
La prima disse:
«Che tu sia chiamata dalla gente di tutto il paese ‘la principessa felice!’»
La seconda disse:
«Che nessuno ti veda mai piangere!»
Infine la terza:
«Che ogni lacrima che tu in segreto piangerai diventi una perla vera! »

La principessa crebbe, divenne bella e buona; cantava per l'intera giornata, rideva e nessuno la vide piangere mai. Il popolo del paese la chiamò: la principessa felice.

Durante i tornei cavallereschi, la principessa stava seduta presso il padre.
Portava fra i capelli una rosa bianca e sul petto una rosa rossa; davanti a lei c'era una coppa d'argento da consegnare al vincitore. Nell'arena scendevano in ordine i cavalieri e si cimentavano nella giostra. Ma uno ve n'era che emergeva su tutti, un prode dalla maglia nera che abbatteva trionfalmente ogni rivale. Terminata la giostra, venne dichiarato vincitore e il cavaliere si presentò alla principessa per ricevere il trofeo.

Lei guardò a lungo il giovane che le si inginocchiò davanti; poi, invece di consegnare la coppa d'argento, prese dal suo petto la rosa di colore rosso fiammeggiante e gliela porse.
Da quel giorno la principessa non rise più e mai più cantò. Sorrideva soltanto. Sorrideva alla mattina e sorrideva alla sera e sorrideva anche durante i suoi sogni.

Un giorno il re chiamò la principessa:
« Figlia mia, la figlia del nostro vicino andrà a nozze e noi siamo invitati allo sposalizio. Devi cercare nella tua camera dei tesori un regalo degno di lei. Tu conosci lo sposo: lo hai decorato quale vincitore della giostra.»
«Sarà fatto, padre mio!»
Il giorno dopo, prima di mettersi in viaggio, mostrò una lunga fila di perle vere:
«Ecco, padre mio, il tesoro più caro, il regalo degno per la coppia di sposi.»

Quando consegnò le perle alla sposina, questa gridò con entusiasmo:
«Tu mi regali queste perle? Come sei buona!»
La principessa sorrise:
«Prendile! Ce ne sono ancora molte nel luogo da cui provengono. »
Celebrate le nozze, la principessa fece ritorno con il padre. E visse ancora, e ancora sorrise e nessuno la vide piangere mai.
Il popolo continuò a chiamarla: la principessa felice.
Ma nella sua camera, a grandi mucchi, si ammassavano file di perle...





LA POVERA DONNA IN CIELO

Nei tempi remoti, tanto remoti che nel cielo non esistevano neppure le stelle, visse una povera donna che non aveva nessuno al mondo tranne il suo figlioletto. La povera donna non si intendeva di null'altro se non di cucire. Il suo bimbo aveva sempre fame perciò essa cuciva, cuciva dall'alba fino alla sera e qualche volte anche durante la notte, per guadagnare abbastanza da sfamare entrambi. Il figliolo di rado soffriva la fame, ma la mamma diventava di giorno in giorno sempre più debole e più pallida. Una mattina non poté alzarsi dal letto.

I vicini chiamarono il medico. Questo venne, la guardò, la toccò, poi le ordinò di mangiare sempre cibi ben nutrienti, le raccomandò di non stancarsi, dicendo che in tal modo si sarebbe ristabilita in breve tempo.

La povera donna ringraziò il medico. Diede l'ultimo pezzo di pane al suo figliolo e alla sera in silenzio spirò.

Essendo però una donna molto, molto buona, che aveva sempre adempiuto ai suoi doveri e non aveva mai fatto male a nessuno, volò direttamente in cielo.

Là le tolsero le vecchie vesti che indossava quando era stata sepolta e con esse le tolsero ogni preoccupazione, ogni dolore che portava con sé dalla terra.

La coprirono con un lungo, svolazzante vestito angelico, ed essa si confuse tra il coro degli angeli.
La povera donna era ormai un angelo splendente, lassù nel cielo, e chiudeva gli occhi abbagliati dal tanto fulgore, e si premeva le mani sul cuore perché non scoppiasse per la troppa felicità. Cantava pure lei con gli altri angeli le lodi di Iddio Creatore.
Ma ad un tratto una voce colpì il suo orecchio, una voce che si poté distinguere chiaramente nel coro degli angeli. La voce implorava:
-Mammina, ho fame!
Giù sulla terra era mattina e il figliuolo della povera donna si era svegliato.
Alla donna venne in mente che essa avrebbe dovuto ancora cucire, cucire per guadagnare il pane per la sua creatura che aveva fame. Cerco il suo ago e il filo di refe. Ma questi erano rimasti nel suo vecchio vestito che gli angeli le avevano tolto
Allora si incamminò per cercare le sue vecchie cose. Percorse tutto il cielo e alla fine arrivò in quella sala grande grande, dove i morti depongono tutto quanto hanno portato con sé dalla terra: i vestiti, i ricordi, i dolori e le preoccupazioni. Qui, in un angolo la donna ritrovò le sue cose.

Prese l'ago e cercò qualche cosa per poter cucire.
Guardando in giù intravide sotto di sé un'immensa , lunga, larga e splendente seta azzurra.
La povera donna incominciò a cucire dall'alba fino alla sera ed anche durante la notte cucì ininterrottamente...

Quando l'indomani gli uomini, al calar delle tenebre, guardarono verso il cielo, videro con stupore che questo era cosparso di puntini lucenti e li chiamarono ‘stelle’. Invece non erano altro che i puntini dell'ago della povera donna, attraverso i quali brillava lo splendore del paradiso.




IL POETA MUTO

Visse una volta un sordo-muto.
Quando da ragazzo vedeva nel giardino i raggi del sole, stendeva le braccia come per attirarli e stringerli a sé e baciava i fiori del prato perché erano belli e profumati. Correva ore ed ore per raggiungere l'arcobaleno. Quando invece infuriava l'uragano e le nubi si accavalcavano in cielo, egli andava in mezzo alla strada e gettando indietro il capo lanciava grida inarticolate, supplicando le nuvole di non abbandonarlo e di portarlo via con loro!
I suoi compaesani lo deridevano e lo chiamavano il pazzo!
Egli non poteva giocare con gli altri ragazzi, perché lo prendevano in giro e lo schernivano. Gli unici amici suoi erano gli alberi, i fiori e i raggi del sole. Con essi parlava il suo linguaggio fatto di voci strane e incomprensibili e non di parole, perché egli non sapeva parlare. Lui non aveva altro che sentimenti. Passavano così nel suo animo sentimenti delicati, fragranti, colorati e pieni di tenerezza. Quando la brezza accarezzava i fiori e questi piegavano le piccole teste variopinte, egli sapeva che loro lo capivano.

I giorni trascorrevano così , l'uno dopo l'altro e il ragazzo divenne un giovane uomo. Una sera mentre sedeva sulla riva lungo del lago, scorse una fanciulla.
Ella alzò gli occhi e sorrise. «Il pazzo» disse
Ma questi non sentiva le parole e vedeva solo il sorriso. E inginocchiandosi davanti a lei, come vedeva che facevano gli uomini in Chiesa dinanzi alle immagini dell'altare, le baciò l'orlo della veste. La ragazza sorrise di nuovo e accarezzò i capelli del giovane.
«Povero pazzo!»
Egli rimase lì, inginocchiato, col cuore traboccante di sentimenti nuovi, dolci e ardenti che irrompevano come fasci di fiamme dalla sua anima ardente. Avrebbe potuto gridare, cantare, raccontare al mondo intero la sua felicità, ma dalle sue labbra non uscivano che parole incomprensibili e i canti che scaturivano dal suo cuore come vampe brucianti, si gelavano sulle labbra appena sbocciati. Per la prima volta in vita sua il giovane rimpianse di non poter parlare.
Andò per i campi e colse i fiori più belli, più variopinti, dal profumo più inebriante, come quel sentimento nuovo, strano, ma dolcissimo del suo cuore, e li portò sulla riva del lago, dove si trovava la ragazza. Anche il giorno successivo e quello dopo ancora le portò mazzolini di fiori: ogni fiore era una canzone che lui cantava per lei dal fondo del suo cuore.
Quando vedeva le nuvole rosee galoppare per il cielo, egli pensava a lei. Quando la brezza accarezzava la sua fronte, egli sentiva come il tocco lieve delle sue mani: il suo amore era traboccante di canzoni splendenti, fiammeggiati, che bruciavano e facevano divampare tutta la sua anima.
Ma un giorno, camminando per la via grande del villaggio, il giovane vide un corteo nuziale che veniva dalla Chiesa. La sposa era davanti a tutti.
Il giovane uomo riconobbe in lei la fanciulla del lago.
Lui rimase per lungo tempo immobile e sentì che un grande e strano buio si addensava sulla sua anima, come un gigantesco uccello dalle nere ali che copriva improvvisamente tutto quanto era stato una volta dolce e bello, e uccideva le sue canzoni ardenti e splendenti, non lasciando al loro posto che un greve silenzio grigio e opaco. Il giovane uomo se ne andò lontano, vagando per giorni e giorni... Quando la tempesta si scatenava ed urlava intorno a lui, egli stendeva ancora le braccia, come quando era ragazzo, scongiurando la bufera col suo linguaggio incomprensibile: «Non lasciarmi, portami via con te!»
Ma un giorno, col cuore gonfio di gioia, sentì che la sua anima tornava nuovamente a cantare: erano canti nuovi, fieri, cupi d'ira, canti dolorosi come fitte acute, pieni di tormento, ma erano pur sempre canzoni.
Poi lentamente la tempesta della sua anima si placò. Le canzoni che risuonavano in lui diventarono fosche, tetre, ma il loro suono era dolce, lieve. Il sordomuto, fattosi ormai uomo adulto, riprese di nuovo a girare per i prati e tornò a cogliere i fiori. Ma erano ora fiori dai colori pallidi e dal lievissimo profumo.
Cosi visse ancora per molti anni, finché un giorno i suoi compaesani dissero di lui:
«E' morto il pazzo!»
Lo seppellirono. Non vi fu nessuno a prendersi cura della sua tomba, ma in primavera interi fasci di fiori di un rosso fiammeggiante sbocciarono sul suo tumulo, ricoprendo tutto come un divino mantello sanguinante e fiorito. Come? Da dove erano germogliati?
Forse dal cuore del poeta?
Erano forse i canti che non aveva mai potuto cantare durante la sua vita ...





IL CASTELLO DI CARTE


La mamma e Gino sono seduti a tavola. La mamma indossa una veste verde cupo, con le maniche che giungono fino al gomito terminando con bianchi pizzi. Tiene la testa appoggiata al palmo della mani e guarda innanzi a sé, senza parlare. Gino, un ragazzetto con un vestitino blu, sta costruendo un castello con le carte da gioco. La mamma ieri gli ha raccontato una bellissima fiaba su un cavaliere predone e gli ha fatto vedere anche il castello dove il cavaliere abitava, e Gino ora costruisce un maniero come quello, con le carte da gioco. Nell' immagine il castello stava ai piedi di un monte che per metà sporgeva sul mare. Fingeva che quel mucchio di libri fosse il monte, ma il mare? Boh! Ecco: i merletti delle maniche della mamma! Si può costruire tranquillamente il castello: quando la mamma siede così pensosa, molte volte non si muove per ore intere. Gino nel frattempo può erigere la sua rocca, anzi farà anche in tempo a demolirla.

La mamma guarda innanzi a sé, con lo sguardo fisso, come sperduto, e non vede né la piccola stanza, né il castello di carte da gioco, né Gino stesso. Lei vede un'altra cosa.

Vede in porto un gran bastimento pronto a salpare e sul parapetto della nave è appoggiato un uomo che la aspetta. E’ ancora in tempo: se ella partisse subito, in pochi minuti potrebbe arrivare, e tra un'ora entrambi sarebbero sul mare, soli e felici, e nessuno potrebbe più dividerli, nessuno, mai.

Ma essa non parte; la nave salperà senza di lei e le porterà via colui che ella ama, e non lo rivedrà mai più, né oggi, né domani, mai più. La mamma trasale, sussulta. Una vocina implorante giunge al suo orecchio:

«Cara e buona mammina non ti muovere ancora per un pò, perché altrimenti farai crollare il mio castello!»

E la donna, sollevando lo sguardo, lo immerge negli occhi imploranti, ansiosi e supplichevoli del piccolo Gino. Essa reclina di nuovo la testa tra le palme delle mani e continua a guardare davanti a sé. Rivede di nuovo il battello e l'uomo appoggiato al parapetto che la attende ancora e spera, anzi è convinto, che essa verrà.

Il tempo passa, passa, ed essa sente il segnale della partenza e vede la nave che si muove e va via, si allontana, non si vede più...

Si apre la porta ed una voce chiama:
«Ginetto, vieni a dormire»
Il ragazzo si alza di scatto:
«Vengo subito, ma prima voglio far crollare il mio castello.»
La mamma alza la testa:
-Lascialo Gino, crollerà da sé.



LA PRINCIPESSA BIANCA

Sulle cime dei monti stavano tre principesse. La prima era rossa: i suoi capelli erano come le fiamme, le sue labbra ardevano e persino il suo mantello era rosso. La amavano gli gnomi terrestri e i diavoli focosi dell'inferno ed essa danzava la notte con loro nella pianura.

L'altra era azzurra: i suoi occhi rispecchiavano il colore del cielo, la sua capigliatura ed il suo manto svolazzavano con un bagliore bluastro quando galoppava fra le rupi col suo amante, il vento.

La terza principessa era bianca: il suo volto era candido, argentei erano i capelli, nivea la veste. Nessuno l'amava. Ed essa sedeva sulla cima del monte e guardava innanzi a sè , immobile.

In un villaggio nella valle abitava un pastorello. Quando col trascorrere del tempo il ragazzetto divenne uomo, levò in altro il suo sguardo. Scorse la principessa bianca e partì per portarla giù con sé .
Ma i vecchi del paese lo fermarono: «Dove vuoi andare? Non sai che quelle sono principesse maledette? Che la morte le segue? L'incanto svanisce soltanto se l'uomo passa accanto ad esse e non si volge neppure a guardale , così da non provare alcuna brama del loro amore.»

Il pastore scrollò la testa: «Io ci proverò!»
Da lontano, dietro di sé, gli giungevano ancora le voci dei vecchi:
-Non credere alla rossa, non seguire l'azzurra, non desiderare l'amore della bianca!

Ripido era il sentiero, ma lui non sentiva alcuna fatica: non si soffermò ad ascoltare le parole della principessa rossa, non volse neppure il capo quando la principessa azzurra lo sfiorò, ma proseguì.
Albeggiava quando raggiunse la vetta e davanti a lui, sulla cima, si trovava la principessa bianca. I raggi del sole nascente l'avvolgevano tutta ed il pastore vide o forse avrebbe voluto vedere o credette di vedere che la faccia, il corpo e la veste della principessa si erano colorati di rosa.
Allora egli si prostrò: -Non sei più bianca! Dunque il prodigio è avvenuto! Io posso amarti!
E baciò le labbra fredde che egli bramava...

Nel paese aspettarono invano il pastore.

La principessa bianca siede sulla cima del monte e guarda, immobile, innanzi a sé.


CONFESSIONE
(Vista dal castello Bethlen)



Il giovane signore del castello fu portato a casa moribondo. Lo deposero sul suo letto, poi lo lasciarono solo col confessore, perché dedicasse il poco tempo che ancora gli restava da vivere alla salvezza dell'anima sua.

Il moribondo giaceva fra i cuscini col respiro affannoso e gli occhi chiusi, ma ad un tratto sollevò le palpebre.

Il prete era vicino a lui: -Figlio mio, un grave peccato pesa sulla tua coscienza. Ritorna in te e confessamelo affinché io ti possa assolvere e salvare dall'eterna dannazione.

Il cavaliere alzò un po’ la testa e si mise a parlare a bassa voce:
-Era il giorno del Corpus Domini. Io ero vicino alla chiesa circondato dalla gente del mio villaggio ed aspettavo la sacra reliquia miracolosa che le suore portavano in processione.
Il corteo aveva già oltrepassato il luogo dove mi trovavo, quando un colpo di vento repentinamente sollevò il velo di una sorella. Non la vidi che per un istante, poi proseguì ed io ritornai al castello. Non la vidi solo per quell' istante: da allora in poi mi stette sempre, sempre davanti agli occhi! Padre mio, dalla più alta torre del mio castello si scorge il giardino del monastero. Oh, non trasalire! Da lassù le monache non appaiono che come un piccolo punto bianco che si muove ed io sono corso cento e mille volte sulla torre per vedere solo quel piccolo punto bianco che si perdeva in lontananza. e lentamente nella mia anima s'ingigantiva l'idea che quella ragazza doveva essere mia. In principio il peccato mi ripugnò, ma poi non mi detti più pensiero per quella colpa ed alla fine pensai solo a come riuscire a compierla. Venni a sapere che dopo pochi giorni la ragazza sarebbe stata trasferita al convento di Sant'Agata. La maggior parte dei miei guerrieri era assente, li feci allora raggiungere da un messaggero per invitarli a tornare, ma i preti mi precedettero. Attendevo per la sera il ritorno dei miei guerrieri ma quella mattina, all'alba, vidi che la porta del chiostro si apriva e una bianca creatura ne varcava la soglia. Un gruppo di cavalieri la circondava, la mise in sella e partì. Padre mio, ho visto che me la portavano via. Ed io, slanciandomi sul mio cavallo, galoppai dietro di essa. Pochi dei miei guerrieri mi seguivano. Raggiunsi il manipolo di soldati e uccidendo il cavaliere che s'interponeva fra me e lei, la rapii e la feci salire sulla mia sella. In quel momento sentii un gran colpo alla testa. Non so che accadde poi.

Il prete congiunse le mani per pregare: «Dimmi, figlio mio, il tuo pentimento è sincero?»
La voce del cavaliere divenne più forte: «Padre mio mi sono pentito di ciò che ho fatto.»
Il prete fece un cenno col capo «Continua figlio mio!»
«Mi sono pentito di essermi lasciato trascinare dall'ardore giovanile, di aver assalito la schiera del nemico, scortato da pochi uomini, non aspettando il ritorno dei miei guerrieri per lanciarmi con loro all'inseguimento dei rapitori del mio amore.»
Il prete interruppe sbigottito: «Ma figlio mio, tu vaneggi!»
Il cavaliere però proseguì:
«Mi sono pentito di aver esitato, di essere indietreggiato di fronte al peccato e di non aver rischiato prima cento e mille volte la salvezza della mia anima. Chiunque tu sia, mandato da Dio, dagli uomini o da Satana, ridammi, sia pure per breve tempo, la mia forza, la mia validità ed io ti giuro col più solenne dei giuramenti, che tenterò di nuovo e che questa volta riuscirò!»
Il cavaliere, ricadendo sui cuscini, spirò.



LA DONNA

Era sposata da tre giorni quando suo marito fu mandato in guerra. Essa pianse credendo di morire per il dolore: lo amava tanto, era così fiera di lui, del suo uomo, cosi bello, vigoroso e pieno di ingegno.
Tutte le ragazze del villaggio l'avevano invidiata quando lui la aveva scelta "Avrà una bella vita, non dovrà lavorare troppo, perché quest'uomo guadagna e non lascerà che la sua donna lo mantenga".
Incominciarono ad arrivare le cartoline dal fronte: a volte molto frequenti, a volte meno frequenti, ma ognuna conteneva le stesse frasi: ‘lottiamo, ti penso, come stai?’
La donna ad ogni missiva piangeva di gioia e di dolore ma non sapeva neppure lei perché e continuava ad attenderlo. Il tempo così passò. Poi rimase per lungo tempo senza avere notizie.
Nel frattempo la famiglia crebbe: era nato un figlio, un maschietto. La donna avrebbe desiderato farlo vedere al marito: era così bello, così forte questo suo bambino! Tutti dicevano che sarebbe diventato come il padre. Quando finalmente tornerà, prima di dire una sola parola lo prenderà in braccio. Questo sarà il primo regalo che essa gli serba per il ritorno.
Ma un giorno giunse una lettera dall'ospedale della città.
Suo marito scriveva che era ferito e chiedeva che andasse a trovarlo.
Ma la calligrafia non era sua. Forse era rimasto ferito alle mani e faceva scrivere un altro al posto suo?
La donna prese il bambino con sé e partì.
Arrivò dopo tre giorni. Dovette aspettare a lungo prima che la lasciassero entrare. Salì scale e percorse corridoi, finché una porta si aprì: di fronte ad essa, in un letto, giaceva suo marito. Per la prima volta rivide il volto di lui: pallido e dimagrito, ma era il suo volto noto e caro.
La donna si accostò al letto e gli porse il piccino.
L'uomo si mosse, stese le braccia: non erano più che due moncherini fasciati...
La donna si accasciò presso il letto. Tutto ciò era impossibile, assolutamente impossibile: il suo uomo, bello, forte, vigoroso, lui!
Ora sarà incapace di lavorare, non potrà far nulla da solo, come un bimbo, nulla di più.
Questa parola entrò nel cuore della donna: sì, il suo bambino, che ella amava tanto perché era così piccolo e non poteva far nulla da sé.
La donna si alzò, serrò in un solo abbraccio il suo uomo e il suo bambino, i suoi due bambini... Non piangeva più.
«Posso lavorare io!» sussurrò, piano.




IL PENSIERO


Le mani giunte dietro a sé, il capo chino, lo studioso camminava lentamente davanti alla finestra aperta. Vicino a lui volava invisibile, il pensiero: era giovane e ardito e cercava una mente umana con cui, iniziando il suo cammino, potesse conquistare il mondo. Il pensiero batté alla porta dello studioso.
Questo però guardava in alto, respirando il profumo della primavera che penetrava dalla finestra: scrollò il capo e disse:
-Primavera, giovinezza...Sciocchezze!
Rimettendosi alla scrivania, continuò a sfogliare i suoi vecchi scritti insignificanti.

Il pensiero proseguì il suo volo. Strada facendo incontrò un altro uomo e batté anche alla sua porta. Questi lo avrebbe lasciato entrare, ma la sua testa era piena di preoccupazioni, di cifre e non aveva posto per altro.

Il pensiero continuò il suo volo. Trovò una donna: era bella, sorridente e non aveva preoccupazioni. Ma quando il pensiero volle posarsi su di essa, si perse nel vuoto che dominava, signore assoluto della sua testolina.

Il pensiero continuò allora il suo volo. Incontrò centinaia anzi migliaia di esseri umano e ci provò con ognuno ma era tutto inutile.
Finalmente trovò un uomo, fra tanti e tanti, che era giovane e poeta, e lo accolse. Il pensiero crebbe, divenne sempre più bello, più grande e più ardito, finché riempì interamente l'anima del giovane. Lui lo gridò all'universo. Il pensiero dominò il mondo.

Gli uomini si fermarono, guardandosi stupiti, e si domandarono:
- Da dove ha preso costui questo pensiero?
Scrollando le teste, proseguirono per la loro via.
Sopra di essi il pensiero volava ad ali spiegate.




FAVOLA DI UNA RAGAZZA CHE NON VOLEVA PIANGERE

Visse una volta una ragazza che non voleva piangere. Aveva circondato il suo cuore con una spessa corazza di ghiaccio per non sentire e non avere mai dolori. La ragazza percorse il cammino della vita e quando gli altri piangevano lei rideva. Sorrideva se la amavano, rideva se la odiavano. Si sganasciava poi dalle risa quando volevano uccidersi per lei. Ma un giorno anche la ragazza giunse alla soglia della morte.
L'angelo che custodiva la porta le venne incontro:
-Dove sono le lacrime che hai pianto in vita?
La ragazza lo guardò contrariata:
-Io non ho lacrime!
L'angelo alzò la mano e le sbarrò la strada:
-Devi tornare alla vita da cui sei venuta, perché qui è vietato entrare per chi non ha versato tutte le sue lacrime.
La ragazza ritornò ed un giorno il destino, passandole accanto, le toccò il cuore sciogliendone l'involucro di ghiaccio. Il suo cuore allora sentì, provò dolori, si contorse e avrebbe voluto urlare e singhiozzare forte quando gli uomini spensierati e ridenti lo calpestavano. Ma la ragazza non volle piangere e le sue lacrime caddero così nel cuore che bruciava. Solo qualche volta durante il sonno uscivano dalle sue palpebre, sì che svegliandosi ne aveva tutto il volto intriso.
Quando il suo cuore fu traboccante di lacrime, la ragazza tornò alla soglia della morte:
«Dove sono le tue lacrime?" chiese l'angelo.
Ma la ragazza non rispose. Accennò soltanto al suo cuore, mentre l'ultima lacrima le scendeva ancora giù, dentro il cuore che bruciava.
Questa lacrima era così cocente e così pesante che il cuore non ne sopportò il peso, e si infranse e le lacrime che erano dentro scorsero ai piedi dell'angelo.
Egli prese in braccio la ragazza ed aprì innanzi a lei la porta della morte.








L'ANIMA DELLA ROSA

Il giovane e la ragazza si trovavano nel giardino fiorito delle rose.
Stavano uno di fronte all'altro con le mani nelle mani. Il giovane disse:
«Ti voglio bene! Dimmi che mi vuoi bene anche tu!»
La ragazza rispose con un filo di voce:
«Ti amo!»
Le parole svanirono ma l'anima della rosa le aveva raccolte e assorbite profondamente nel proprio calice.
Il giovane partì per la guerra, combatté e cadde.
La ragazza lo pianse finché giunse l'autunno: piangeva durante tutta la giornata sotto le foglie che cadevano e piangeva di notte mentre fuori urlava impetuoso il vento. Poi arrivò l'inverno e una bianca coltre di neve coprì l'intero creato. Il bianco velo si stese anche sul cuore della ragazza e la ammutolì pian piano, lentamente fin quando si addormentò. Ma quando i bucaneve sbocciarono con le loro candide testoline dalla neve, anche il cuore della ragazza si risvegliò. La fanciulla si guardò intorno cercando colui che amava tanto, ma quando si accorse che cercava in vano donò il suo cuore ad un altro uomo che le stava vicino.
Quando l'estate portò con sé le prime rose, la ragazza divenne donna: era ora di un' altro uomo. Una sera era con lui vicino al giardino fiorito delle rose. La donna si chinò per sentire il profumo dei fiori: l'anima della rosa dischiuse il suo calice da cui volarono in alto le parole che erano state pronunciate un giorno lontano. La donna stava lì, piegata sulla rosa, aspirando il profumo dei ricordi passati e sul suo viso scese lentamente una lacrima.
L'uomo la guardò:
«Perché piangi?»
«Non so» rispose la donna a voce bassa.








IL CUORE DELLA FATA


Lei era una fata bella e giovane. Quando intraprese la strada che tutte le fate devono percorrere nella loro vita, suo padre, il re delle fate, le disse:
- Vai tra gli uomini. Tu non li conosci, dà retta a me: essi ti chiederanno delle cose e tu le dovrai dare. Sei una fata e perciò devi dare. Ma non dare tutto ciò che hai: alterna le cose buone alle cattive. La tua strada è lunga e non puoi fare ritorno fra di noi finché il tuo tempo non sarà trascorso.
La fata partì. Il primo uomo che incontrò era un giovanotto: sorrise e tese le sue mani verso di lei. La fata dimenticò il consiglio paterno e premendosi repentinamente la mano sul cuore sussurrò:
"Non tutto"
Ma l'uomo la guardò e le disse dolcemente: "Ti amo!"
La fata gli diede tutto il suo cuore
«Mio padre non se ne intende. Lui non conosce gli uomini. Io ricevo in cambio del mio cuore il suo cuore, che ora appartiene tutto a me poiché ha detto che mi ama.»
Ma quando l'uomo ebbe stretto tra le mani sue l'intero cuore della fata, partì per conquistare un altro cuore.
La fata rimase sola e continuò il suo viaggio sfinita, con la luce infranta negli occhi. Ma il suo volto era bello e il suo corpo giovane e gli uomini nei quali si imbatteva stendevano supplici, implorando, le braccia verso di lei. La fata era costretta a dare, e così dava a loro ciò che era rimasto nel vuoto del suo cuore: amarezza, dolore e malinconia.
La fata continuò il viaggio che doveva percorrere e nessuno vide mai una lacrima nei suoi occhi, né un sorriso sulle sue labbra. Gli uomini, ai quali andava avvelenando la vita, si inginocchiavano davanti a lei scongiurandola:
«Ma non hai cuore tu?»
Lei alzava la testa, li guardava:
«L'avevo.»




IL TENENTE


Il convoglio avanza lentamente in una notte con la luna chiara. E' un treno di soldati: ogni vagone è pieno di fanti. Vanno in guerra. Si avvicinano sempre di più al settentrione, dove, fra pochi giorni, si troveranno di fronte ad altri uomini e dovranno uccidere con le baionette, all'assalto, mentre essi saranno battuti dalle raffiche del fuoco nemico. Le ruote cantano: "Perché, perché, perché?" Una stazione. Il treno riprende il suo rollio smorzando la fine della canzone.
Nel fondo, nella vettura degli ufficiali, un tenente è seduto vicino al finestrino: ha tentato invano di dormire, preferisce guardare il paesaggio fuori, nel chiaro della luna: quanto è quieto e tranquillo tutto! E dopodomani anche lui guiderà i suoi fanti all'assalto, anche lui combatterà, darà il suo braccio per battere il nemico! Oh magari fosse già giunto!
Quanto candida splende la luce della luna! Brilla come l'altra sera, quando è stato per l'ultima volta da loro per accomiatarsi! No, non da loro. Da lei! Perché è andato solo per lei, per vederla ancora una volta, e per dirle ciò che finora non aveva osato, per dirle che la ama. Senza di questo non avrebbe potuto andarsene.
Lo ama anche lei? E’ vero, non ha risposto, ma non ha forse accostato il viso quando egli si è chinato su di lei baciandole le labbra?
O forse ha fatto così perché era un addio?
Verrà il giorno in cui potrà sapere tutto, o dovrà morire senza sentire da lei questa piccola parola, per cui vale la pena di vivere e di morire? Perché non poteva aspettare un altro giorno? Forse allora avrebbe avuto la risposta.
Le ruote cantano indifferentemente: "perché, perché, perché?"
Il treno rallenta. Dalle prime carrozze giunge a brani la canzone: "E' arrivato l'ordine di arruolarsi. Tutti devono partire!" Il treno è già lontano. Davanti al finestrino aperto sta, coi pugni chiusi, il tenente e guarda con gli occhi sbarrati nella notte di luna chiara.





LETTERA DAL FRONTE

Cara! Non offenderti con me perché ti chiamo così. Lo faccio per la prima e ultima volta. Tu sai che io ti amo? Non ne sono tanto sicuro. Tu sei entrata nella mia vita con un sorriso che mi è stato più caro di tutto quelli che gli altri mi hanno dato.
Ti ringrazio, cara, del sorriso che mi hai donato. Tu non puoi sapere che cosa sei stata per me. Non ho mai avuto il coraggio di confessarti il mio amore. Non mi sentivo degno di te! Pensavo che un giorno sarei tornato dalla guerra, dopo aver combattuto con tutto il mio ardore e forse allora, un giorno....Ma la sorte non vuole che sia così. Non importa! Ti ringrazio cara per averti potuto conoscere.
Tu sei stata nella mia vita la bellezza, la purezza, l'amore.
Tu sei stata il mio sogno e la mia realtà! Tu sei stata la mia speranza!
Non piangermi. Tu mi hai dato la felicità. Ti ringrazio cara per averti potuto amare.






LA FELICITA' INASCOLTATA


Il ragazzo e la fanciulla erano vicini. Avevano sempre giocato assieme. Avevano intessuto insieme i loro sogni.
Il ragazzo disse in un giorno di primavera:
« Andiamo nel bosco, dove non siamo mai stati, a vedere cosa c'è.»
Quindi si addentrarono nel bosco.
Il bosco era grande e fitto. Il muschio sotto i loro piedi era verde, il fogliame sopra le loro teste era verde e verde era anche l'aria intorno a loro. Attraverso il fogliame fitto, qua e là un raggio di sole penetrava attraverso piccoli spiragli rotondi. I due ragazzi procedevano tenendosi per mano, stretti uno all'altro, attraverso la foresta immensa e silenziosa. A loro sembrava di penetrare nelle profondità di un verde oceano.
Ad un tratto gli alberi iniziarono a diradarsi. I ragazzi raggiunsero una radura luminosa. Nel bel mezzo della radura c’era una fata con un fiorellino azzurro tra le mani.
"Questo è il fiore della felicità" disse "Curatelo col sorriso, con parole dolci, innaffiatelo con la rugiada dell'amore, perché non muoia".
Appena finì di dire ciò che aveva da dire la fata sparì. Il fiore restò tra le mani dei ragazzi. Loro tornarono a casa attraversando la grande foresta di color smeraldo, portando il fiore della felicità. I loro passi erano lenti, non parlavano, solamente qualche volta si guardavano di sfuggita, sorridendo silenziosamente.
A casa cercarono il loro tesoro più gelosamente custodito: un vecchio e bellissimo cofano. Vi piantarono il fiore della felicità. Lo nascosero bene così che nessuno lo vedesse e lo curarono tutti i giorni col sorriso e con dolci parole e lo innaffiavano con la rugiada dell'amore.
Arrivò però l'estate e il ragazzo andò a passare le vacanze con i suoi compagni molto lontano, dove la ragazza non poteva seguirlo. Pure la ragazza ebbe tante faccende da fare che le impedirono di prendersi cura del fiore della felicità. "Un'altra volta ... più tardi...c'è ancora tempo!"
Passò anche l'estate. Venne l'autunno, il freddo, la pioggia...
Il ragazzo e la ragazza si incontrarono nuovamente. Solo allora si ricordarono del fiore della felicità che avevano trovato un giorno, quando nella foresta verdeggiava la primavera. Aprirono il cofano, per ritrovare il fiore e curarlo col sorriso e con parole dolci ed innaffiarlo con la rugiada dell'amore... Ma nel cofano giaceva innanzi ad essi, morto, il fiore della felicità...
Il ragazzo e la ragazza rimassero immobili, uno in fronte all'altro: si guardarono, ma né l'uno né l'altra disse una parola...





L'INFEDELE


Una donna amò un uomo. Lo amò e gli diede la pace e la salvezza della sua anima. E se avesse avuto ancora qualcos'altro glielo avrebbe offerto senza esitare.
L'uomo la ripagò con alcuni baci e un po' di disprezzo. Fin quando un giorno trovò eccessivo anche questo e abbandonò la donna.
Questa in principio voleva morire, poi credette di impazzire per il tormento che sembrava durare eternamente. Ma non morì e non divenne pazza.
Un giorno s'accorse che lo spasimo era passato e con esso anche l'amore.
Dopo lungo tempo amò di nuovo ed ebbe nuove preoccupazioni. Non penso più al primo uomo, il quale non le perdonò mai questa sua infedeltà.








LEGGENDA D'ISLANDA

Molto lontano, lassù nel Nord, viveva la Regina delle Nevi. Da una parte si stendeva un immenso prato, dall'altra si ergeva un monte altissimo. Ma da tutte le parti un manto di neve copriva ogni sembianza di vita. Là viveva la Regina delle Nevi, muta e bianca, da centinaia, da migliaia di anni. Non piangeva e non rideva. Ella non soffriva per nulla , ma non provava neppure mai alcuna felicità.
Non aspettava niente. Stava solo là.
Sotto di lei, giù nel profondo della terra, viveva il Re del Fuoco. Intorno a lui ondeggiava un mare di fiamme, ma egli non sentiva il loro bruciante calore. Nella sua anima ardeva più focoso di ogni fuoco il desiderio di una cosa grande: ella, sconosciuta. E un giorno uscì dalla porta della sua prigione e si lanciò verso l'alto.
Gli apparve il giorno sulla cima di una montagna, e guardando in basso vide innanzi a sé la Regina delle Nevi.
Il Re del Fuoco si gettò ai suoi piedi e disse:
«Chi sei tu? Chi sei tu, cosi diversa da me? Tu sei così fredda, così candida. Non ti ho mai vista, sei più ammaliante di un sogno, ti amo! Amami anche tu!»
La Regina delle Nevi rispose:
"Se tu mi ami morirai E morirò anche io! Il Re del Fuoco e la Regina delle Nevi non possono baciarsi impunemente sulle labbra! Si dice che vivere è bello. Vivi dunque e lascia vivere anche me!"
Il Re del Fuoco però si chinò su di essa:
"Ti amo! E se il prezzo fosse la morte, ti amerei lo stesso!" ed abbracciò forte la Regina delle Nevi e la baciò sulle labbra con bruciante ardore.
Lei non poté, o non volle resistere.
All'alba non c'era più la Regina delle Nevi e le vampe del Re del Fuoco si erano spente per sempre.
Povera! Povera? Chi lo sa? Forse è meglio morire fra le braccia del Re del fuoco che vivere per cento e mille anni freddamente, candidamente, sola...



LE CAMPANELLE

Questa storia accadde molto tempo fa. Una cappella fu eretta sulla collina e un eremita si prese come dimora un tugurio preso la cappella. Gli uomini del villaggio salivano qui quando avevano delle pene nel cuore. Venivano a cercare il conforto ai piedi dell'altare e portavano con sé i loro bimbi perché l'eremita li battezzasse. Per il resto egli era sempre solo. Digiunando e pregando cercava il suo Dio.
Un giorno, uscendo dalla cappella, venne da lui una giovane donna che portava un bimbo fra le sue braccia.
"L'ho portato perché lo battezzi» disse, porgendogli il figlio
L'eremita lo guardò:
"Chi sei tu? E chi è il padre di questo bambino?"
La donna abbassò gli occhi:
"Io sono un'orfana abbandonata e mio figlio non ha padre"
Il servo di Dio alzò la mano accennando che non poteva:
"Io non posso battezzare il figlio del peccato!"
La donna si prostrò innanzi a lui:
"Non lo cacciare nell'inferno!Egli è innocente! Io ho già avuto il mio paradiso sulla terra, ed è giusto che sia dannata nell'al di là! Egli mi ha amata, ma mi ha detto che non sarebbe ritornato mai più. Io sono caduta lo stesso in peccato e non me ne sono pentita! L'ho amato. Ed egli è stato felice. Ma il bimbo è innocente. Abbi pietà di lui!
Il volto dell'eremita rimase impassibile:
"E' vero, egli è innocente. Vieni, ma domani all'alba, che nessuno ti veda: vieni di nascosto, umilmente, senza scampanio di festa, ed io lo battezzerò in nome del Dio della misericordia!"
La notte passò. L'eremita pregò in ginocchio vegliando davanti al suo tugurio: cercava il suo Dio.
Quando i primi raggi dell'alba inondarono il tetto della cappella, il suo orecchio fu colpito da uno scampanio, prima piano, leggero, lento, sommesso, poi sempre più forte. Sollevò lo sguardo: il pendio era cambiato. Nuovi, strani, fiori azzurri lo coprivano tutto e tra i fiori avanzava lentamente, a capo chino, umilmente la donna. E dappertutto dove posava i piedi, tenendo il bambino non ancora battezzato tra le braccia, tintinnavano sommessamente, poi trionfalmente, risuonando come un inno, le campanelle del Signore.



DUE PUPAZZI DI CARTA


C'erano una volta due pupazzi di carta: un pupetto e una pupetta. Sono stati fatti di bella e resistente cartapesta, e nella loro testina e intorno al loro cuore avevano messo un pezzetto di piombo per renderli più pesanti. La loro dimora era sulla tavola, davanti al camino. Il loro padrone era un ragazzetto di nome Andreuccio.
Un giorno Andreuccio portò a casa una bambina e nella sua stanza le mostrò tutti i suoi giocattoli: poi, arrivando ai pupazzi di carta disse:
-Guarda Marietta, questi non sono pupi comuni. Questi sentono e capiscono tutto. Ma se qualcuno sta qui, essi non vogliono parlare. Io li ho già visto sussurrarsi e bisbigliarsi all'orecchio quando credevano che io non badassi a loro.
Marietta si mise a ridere:
" Ma che stupidaggini stai dicendo? Credi forse che io sia così piccola da potermi dare a bere queste fandonie? E inutile che tu mi racconti delle favole ".
Andreuccio stava per rispondere quando sua sorella, che era già una signorina, entrò col fidanzato e i due ragazzetti furono mandati fuori. La fidanzata si sedette di fronte al suo promesso sposo e, prendendosi le mani, i due si baciarono. Il fidanzato le chiese:
«Mi ami?»
Ed ella rispose:
«Ti amo!»
e ripeterono il gioco parecchie volte.
Poi anche loro andarono via.
La sera, prima di coricarsi, Andreuccio sussurrò ai pupazzi di carta:
«Ma io so bene che voi siete vivi e che non volete parlare.»
Quando poi tutto si fece silenzio nella casa e solo il fuoco ardeva nel camino con piccoli crepitii, la pupetta di carta disse sommessamente:
«La fidanzata e il fidanzato si sono baciati e hanno detto: "Mi ami?" "Ti amo" Perché hanno fatto questo?»
Il fanciullo di carta rispose:
«Non lo so. Io non mi intendo di queste cose!»
Allora dal camino balzò un folletto rosso, che gli uomini chiamano scintilla, danzando e ridendo:
«Ha ,ha ha,- ha ha ha! Voi non capite queste cose perché avete del piombo nella testa e nel cuore: il piombo è duro e insensibile! Venite con me nel fuoco! Là è bello. Là c'è caldo. Là le vostre teste diventeranno ardenti, ardente diventerà il vostro cuore, e sarete come sono la fidanzata e il fidanzato. Venite da noi, venite da noi!»
E il piccolo folletto rimbalzò nel fuoco.
Il pupetto e la pupetta di carta si guardarono poi, piano piano, prudentemente scesero dalla tavola e si avvicinarono al camino.
Poiché ne aveva quasi raggiunto il bordo, il pupetto si fermò:
-Ma noi siamo fatti di carta! Se entriamo nel fuoco, saremo bruciati.
La pupetta però lo prese per mano e chiudendo gli occhi:
-Ardente sarà la nostra testa, e ardente il nostro cuore, e saremo come i due fidanzati!
Ed entrarono nel fuoco. I due pupi erano fatti di buona, resistente cartapesta, quindi non presero subito fuoco ma con il calore si sciolse il piombo nelle loro teste e divenne incandescente, poi presero fuoco dentro dove c’era la cartapesta e ad un tratto, da essi si levò con splendore abbagliante la fiamma.
I piccoli folletti, che gli uomini chiamano scintille, danzarono intorno a loro ridendo a squarciagola:
-Ha, ha , ha - ha , ha , ha! Essi ardono, e credono di essere come lo sposo e la sposa!
Ma il piccolo ragazzo e la ragazzetta di carta non li sentivano già più! Essi stavano l'uno di fronte all'altra , e tenendosi per mano, si baciarono e dissero:
-Mi ami tu?
-Ti amo! Ti amo! Ti amo!






LA FIGLIA DEL VENTO

La figlia del vento si trova molto in alto. Le nuvole sono lo strascico della sua veste. Non ha mai pace, non può mai sostare in alcun luogo: va, va sempre senza tregua. Non conosce riposo, non sente fatica. Guai a colui che ascolta il suo richiamo, guai a colui che intravede lo sventolio delle sue mani bianche: egli sarebbe perduto! Dovrebbe correre dietro ad essa e sarebbe a lei legato con un filo invisibile per l’eternità.
Nella immensa pianura abitava un pastorello. Sorvegliava il gregge e, steso sui prati per giorni interi, osservava il volo delle nubi. A volte gli sembrava che una mano bianca lo invitasse tra le nuvole. Una notte, mentre un immenso silenzio regnava sulla pianura addormentata, l'aria incominciò a soffiare intorno a lui. Prima piano piano, poi sempre più forte, fischiando e sibilando. Infine gli urlò nell'orecchio.
- Vieni con me, Vieni con me!
Il giovane si alzò e andò sulle orme delle nubi, senza meta, attraversando mari, deserti. Sempre avanti, là dove lo chiamava la voce affascinante, dove lo chiamava la mano bianca.
Ora la vedeva sopra i monti e quando arrivava sulla vetta, essa era ormai lontana, oltre le vallate.
Egli la seguiva con fiducia, con speranza: forse oggi, forse domani....
Passarono gli anni. Il ragazzo era già divenuto uomo, e andava ancora senza riposo attraverso le pianure e i monti, sulle orme delle nuvole, quando un giorno arrivò in una valle dove vicino alla porta di una casupola c’era una donna. L'uomo la guardò, e dopo tanti tanti anni sentì per la prima volta di essere stanco e posò la testa sul petto della donna.
Passò ancora del tempo e l'uomo viveva felice in quella piccola valle silenziosa. Ma una notte sobbalzò nel sonno:
"Che cos'è?"
La donna gli prese le mani
"Niente! Che hai? Solo il vento mugghia sulle vette..."
L'uomo la abbracciò strettamente, con terrore e passione, sussurrando tra sé:
"Il vento! La figlia del vento! Sento la sua voce!"
Da allora in poi la sentì ogni notte, in seguito anche durante il giorno. Prima come un sussurrio dolce: "vieni con me! Vieni con me!" Poi sempre più forte, insistente, selvaggia, fischiando, sibilando, soffocando ogni altra voce. Una notte la bianca mano si stese dall'alto su di lui e lo rapì
Giù nella casetta piangevano abbracciati la mamma ed il figlio che non aveva più padre, mentre in alto rideva sibilando la figlia del vento, che trascinava con sé il suo amante riconquistato.





ANIME UNITE


Un uomo e una donna si amarono ma poiché non avevano potuto congiungersi in vita, si unirono nella morte. Furono ritrovati dopo tre giorni nel canneto fiancheggiante il fiume. Erano abbracciati. Li divisero e furono sepolti in tombe diverse: l'uomo nella tomba di famiglia, la donna in un piccolo cimitero paesano, fra le sepolture senza nome, senza una cerimonia, come si fa con i suicidi.
Le due anime stavano ora davanti al Sommo Giudice, così strettamente congiunte che neanche lo sguardo dell'Eterno Padre poteva separarle.
Iddio li scrutò, poi fece cenno ai suoi angeli:
«Dividete questi due, perché possa giudicarli.»
Gli angeli con tutto il loro potere e la loro infinita bontà cercarono di eseguire l'ordine, ma non vi riuscirono. Perciò chiamarono in aiuto tutti i loro confratelli e tutti gli abitanti del cielo e con tutto il calore del loro amore e con tutta la forza della loro volontà cercarono di sciogliere e di dividere quelle due anime avvinghiate. Ma tutto invano!
Allora Iddio ordinò:
«Portateli all'inferno! Forse il demonio riuscirà a fare ciò che voi non avete potuto!»
Li portarono all'inferno e li consegnarono a Satana. Satana alzò il suo scettro e tutti i diavoli si lanciarono su di loro, non dolcemente come gli angeli, ma tirando ferocemente, tentando di strapparli l'uno dall'altra. Misero in atto, fino all'estremo delle loro capacità, tutte le torture dell'inferno. Ma nemmeno così riuscirono a dividere le due anime.
Alla fine Satana chinò il capo superbo e disse:
«Riportateli da dove sono venuti! Qui non possiamo tollerare qualcuno che sia più forte di noi!»
Le due anime ritornarono davanti al Tribunale del Padreterno, dove, tremando, si prostrarono ma non si divisero aspettando il giudizio:
Dio alzò la mano:
«Voi due, che siete uno, e che siete più forti della morte, che siete stati esiliati dal cielo e non siete stati accolti dall'inferno, voi che, benché tremanti, avete avuto il coraggio di sfidare la mia decisione, voi girerete per il vuoto celeste, abbandonati da Dio, dagli uomini , dagli angeli e dai demoni, sempre soli ma sempre uniti!»




LA DONNA ALL'INFERNO

Visse una volta una donna. Poi morì. Le sue conoscenti, tornando dal funerale, stabilirono di comune accordo che nel frattempo la donna fosse già arrivata all'inferno.
Le donne che non avevano mai peccato esclamarono “Povera donna!”.
Quelle invece che avevano peccato, ma non da così lungo tempo da essersene dimenticate, sentenziarono: “Lo meritava!”

Le sue conoscenti questa volta non avevano torto: la donna veramente si trovava già all'inferno.
Prima, come si usa, le passarono in rassegna la vita: lei sentì di nuovo che nella sua esistenza non aveva vissuto solo il lato bello, puro e nobile della vita. Aveva sposato un uomo da lei amato, stimato e onorato, essendone adorata e malgrado tutto ciò si era innamorata di un altro. Invece di sradicare dal suo cuore questa passione peccaminosa, ci si era abbandonata senza esitazione, ingannando il marito.
E ricordando tutto questo, le chiedevano se fosse vero. Ed ella faceva cenno col capo di sì.
Quindi le domandavano se ritenesse giusto e meritevole il castigo per questi suoi peccati. Ed ella faceva cenno col capo di sì.
Quindi le domandavano se ritenesse giusto e meritevole il castigo per questi suoi peccati.
Ella assentì di nuovo senza dire una parola. Infine la destinarono all'inferno.

L'inferno è un luogo dove ognuno riceve la pena secondo le proprie colpe: chi sulla terra è stato uno strozzino dal cuore freddo, sarà dannato a gelare per l'eternità fra i massi di ghiaccio del suo stesso cuore, mentre chi ha peccato perché il suo cuore è stato ardente, sarà tormentato ed arso dalle vampe del proprio cuore.

La donna era all'inferno e intorno e dentro di lei ardevano con fiammate incandescenti le sue memorie, i suoi peccati e il suo amore. La bruciavano, la tormentavano e la torturavano senza concederle tregua per un solo istante, né giorno né notte.

Ma un giorno andò da lei un angelo: le sue ali lunghe e bianche lambivano la terra. Egli alzò le mani benedicendola e disse: «Dio è grande, misericordioso e potente. Ha dato uno sguardo al tuo cuore e ha visto che, malgrado i tuoi peccati, non sei una donna malvagia. E ti ha perdonata. Mi ha permesso di venire da te e di portarti via da questo luogo in cui soffri. Puoi venire con me nel paradiso, dove potrai dimenticare tutto, dove troverai la pace e sarai felice!»
La donna lo guardò:
«Io dimenticherò tutto? La mia vita, i miei peccati e anche il mio amore?»
L'angelo sorrise benevolmente:
«La pietà divina è infinita! Dimenticherai tutto: la tua vita, i tuoi peccati e il tuo amore!»
La donna reclinò il capo e rispose:
«Io resto qui!»