domenica 25 gennaio 2015

Varful cu Dor- Carmen Sylva

Il pico del rimpianto (Varful cu Dor)
C’era una volta a Sinaia una hora (1) (festa danzante) così bella che una simile non s’era mai vista. Era un giorno di grande allegria. Le monache del monastero avevano preparato cosi tanti manicaretti che tutti si sono saziati a volontà. C’era gente venuta per questa occasione da molto lontano: da Isvor, dalla Poiana Tapului, da Comarnic, da Predeal, e persino da oltre le montagne.
Il sole intorpidiva fortemente l’intera vallata che per faticare di meno durante la danza, le fanciulle si tolsero i fazzoletti dalla testa e i giovinotti gettarono dietro alle spalle i capelli adorni di fiori.
Le madri erano sedute sul prato intorno e allattavano i loro figlioli, i loro veli leggeri e bianchi come fiori splendevano da lontano.
Era un frenetico batter di piedi per terra, c’erano gridi di gioia degli allegri danzatori, le fanciulle sembravano volare con le loro mosse leggere, come se i loro delicati piedi che si intravedevano dalla stretta gonnella non avessero nemmeno toccato la terra. Le loro camicie adorne di ricchi e colorati ricami e le monete che portavano al collo brillavano nel sole come fossero d’oro. I danzatori al suono dei lautari procedevano vorticosamente a girotondo in un ritmo che ricordava le onde del mare, o il pulsare del sangue nelle vene.
Un po’ in disparte, appoggiato al suo lungo bastone, se ne stava un bellissimo giovane pastore, e coi suoi occhi neri come le more seguiva la danza. Era slanciato come un giovane abete, da sotto il berretto bianco di montone i capelli a riccioli gli cadevano sulle spalle. Portava una camicia grigia fermata da una larga cintura di cuoio, ai piedi aveva dei sandali. Il suo sguardo attento indagò solo per un attimo ciò che lo circondava e i suoi occhi si fermarono scintillanti su una ragazza che sembrava non si fosse accorta di lui.
Bella era la fanciulla, bella quanto il più incantevole fiore, anzi, più bella della genziana e dalla rosa alpina, più tenera dell’edelweiss. I suoi occhi avevano due lumi, l’uno nella nera pupilla, l’altro nella bruna corona che la nera pupilla circondava. I suoi denti brillavano ogni volta che ella apriva le labbra di corallo. I suoi capelli erano scuri come il nero abisso di una cascata e come se le dessero vita e freschezza, la ghirlanda dei fiori che li adornava non si appassiva mai. La sua vita era cosi sottile che si poteva stringere con un sola mano, e nonostante ciò si dicevano cose mirabili della sua forza. Si, Irina era bella, bellissima e Ionel, il giovine pastore la guardava senza tregua. Si avvicinò al gruppo di danzatori e prese Irina per la mano. Le fanciulle li guardavano e ridacchiavano: Irina divenne rossa.
In quel mentre i lautari si arrestarono tutto d’un tratto su un vibrante accordo ed i giovinotti fecero girare fra le proprie braccia le danzatrici. Ionel tirò in giù con una mossa decisa la mano di Irina.
“Irina”, disse egli, con voce bassa “vedi tu le foglie gialle di quel faggio. E’ arrivato il tempo; bisogna che io discenda con le mie pecore giù nella vallata, laggiù nel Baragan o forse perfino in Dobruggia e fino alla primavera non ti vedrò più. Dimmi una buona parola, affinché il mio cuore non tremi quando penserò che tu guardi altri giovani.”
“Che devo dirti?! Tu non hai amore per me e presto mi dimenticherai”
“Preferirei prima morire che scordarmi di te”
“Parole, non sono che parole, E io non ci credo”
“Che bisogna fare perché tu ci creda?”
Gli occhi di Irina scintillarono e lo guardò di traverso, poi gli disse:
“Quel che non puoi fare”.
“Io posso fare tutto”, disse lentamente Ionel.
“Ma tu non puoi restare senza le tue pecore; ti separeresti molto più difficilmente da loro che da me”.
“Senza le mie pecore!” esclamò Ionel con un sospiro.
“Vedi”, disse Irina ridendo, “La sola cosa ch’io ti chiedo e che tu resti qui sulla montagna senza le pecore e questo tu non lo puoi fare. Parole, nient’altro che parole”.
“E se lo facessi?” disse Ionel impallidendo e serrando i denti.
I giovanotti e le fanciulle nel frattempo si riunirono attorno a loro ed ascoltavano.
“Non lo fare! “ dicevano alcuni “Fallo!” dicevano gli altri.
Allora un vecchio pastore dai riccioli d’argento e dalle folte sopracciglia, posò la mano sulla spalla di Ionel.
“Lascia stare le ragazze” disse con accento rude “esse ti spezzeranno il cuore, poi ne rideranno. Tu non sai che deve morire il pastore che abbandona le sue pecore”.
Egli minacciò poi Irina col pugno chiuso:
“E tu credi che solo perché sei bella puoi tutto osare e nulla punirà la tua arroganza? Ma tutto il male che fai, è a te stessa che lo fai”
Irina rideva:
“Lui non ha bisogno di andare via, e io non ho bisogno di lui” Volgendosi poi su se stessa, corse a bere acqua alla fontana dietro il monastero.
Ionel invece non ascoltava ormai nessuno e con le guancia pallide e le labbra serrate si diresse verso la montagna. Passato davanti a Irina le fecce segno con la mano.
“Non lo fare!” gli gridò lei ridendo con le sue compagne.
“Non lo fare! Non lo fare!” mormorò il Peles.
Ma Ionel non l’udì e sotto il sole meridiano, per i ripidi sentieri, tra pini giganti che sei uomini appena potevano abbracciare e attraverso l’ombrosa foresta di faggi, egli sali alla capanna attorno alla quale giacevano le pecore e da cui sbucarono i cani che gli vennero incontro con lieto abbaiare.
Egli carezzò la finissima lana delle sue pecore e chiamò Mioritza(2). “Brr, brr, oita, brr”
Mioritza gli venne incontro col suo agnellino, e si fecce attaccare i garofani che egli aveva rubati ad Irina.
Ionel pregò gli altri pastori di prender con sè le sue pecore, rassicurandogli che li avrebbe raggiunti più tardi: aveva fatto un voto e doveva prima compierlo. Tutti l'ascoltarono con sorpresa.

“E se io non tornassi più, dite che la Brama mi aveva invitato alle sue nozze.”
Prese nella mano il suo flauto di pan e salì più in alto sulla cima della montagna dalla quale poté vedere (distinguere) fino al Danubio e fino ai Balcani.
Lassù portò la tromba alle labbra e suonò con accento straziante. Vide allora accorrere a lui il cane più fedele che da subito cominciò a fargli delle moine, girare attorno a lui guaendo e a tirarlo per il vestito verso la valle. Ionel, non sapendo più come difendersi finì per cacciarlo via con le lacrime agli occhi, minacciandolo e lanciandogli contro delle pietre. Egli riuscì cosi ad allontanare il suo ultimo amico e rimase solo nella selvaggia solitudine della montagna. Due aquile volteggiavano attorno ai suoi piedi, il resto era solo silenzio.
Si sdraiò sull'erba e sospirò così forte che parve che il petto gli si rompesse; poi si addormentò stanco di malinconia e di ,languore.
Quando si svegliò, le nubi giravano attorno alla sua testa e vi si avvicinavano sempre di più, dapprima rapide, poi arrestandosi improvvisamente e avvolgendolo in una nebbia così densa da non fargli veder nulla a un passo di distanza. Tutto d’un tratto parvero prender corpo e forme bellissime donne dai vestiti scintillanti e bianchi come la neve: tenendosi per mano, lo circondarono. Egli stropicciò ancora gli occhi, credendo di sognare ancora. Ma udì il loro canto, che era così soave e dolcissimo che pareva venire da mondi lontani. Con le braccia di giglio tese verso di lui dicevano:
“Bel fanciullo! Sii mio! Sii mio! Vieni con me!”
Cosi da tutti i lati. Ma egli non fece che scuotere la testa.
“Non ci sdegnare!” gridò una, “Noi vogliamo solo darti tanta gioia, che dimenticherai per sempre la vallata” e divise con la mano la nebbia. Dinanzi a lui apparve un prato talmente pieno di fiori che lui non aveva mai visto in tutta la sua vita. In mezzo sorgeva una capanna fatta di foglie di rose e una sorgente scorreva limpida sul muschio profumato.
“Vieni! E' là che noi vogliamo abitare!” disse la bella con voce argentina.
“No!”, diceva un'altra, “vieni con me!”
E davanti ai suoi occhi fece sorgere fuori dalla nebbia una casa che, illuminata dal sole splendeva come un arcobaleno. L'interno era morbido, come se fosse fatto di finissima lana, e dal tetto cadevano gocce dell'arcobaleno, le quali, appena toccata la terra, ne facevano sbocciare erbette e fiori.
“E' qui che noi abiteremo” disse la bella fanciulla “io voglio adornarti come sono adornata io “ e gli mise al collo delle catene di gocce scintillanti; ma egli scuotendo il capo le fecce cadere:
“Una sola” disse Ionel con voce scura “una sola può adornarmi, una sola, la mia fidanzata!”
“Ebbene, io voglio essere la tua fidanzata” soggiunse una terza “ecco la mia dote”. Quindi, raggruppando le nubi ne fece pecore e pecore finché la montagna e i monti vicini e il cielo ne furono pieni. Esse erano di una candore abbagliante con delle campanelle d'argento e d'oro al collo e sotto i loro passi cresceva l'erbetta tenera. Per un istante il viso dell'abbandonato si aprì alla gioia, ma poi allontanò con la mano la seducente visione e disse:
“Io non ho che un gregge, il mio e non ne chiedo altri”.
Allora la nebbia divenne più densa e più scura, e ben presto egli fu avvolto da nubi nere, dalle quali si sprigionarono lampi, mentre il tuono si mise a minacciarlo da vicino.
Nel rimbombo del tuono egli udì:
“Incosciente figlio della terra che osi disprezzarci, sei condannato a perire!”
Il tuono scoppiò e parve che la montagna intera si rompesse e franasse nella vallata; la neve cadde su Ionel in leggeri fiocchi, dapprima finissima e poi sempre più densa.
Finché ne furono rivestite le montagne ’intorno, e coperti le sue ciglia, i suoi capelli, il suo mantello.
In quel turbine di neve risuonarono di nuovo le dolcissime voci, tra flauti e corni e canti, e come se fosse eretto da invisibile mani, apparve davanti agli occhi di Ionel un castello di neve talmente brillante che per un attimo Ionel dovette chiudere gli occhi. Quando li riaprì, la luna e le stelle erano riunite in quel castello così che le loro mura erano penetrate dal loro fulgore. La luna troneggiava sopra un alto e morbido cuscino e guardava le stelle che, tenendosi per la mano, ballavano una hora. In ogni momento ne appariva una nuova, e mentre il cielo diventava più scuro, la luna faceva un cenno e una piccola stella correva dal cielo nel palazzo.
Vi erano delle stelline che come bimbi giravano alla rinfusa, ridevano, gioivano ai piedi della luna. Altre giungevano maestose su un carro che percorreva tutte le vette delle montagne, lungo come l’intero Bucegi. Portato da numerose piccole stelle, tutte in fiammeggiante veste con ghirlande e corone di raro splendore. Le porte del castello si spalancarono da sole quando apparvero le stelle più potenti. Una di esse ordinò alla luna di scendere dal suo trono e servirla, poi fece segno a Ionel e gli disse:
“Vieni figliuolo dei uomini, sii mio sposo, tu farai con me il giro dell’universo, avrai le mie piccole stelle per serve, e tu stesso sarai inondato di luce come una stella scintillante.”
Ionel si era avvicinato alla porta senza accorgersi, ed udì quelle parole seducenti accompagnate dal canto leggero delle altre stelle. Allora la luna sollevò la testa e lo guardò: rassomigliava tanto ad Irina che Ionel colpito al cuore esclamò:
“Fosse ai miei piedi il mondo, lo porterei ad Irina”
Ne seguì un fischio, un muggito, un terribile fracasso; le stelle si lanciarono verso il cielo in fila interminabile, solenne; il castello sprofondò su se stesso e seppellì Ionel; e la luna pallida e triste stette a guardare la massa di neve.
Ma gli gnomi, i quali avevano udito sopra le loro teste quel terribile fracasso s’arrampicarono a mala pena fuor dal grembo della montagna per vedere se ci fosse qualche pericolo a minacciare la loro casa. Così scoprirono l’immenso mucchio di pietre preziose con le quali il castello fu fabbricato. Pieni di gioia si dettero a raccogliere quel prezioso tesoro e a trascinarlo all’interno della montagna, dove lo ammucchiarono nelle ampie caverne. Così fu che trovarono il povero Ionel, e siccome non pareva privo affatto di vita ed era più bello di loro, ne ebbero pietà. Lo trascinarono con fatica giù, e lo coricarono sul muschio più morbido che possedevano.
Inoltre attinsero dell’acqua calda e fredda dalle loro sorgenti, lo lavarono, lo bagnarono, poi lo portarono all’immenso lago sotterraneo, che alimenta tutte le acque. Lo immersero una sola volta nell’acqua ed egli si risvegliò completamente sano guardandosi intorno con sorpresa:
“Dove mi trovo?”, chiese.
Ben poteva meravigliarsi. Al di sopra di lui le rocce lucenti formavano archi di un’incommensurabile altezza, che si perdevano nella notte oscura, e ai suoi piedi si stendeva un lago così vasto, così infinitamente vasto, che sembrava dovesse riempire tutto l’interno della terra. Anche questo lago si perdeva in oscurità, mentre intorno a sé vedeva correre, agitarsi ed arrampicarsi innumerevoli gnomi con lunghe barbe e piccoli lumi, portati da alcuni alla cintola e da altri sulla fronte. Essi trascinavano file interminabili di pietre preziose, le lavavano nel lago per fare aumentare il loro splendore, e le ordinavano a strati e a mucchi nelle sale. Molti arrivavano sulle zattere e portavano pietre giammai viste. Alcuni caricavano navigli per lunghi viaggi e abbandonavano la riva.
C’era nell’immensa caverna una confusione di voci e di lumi che stordiva Ionel, ma tutti sembravano conoscere bene le loro faccende, ad eccezione di quelli che lo circondavano e che non sapevano cosa fare di lui. All’improvviso egli fu invaso dal desiderio irrefrenabile di partire per lontane, oscure e ignote contrade e si lanciò su una zattera che stava per levar l’ancora.
Allora sorse fuor dalle onde una donna stupenda, rassomigliante ad Irina come una sorella gemella, e tese le braccia verso di lui:
“Irina” gridò Ionel e volle slanciarsi dietro di lei, ma venti braccia vigorose lo trattennero, e altrettante braccia vigorose cominciarono a picchiarlo con violenza. Egli si difese perché la bella donna lo incoraggiava con gli occhi; ma loro non lo lasciarono e stizziti presero a lapidarlo.
Allora comparve un gnomo con la corona sul capo il quale ordinò che si cessasse la lotta e disse:
“Tu, t’inganni Ionel, la tua fidanzata non è qui, ella è nella vallata e ti attende; questa qua è destinata a me per sposa ed io l’attendo da molti anni”.
La donna fecce una smorfia e, minacciando, s’immerse nelle onde. Il piccolo re sospirò, Ionel sospirò, e tutti gli gnomi sospirarono da buon bravi sudditi, ma tennero ancora le pietre pronte nel caso che la morte di Ionel fosse decretata. Ma il re osservò con occhio compassionevole il bel pastore e vedendo che perdeva sangue dalle numerose ferite ordinò che fosse subito lavato con le salubri acque della sorgente, In seguito lo fece condurre ringiovanito e più bello sulla cima della montagna dove lo avevano trovato. Al momento di congedarsi gli disse:
“Tu hai commesso un errore Ionel, hai scordato i tuoi doveri per l’amore di una bella fanciulla. La tua fedeltà verso di lei è bella e grande; ma l’infedeltà ai tuoi doveri è più grande ancora, benché io comprendo i tuoi sentimenti, non posso sottrarti al castigo che ti è riservato.
Ionel salì col cuore affranto sulla vetta della montagna, dove ancora imperversava la tempesta. Anzi, l’uragano diventava sempre più violento quasi volesse far precipitare dalla cima quell’uomo solitario e ridurlo in mille atomi. Ionel si teneva ad una sporgenza della roccia. E si guardava intorno con gli occhi selvaggi, in attesa di nuovi nemici, nuovi pericoli, di nuove tentazioni. Ma gli parve che l’uragano lo gettasse a terra, gli strappasse e lacerasse il cuore, e che stesse per morire di dolore. Quindi si aggrappava ancor più forte alla roccia che sembrava oscillare sotto la sua pressione. Attraverso il muggito e lo strepito egli sentiva attorno a sé gridi, appelli, minacce, ora proferite da un coro di voci ora da una sola voce; poi udiva fanfare di trombe che torturavano il suo cervello. Allora d’un tratto il suo amore per Irina si mutava in odio ardente, amaro, poiché era stata lei che l’aveva, col sorriso sulle labbra, invitato alla morte. Si, egli voleva restare qui, fedele fino alla fine; ma in primavera voleva scendere nella vallata e sdegnoso prendere da lei congedo per sempre. Nessuna doveva possedere il suo cuore: ma solo il suo gregge, che lui aveva vergognosamente abbandonato.
Allora risuonò dal grembo della roccia una voce potente e profonda.
“Figliuolo, tu sei mio senza scampo, sei nel mio potere, per sempre” e nello stesso attimo la roccia si mutò in una donna gigantesca, la quale serrò Ionel tra le sue braccia di pietra e con le sue labbra di pietra lo baciò. Egli tentò di difendersi pieno di spavento, ma non ci riuscì.
“Chi sei tu?”, gridò, “tutto l’inferno dunque si è alleato contro di me? Chi sei tu se non sei la Welwa?”(3)
La donna era ridiventata roccia e attraverso la bufera risuonarono queste parole:
“Io sono la Nostalgia, tu sei mio, e le ultime labbra che hai baciato sono mie.
Da questo momento tutto divenne tranquillo e apparve il sole. I suoi raggi splendenti illuminarono un uomo pallido che, appoggiato al suo corno guardava fissamente verso la vallata. Fino al Danubio. Quest’uomo non sospirava, non si muoveva, i suoi battiti del cuore non sollevavano le braccia incrociate sul petto. Appena il lento muoversi delle palpebre appesantite tradiva la vita. Allora tutto intorno cominciò a muoversi.
Nevi e ghiacci si sciolsero e precipitarono nella vallata e dal suolo sorsero le tenere erbette. Ionel non si mosse. La foresta si spogliò del suo secco fogliame. Spuntarono i boccioli. Ionel sembrava non accorgessi di nulla, né del cinguettio degli uccelli, né del muggito dei torrenti che risuonavano.
Ionel non udì. Tutto ciò che era vita sembrava radunarsi intorno a lui per destarlo, ma invano. Egli guardava fisso in giù verso il Danubio, come se fosse una statua di pietra. Ma tutto d’un tratto la vita rianimò i suoi lineamenti, gli occhi brillarono, un leggero rossore colorò le sue guance, ed egli ascoltò con le braccia distese e il collo in avanti l’abbaiare dei cani e il tintinnare delle campane che si avvicinavano. Vide il suo gregge apparire e subito alzò il corno alle labbra tentando di dar loro benvenuto, ma inutilmente. Non riuscì a fare altro che portare la mano al cuore e gridare:
“Io muoio!”
E cadde esanime al suolo.
Io suoi cani gli leccarono invano le mani e la faccia, la sua Mioritza saltò invano su di lui, invano lo chiamarono sul nome i pastori; egli giaceva là con un sorriso di felicità sul volto rifinito e non rispondeva. Rotto accanto a lui giaceva anche il corno, che il suo soffio aveva animato ancora una volta, e nulla attorno a lui portava la traccia delle lotte che il giovane eroe aveva sostenuto. Essi lo seppellirono dove l’avevano trovato e nominarono la montagna “Il picco del rimpianto” cioè Varful cu dor.
Io sono stata sovente lassù ed ho visto la sua tomba; le pecore vi pascolano sempre.

Alla base di questa traduzione è la traduzione di L.Parpagliolo(1908), riattualizata al confronto con l'originale Pelesch Marchen (1882) di abraxas
L'immagine proviene dall'Enciclopedia austro-ungarica scritta dal Principe Rodolfo di Asburgo


1. hora- danza tradizionale, si balla in gruppo in cerchio prendendosi per le mani
2. Mioritza= la pecorella prediletta
3.nel Libro viola delle fiabe Andrew Laing dà questo nome ai draghi delle fiabe rumene, probabilmente ricordato in alcune fiabe come Belva

I