venerdì 6 marzo 2015

BETHLEN:STORIE DELLA CITTA' TRISTE


Storie della citta triste - Contessa M. Bethlen (1925)
Trad Ignazio Balla (1929) rivista da @abraxas (2015)

LA FAVOLA DELLA CITTA' TRISTE

Lontano, lontano nel nord, si erge una triste città. Il suo cielo è appesantito da nubi plumbee e grigie. Le sue strade sono cupe e desolate: la vita vi scorre come in un perenne nebbioso meriggio autunnale. Gli uomini che l'abitano camminano esitanti, come se ognuno cercasse qualche cosa e, quando s'incontrano, si guardano di sfuggita, girano la testa altrove e s'allontanano.
Nella città triste vivono coloro che, un giorno lontano, furono molto amati da qualcuno, ma, poiché raramente la gente dà il giusto valore a ciò che possiede già, essi cacciarono via questo grande amore, lasciando chi tanto li amava, senza rendersi conto che, cosi facendo, si derubavano da soli. Vissero ancora, cercarono nuovi amori, ma, un giorno , risvegliandosi, si ritrovarono soli nella città triste: da quel momento iniziarono a camminare senza metà e a cercare, senza fine...
A volte si incontrano e per un tratto di strada si accompagnano, ma alzando lo sguardo, si accorgono di non conoscersi.
Solamente una cosa potrebbe salvare gli abitanti della città dannata: chi un tempo li amò dovrebbe tornare, venire loro incontro e prendendoli per mano sussurrare ad ognuno di essi: "Ti amo ancora!"
Allora le nubi plumbee diventerebbero rosee, le strade tornerebbero a splendere sfolgoranti e la felicità tornerebbe nella città triste.
Ma finché questo non avverrà, nella cupa città gli abitanti continueranno a camminare esitanti e a cercarsi, ma quando si incontreranno, gireranno la testa altrove e si allontaneranno....







LE PERLE DELLA PRINCIPESSA


Attorno alla culla della principessa c’erano tre fate.
La prima disse:
«Che tu sia chiamata dalla gente di tutto il paese ‘la principessa felice!’»
La seconda disse:
«Che nessuno ti veda mai piangere!»
Infine la terza:
«Che ogni lacrima che tu in segreto piangerai diventi una perla vera! »

La principessa crebbe, divenne bella e buona; cantava per l'intera giornata, rideva e nessuno la vide piangere mai. Il popolo del paese la chiamò: la principessa felice.

Durante i tornei cavallereschi, la principessa stava seduta presso il padre.
Portava fra i capelli una rosa bianca e sul petto una rosa rossa; davanti a lei c'era una coppa d'argento da consegnare al vincitore. Nell'arena scendevano in ordine i cavalieri e si cimentavano nella giostra. Ma uno ve n'era che emergeva su tutti, un prode dalla maglia nera che abbatteva trionfalmente ogni rivale. Terminata la giostra, venne dichiarato vincitore e il cavaliere si presentò alla principessa per ricevere il trofeo.

Lei guardò a lungo il giovane che le si inginocchiò davanti; poi, invece di consegnare la coppa d'argento, prese dal suo petto la rosa di colore rosso fiammeggiante e gliela porse.
Da quel giorno la principessa non rise più e mai più cantò. Sorrideva soltanto. Sorrideva alla mattina e sorrideva alla sera e sorrideva anche durante i suoi sogni.

Un giorno il re chiamò la principessa:
« Figlia mia, la figlia del nostro vicino andrà a nozze e noi siamo invitati allo sposalizio. Devi cercare nella tua camera dei tesori un regalo degno di lei. Tu conosci lo sposo: lo hai decorato quale vincitore della giostra.»
«Sarà fatto, padre mio!»
Il giorno dopo, prima di mettersi in viaggio, mostrò una lunga fila di perle vere:
«Ecco, padre mio, il tesoro più caro, il regalo degno per la coppia di sposi.»

Quando consegnò le perle alla sposina, questa gridò con entusiasmo:
«Tu mi regali queste perle? Come sei buona!»
La principessa sorrise:
«Prendile! Ce ne sono ancora molte nel luogo da cui provengono. »
Celebrate le nozze, la principessa fece ritorno con il padre. E visse ancora, e ancora sorrise e nessuno la vide piangere mai.
Il popolo continuò a chiamarla: la principessa felice.
Ma nella sua camera, a grandi mucchi, si ammassavano file di perle...





LA POVERA DONNA IN CIELO

Nei tempi remoti, tanto remoti che nel cielo non esistevano neppure le stelle, visse una povera donna che non aveva nessuno al mondo tranne il suo figlioletto. La povera donna non si intendeva di null'altro se non di cucire. Il suo bimbo aveva sempre fame perciò essa cuciva, cuciva dall'alba fino alla sera e qualche volte anche durante la notte, per guadagnare abbastanza da sfamare entrambi. Il figliolo di rado soffriva la fame, ma la mamma diventava di giorno in giorno sempre più debole e più pallida. Una mattina non poté alzarsi dal letto.

I vicini chiamarono il medico. Questo venne, la guardò, la toccò, poi le ordinò di mangiare sempre cibi ben nutrienti, le raccomandò di non stancarsi, dicendo che in tal modo si sarebbe ristabilita in breve tempo.

La povera donna ringraziò il medico. Diede l'ultimo pezzo di pane al suo figliolo e alla sera in silenzio spirò.

Essendo però una donna molto, molto buona, che aveva sempre adempiuto ai suoi doveri e non aveva mai fatto male a nessuno, volò direttamente in cielo.

Là le tolsero le vecchie vesti che indossava quando era stata sepolta e con esse le tolsero ogni preoccupazione, ogni dolore che portava con sé dalla terra.

La coprirono con un lungo, svolazzante vestito angelico, ed essa si confuse tra il coro degli angeli.
La povera donna era ormai un angelo splendente, lassù nel cielo, e chiudeva gli occhi abbagliati dal tanto fulgore, e si premeva le mani sul cuore perché non scoppiasse per la troppa felicità. Cantava pure lei con gli altri angeli le lodi di Iddio Creatore.
Ma ad un tratto una voce colpì il suo orecchio, una voce che si poté distinguere chiaramente nel coro degli angeli. La voce implorava:
-Mammina, ho fame!
Giù sulla terra era mattina e il figliuolo della povera donna si era svegliato.
Alla donna venne in mente che essa avrebbe dovuto ancora cucire, cucire per guadagnare il pane per la sua creatura che aveva fame. Cerco il suo ago e il filo di refe. Ma questi erano rimasti nel suo vecchio vestito che gli angeli le avevano tolto
Allora si incamminò per cercare le sue vecchie cose. Percorse tutto il cielo e alla fine arrivò in quella sala grande grande, dove i morti depongono tutto quanto hanno portato con sé dalla terra: i vestiti, i ricordi, i dolori e le preoccupazioni. Qui, in un angolo la donna ritrovò le sue cose.

Prese l'ago e cercò qualche cosa per poter cucire.
Guardando in giù intravide sotto di sé un'immensa , lunga, larga e splendente seta azzurra.
La povera donna incominciò a cucire dall'alba fino alla sera ed anche durante la notte cucì ininterrottamente...

Quando l'indomani gli uomini, al calar delle tenebre, guardarono verso il cielo, videro con stupore che questo era cosparso di puntini lucenti e li chiamarono ‘stelle’. Invece non erano altro che i puntini dell'ago della povera donna, attraverso i quali brillava lo splendore del paradiso.




IL POETA MUTO

Visse una volta un sordo-muto.
Quando da ragazzo vedeva nel giardino i raggi del sole, stendeva le braccia come per attirarli e stringerli a sé e baciava i fiori del prato perché erano belli e profumati. Correva ore ed ore per raggiungere l'arcobaleno. Quando invece infuriava l'uragano e le nubi si accavalcavano in cielo, egli andava in mezzo alla strada e gettando indietro il capo lanciava grida inarticolate, supplicando le nuvole di non abbandonarlo e di portarlo via con loro!
I suoi compaesani lo deridevano e lo chiamavano il pazzo!
Egli non poteva giocare con gli altri ragazzi, perché lo prendevano in giro e lo schernivano. Gli unici amici suoi erano gli alberi, i fiori e i raggi del sole. Con essi parlava il suo linguaggio fatto di voci strane e incomprensibili e non di parole, perché egli non sapeva parlare. Lui non aveva altro che sentimenti. Passavano così nel suo animo sentimenti delicati, fragranti, colorati e pieni di tenerezza. Quando la brezza accarezzava i fiori e questi piegavano le piccole teste variopinte, egli sapeva che loro lo capivano.

I giorni trascorrevano così , l'uno dopo l'altro e il ragazzo divenne un giovane uomo. Una sera mentre sedeva sulla riva lungo del lago, scorse una fanciulla.
Ella alzò gli occhi e sorrise. «Il pazzo» disse
Ma questi non sentiva le parole e vedeva solo il sorriso. E inginocchiandosi davanti a lei, come vedeva che facevano gli uomini in Chiesa dinanzi alle immagini dell'altare, le baciò l'orlo della veste. La ragazza sorrise di nuovo e accarezzò i capelli del giovane.
«Povero pazzo!»
Egli rimase lì, inginocchiato, col cuore traboccante di sentimenti nuovi, dolci e ardenti che irrompevano come fasci di fiamme dalla sua anima ardente. Avrebbe potuto gridare, cantare, raccontare al mondo intero la sua felicità, ma dalle sue labbra non uscivano che parole incomprensibili e i canti che scaturivano dal suo cuore come vampe brucianti, si gelavano sulle labbra appena sbocciati. Per la prima volta in vita sua il giovane rimpianse di non poter parlare.
Andò per i campi e colse i fiori più belli, più variopinti, dal profumo più inebriante, come quel sentimento nuovo, strano, ma dolcissimo del suo cuore, e li portò sulla riva del lago, dove si trovava la ragazza. Anche il giorno successivo e quello dopo ancora le portò mazzolini di fiori: ogni fiore era una canzone che lui cantava per lei dal fondo del suo cuore.
Quando vedeva le nuvole rosee galoppare per il cielo, egli pensava a lei. Quando la brezza accarezzava la sua fronte, egli sentiva come il tocco lieve delle sue mani: il suo amore era traboccante di canzoni splendenti, fiammeggiati, che bruciavano e facevano divampare tutta la sua anima.
Ma un giorno, camminando per la via grande del villaggio, il giovane vide un corteo nuziale che veniva dalla Chiesa. La sposa era davanti a tutti.
Il giovane uomo riconobbe in lei la fanciulla del lago.
Lui rimase per lungo tempo immobile e sentì che un grande e strano buio si addensava sulla sua anima, come un gigantesco uccello dalle nere ali che copriva improvvisamente tutto quanto era stato una volta dolce e bello, e uccideva le sue canzoni ardenti e splendenti, non lasciando al loro posto che un greve silenzio grigio e opaco. Il giovane uomo se ne andò lontano, vagando per giorni e giorni... Quando la tempesta si scatenava ed urlava intorno a lui, egli stendeva ancora le braccia, come quando era ragazzo, scongiurando la bufera col suo linguaggio incomprensibile: «Non lasciarmi, portami via con te!»
Ma un giorno, col cuore gonfio di gioia, sentì che la sua anima tornava nuovamente a cantare: erano canti nuovi, fieri, cupi d'ira, canti dolorosi come fitte acute, pieni di tormento, ma erano pur sempre canzoni.
Poi lentamente la tempesta della sua anima si placò. Le canzoni che risuonavano in lui diventarono fosche, tetre, ma il loro suono era dolce, lieve. Il sordomuto, fattosi ormai uomo adulto, riprese di nuovo a girare per i prati e tornò a cogliere i fiori. Ma erano ora fiori dai colori pallidi e dal lievissimo profumo.
Cosi visse ancora per molti anni, finché un giorno i suoi compaesani dissero di lui:
«E' morto il pazzo!»
Lo seppellirono. Non vi fu nessuno a prendersi cura della sua tomba, ma in primavera interi fasci di fiori di un rosso fiammeggiante sbocciarono sul suo tumulo, ricoprendo tutto come un divino mantello sanguinante e fiorito. Come? Da dove erano germogliati?
Forse dal cuore del poeta?
Erano forse i canti che non aveva mai potuto cantare durante la sua vita ...





IL CASTELLO DI CARTE


La mamma e Gino sono seduti a tavola. La mamma indossa una veste verde cupo, con le maniche che giungono fino al gomito terminando con bianchi pizzi. Tiene la testa appoggiata al palmo della mani e guarda innanzi a sé, senza parlare. Gino, un ragazzetto con un vestitino blu, sta costruendo un castello con le carte da gioco. La mamma ieri gli ha raccontato una bellissima fiaba su un cavaliere predone e gli ha fatto vedere anche il castello dove il cavaliere abitava, e Gino ora costruisce un maniero come quello, con le carte da gioco. Nell' immagine il castello stava ai piedi di un monte che per metà sporgeva sul mare. Fingeva che quel mucchio di libri fosse il monte, ma il mare? Boh! Ecco: i merletti delle maniche della mamma! Si può costruire tranquillamente il castello: quando la mamma siede così pensosa, molte volte non si muove per ore intere. Gino nel frattempo può erigere la sua rocca, anzi farà anche in tempo a demolirla.

La mamma guarda innanzi a sé, con lo sguardo fisso, come sperduto, e non vede né la piccola stanza, né il castello di carte da gioco, né Gino stesso. Lei vede un'altra cosa.

Vede in porto un gran bastimento pronto a salpare e sul parapetto della nave è appoggiato un uomo che la aspetta. E’ ancora in tempo: se ella partisse subito, in pochi minuti potrebbe arrivare, e tra un'ora entrambi sarebbero sul mare, soli e felici, e nessuno potrebbe più dividerli, nessuno, mai.

Ma essa non parte; la nave salperà senza di lei e le porterà via colui che ella ama, e non lo rivedrà mai più, né oggi, né domani, mai più. La mamma trasale, sussulta. Una vocina implorante giunge al suo orecchio:

«Cara e buona mammina non ti muovere ancora per un pò, perché altrimenti farai crollare il mio castello!»

E la donna, sollevando lo sguardo, lo immerge negli occhi imploranti, ansiosi e supplichevoli del piccolo Gino. Essa reclina di nuovo la testa tra le palme delle mani e continua a guardare davanti a sé. Rivede di nuovo il battello e l'uomo appoggiato al parapetto che la attende ancora e spera, anzi è convinto, che essa verrà.

Il tempo passa, passa, ed essa sente il segnale della partenza e vede la nave che si muove e va via, si allontana, non si vede più...

Si apre la porta ed una voce chiama:
«Ginetto, vieni a dormire»
Il ragazzo si alza di scatto:
«Vengo subito, ma prima voglio far crollare il mio castello.»
La mamma alza la testa:
-Lascialo Gino, crollerà da sé.



LA PRINCIPESSA BIANCA

Sulle cime dei monti stavano tre principesse. La prima era rossa: i suoi capelli erano come le fiamme, le sue labbra ardevano e persino il suo mantello era rosso. La amavano gli gnomi terrestri e i diavoli focosi dell'inferno ed essa danzava la notte con loro nella pianura.

L'altra era azzurra: i suoi occhi rispecchiavano il colore del cielo, la sua capigliatura ed il suo manto svolazzavano con un bagliore bluastro quando galoppava fra le rupi col suo amante, il vento.

La terza principessa era bianca: il suo volto era candido, argentei erano i capelli, nivea la veste. Nessuno l'amava. Ed essa sedeva sulla cima del monte e guardava innanzi a sè , immobile.

In un villaggio nella valle abitava un pastorello. Quando col trascorrere del tempo il ragazzetto divenne uomo, levò in altro il suo sguardo. Scorse la principessa bianca e partì per portarla giù con sé .
Ma i vecchi del paese lo fermarono: «Dove vuoi andare? Non sai che quelle sono principesse maledette? Che la morte le segue? L'incanto svanisce soltanto se l'uomo passa accanto ad esse e non si volge neppure a guardale , così da non provare alcuna brama del loro amore.»

Il pastore scrollò la testa: «Io ci proverò!»
Da lontano, dietro di sé, gli giungevano ancora le voci dei vecchi:
-Non credere alla rossa, non seguire l'azzurra, non desiderare l'amore della bianca!

Ripido era il sentiero, ma lui non sentiva alcuna fatica: non si soffermò ad ascoltare le parole della principessa rossa, non volse neppure il capo quando la principessa azzurra lo sfiorò, ma proseguì.
Albeggiava quando raggiunse la vetta e davanti a lui, sulla cima, si trovava la principessa bianca. I raggi del sole nascente l'avvolgevano tutta ed il pastore vide o forse avrebbe voluto vedere o credette di vedere che la faccia, il corpo e la veste della principessa si erano colorati di rosa.
Allora egli si prostrò: -Non sei più bianca! Dunque il prodigio è avvenuto! Io posso amarti!
E baciò le labbra fredde che egli bramava...

Nel paese aspettarono invano il pastore.

La principessa bianca siede sulla cima del monte e guarda, immobile, innanzi a sé.


CONFESSIONE
(Vista dal castello Bethlen)



Il giovane signore del castello fu portato a casa moribondo. Lo deposero sul suo letto, poi lo lasciarono solo col confessore, perché dedicasse il poco tempo che ancora gli restava da vivere alla salvezza dell'anima sua.

Il moribondo giaceva fra i cuscini col respiro affannoso e gli occhi chiusi, ma ad un tratto sollevò le palpebre.

Il prete era vicino a lui: -Figlio mio, un grave peccato pesa sulla tua coscienza. Ritorna in te e confessamelo affinché io ti possa assolvere e salvare dall'eterna dannazione.

Il cavaliere alzò un po’ la testa e si mise a parlare a bassa voce:
-Era il giorno del Corpus Domini. Io ero vicino alla chiesa circondato dalla gente del mio villaggio ed aspettavo la sacra reliquia miracolosa che le suore portavano in processione.
Il corteo aveva già oltrepassato il luogo dove mi trovavo, quando un colpo di vento repentinamente sollevò il velo di una sorella. Non la vidi che per un istante, poi proseguì ed io ritornai al castello. Non la vidi solo per quell' istante: da allora in poi mi stette sempre, sempre davanti agli occhi! Padre mio, dalla più alta torre del mio castello si scorge il giardino del monastero. Oh, non trasalire! Da lassù le monache non appaiono che come un piccolo punto bianco che si muove ed io sono corso cento e mille volte sulla torre per vedere solo quel piccolo punto bianco che si perdeva in lontananza. e lentamente nella mia anima s'ingigantiva l'idea che quella ragazza doveva essere mia. In principio il peccato mi ripugnò, ma poi non mi detti più pensiero per quella colpa ed alla fine pensai solo a come riuscire a compierla. Venni a sapere che dopo pochi giorni la ragazza sarebbe stata trasferita al convento di Sant'Agata. La maggior parte dei miei guerrieri era assente, li feci allora raggiungere da un messaggero per invitarli a tornare, ma i preti mi precedettero. Attendevo per la sera il ritorno dei miei guerrieri ma quella mattina, all'alba, vidi che la porta del chiostro si apriva e una bianca creatura ne varcava la soglia. Un gruppo di cavalieri la circondava, la mise in sella e partì. Padre mio, ho visto che me la portavano via. Ed io, slanciandomi sul mio cavallo, galoppai dietro di essa. Pochi dei miei guerrieri mi seguivano. Raggiunsi il manipolo di soldati e uccidendo il cavaliere che s'interponeva fra me e lei, la rapii e la feci salire sulla mia sella. In quel momento sentii un gran colpo alla testa. Non so che accadde poi.

Il prete congiunse le mani per pregare: «Dimmi, figlio mio, il tuo pentimento è sincero?»
La voce del cavaliere divenne più forte: «Padre mio mi sono pentito di ciò che ho fatto.»
Il prete fece un cenno col capo «Continua figlio mio!»
«Mi sono pentito di essermi lasciato trascinare dall'ardore giovanile, di aver assalito la schiera del nemico, scortato da pochi uomini, non aspettando il ritorno dei miei guerrieri per lanciarmi con loro all'inseguimento dei rapitori del mio amore.»
Il prete interruppe sbigottito: «Ma figlio mio, tu vaneggi!»
Il cavaliere però proseguì:
«Mi sono pentito di aver esitato, di essere indietreggiato di fronte al peccato e di non aver rischiato prima cento e mille volte la salvezza della mia anima. Chiunque tu sia, mandato da Dio, dagli uomini o da Satana, ridammi, sia pure per breve tempo, la mia forza, la mia validità ed io ti giuro col più solenne dei giuramenti, che tenterò di nuovo e che questa volta riuscirò!»
Il cavaliere, ricadendo sui cuscini, spirò.



LA DONNA

Era sposata da tre giorni quando suo marito fu mandato in guerra. Essa pianse credendo di morire per il dolore: lo amava tanto, era così fiera di lui, del suo uomo, cosi bello, vigoroso e pieno di ingegno.
Tutte le ragazze del villaggio l'avevano invidiata quando lui la aveva scelta "Avrà una bella vita, non dovrà lavorare troppo, perché quest'uomo guadagna e non lascerà che la sua donna lo mantenga".
Incominciarono ad arrivare le cartoline dal fronte: a volte molto frequenti, a volte meno frequenti, ma ognuna conteneva le stesse frasi: ‘lottiamo, ti penso, come stai?’
La donna ad ogni missiva piangeva di gioia e di dolore ma non sapeva neppure lei perché e continuava ad attenderlo. Il tempo così passò. Poi rimase per lungo tempo senza avere notizie.
Nel frattempo la famiglia crebbe: era nato un figlio, un maschietto. La donna avrebbe desiderato farlo vedere al marito: era così bello, così forte questo suo bambino! Tutti dicevano che sarebbe diventato come il padre. Quando finalmente tornerà, prima di dire una sola parola lo prenderà in braccio. Questo sarà il primo regalo che essa gli serba per il ritorno.
Ma un giorno giunse una lettera dall'ospedale della città.
Suo marito scriveva che era ferito e chiedeva che andasse a trovarlo.
Ma la calligrafia non era sua. Forse era rimasto ferito alle mani e faceva scrivere un altro al posto suo?
La donna prese il bambino con sé e partì.
Arrivò dopo tre giorni. Dovette aspettare a lungo prima che la lasciassero entrare. Salì scale e percorse corridoi, finché una porta si aprì: di fronte ad essa, in un letto, giaceva suo marito. Per la prima volta rivide il volto di lui: pallido e dimagrito, ma era il suo volto noto e caro.
La donna si accostò al letto e gli porse il piccino.
L'uomo si mosse, stese le braccia: non erano più che due moncherini fasciati...
La donna si accasciò presso il letto. Tutto ciò era impossibile, assolutamente impossibile: il suo uomo, bello, forte, vigoroso, lui!
Ora sarà incapace di lavorare, non potrà far nulla da solo, come un bimbo, nulla di più.
Questa parola entrò nel cuore della donna: sì, il suo bambino, che ella amava tanto perché era così piccolo e non poteva far nulla da sé.
La donna si alzò, serrò in un solo abbraccio il suo uomo e il suo bambino, i suoi due bambini... Non piangeva più.
«Posso lavorare io!» sussurrò, piano.




IL PENSIERO


Le mani giunte dietro a sé, il capo chino, lo studioso camminava lentamente davanti alla finestra aperta. Vicino a lui volava invisibile, il pensiero: era giovane e ardito e cercava una mente umana con cui, iniziando il suo cammino, potesse conquistare il mondo. Il pensiero batté alla porta dello studioso.
Questo però guardava in alto, respirando il profumo della primavera che penetrava dalla finestra: scrollò il capo e disse:
-Primavera, giovinezza...Sciocchezze!
Rimettendosi alla scrivania, continuò a sfogliare i suoi vecchi scritti insignificanti.

Il pensiero proseguì il suo volo. Strada facendo incontrò un altro uomo e batté anche alla sua porta. Questi lo avrebbe lasciato entrare, ma la sua testa era piena di preoccupazioni, di cifre e non aveva posto per altro.

Il pensiero continuò il suo volo. Trovò una donna: era bella, sorridente e non aveva preoccupazioni. Ma quando il pensiero volle posarsi su di essa, si perse nel vuoto che dominava, signore assoluto della sua testolina.

Il pensiero continuò allora il suo volo. Incontrò centinaia anzi migliaia di esseri umano e ci provò con ognuno ma era tutto inutile.
Finalmente trovò un uomo, fra tanti e tanti, che era giovane e poeta, e lo accolse. Il pensiero crebbe, divenne sempre più bello, più grande e più ardito, finché riempì interamente l'anima del giovane. Lui lo gridò all'universo. Il pensiero dominò il mondo.

Gli uomini si fermarono, guardandosi stupiti, e si domandarono:
- Da dove ha preso costui questo pensiero?
Scrollando le teste, proseguirono per la loro via.
Sopra di essi il pensiero volava ad ali spiegate.




FAVOLA DI UNA RAGAZZA CHE NON VOLEVA PIANGERE

Visse una volta una ragazza che non voleva piangere. Aveva circondato il suo cuore con una spessa corazza di ghiaccio per non sentire e non avere mai dolori. La ragazza percorse il cammino della vita e quando gli altri piangevano lei rideva. Sorrideva se la amavano, rideva se la odiavano. Si sganasciava poi dalle risa quando volevano uccidersi per lei. Ma un giorno anche la ragazza giunse alla soglia della morte.
L'angelo che custodiva la porta le venne incontro:
-Dove sono le lacrime che hai pianto in vita?
La ragazza lo guardò contrariata:
-Io non ho lacrime!
L'angelo alzò la mano e le sbarrò la strada:
-Devi tornare alla vita da cui sei venuta, perché qui è vietato entrare per chi non ha versato tutte le sue lacrime.
La ragazza ritornò ed un giorno il destino, passandole accanto, le toccò il cuore sciogliendone l'involucro di ghiaccio. Il suo cuore allora sentì, provò dolori, si contorse e avrebbe voluto urlare e singhiozzare forte quando gli uomini spensierati e ridenti lo calpestavano. Ma la ragazza non volle piangere e le sue lacrime caddero così nel cuore che bruciava. Solo qualche volta durante il sonno uscivano dalle sue palpebre, sì che svegliandosi ne aveva tutto il volto intriso.
Quando il suo cuore fu traboccante di lacrime, la ragazza tornò alla soglia della morte:
«Dove sono le tue lacrime?" chiese l'angelo.
Ma la ragazza non rispose. Accennò soltanto al suo cuore, mentre l'ultima lacrima le scendeva ancora giù, dentro il cuore che bruciava.
Questa lacrima era così cocente e così pesante che il cuore non ne sopportò il peso, e si infranse e le lacrime che erano dentro scorsero ai piedi dell'angelo.
Egli prese in braccio la ragazza ed aprì innanzi a lei la porta della morte.








L'ANIMA DELLA ROSA

Il giovane e la ragazza si trovavano nel giardino fiorito delle rose.
Stavano uno di fronte all'altro con le mani nelle mani. Il giovane disse:
«Ti voglio bene! Dimmi che mi vuoi bene anche tu!»
La ragazza rispose con un filo di voce:
«Ti amo!»
Le parole svanirono ma l'anima della rosa le aveva raccolte e assorbite profondamente nel proprio calice.
Il giovane partì per la guerra, combatté e cadde.
La ragazza lo pianse finché giunse l'autunno: piangeva durante tutta la giornata sotto le foglie che cadevano e piangeva di notte mentre fuori urlava impetuoso il vento. Poi arrivò l'inverno e una bianca coltre di neve coprì l'intero creato. Il bianco velo si stese anche sul cuore della ragazza e la ammutolì pian piano, lentamente fin quando si addormentò. Ma quando i bucaneve sbocciarono con le loro candide testoline dalla neve, anche il cuore della ragazza si risvegliò. La fanciulla si guardò intorno cercando colui che amava tanto, ma quando si accorse che cercava in vano donò il suo cuore ad un altro uomo che le stava vicino.
Quando l'estate portò con sé le prime rose, la ragazza divenne donna: era ora di un' altro uomo. Una sera era con lui vicino al giardino fiorito delle rose. La donna si chinò per sentire il profumo dei fiori: l'anima della rosa dischiuse il suo calice da cui volarono in alto le parole che erano state pronunciate un giorno lontano. La donna stava lì, piegata sulla rosa, aspirando il profumo dei ricordi passati e sul suo viso scese lentamente una lacrima.
L'uomo la guardò:
«Perché piangi?»
«Non so» rispose la donna a voce bassa.








IL CUORE DELLA FATA


Lei era una fata bella e giovane. Quando intraprese la strada che tutte le fate devono percorrere nella loro vita, suo padre, il re delle fate, le disse:
- Vai tra gli uomini. Tu non li conosci, dà retta a me: essi ti chiederanno delle cose e tu le dovrai dare. Sei una fata e perciò devi dare. Ma non dare tutto ciò che hai: alterna le cose buone alle cattive. La tua strada è lunga e non puoi fare ritorno fra di noi finché il tuo tempo non sarà trascorso.
La fata partì. Il primo uomo che incontrò era un giovanotto: sorrise e tese le sue mani verso di lei. La fata dimenticò il consiglio paterno e premendosi repentinamente la mano sul cuore sussurrò:
"Non tutto"
Ma l'uomo la guardò e le disse dolcemente: "Ti amo!"
La fata gli diede tutto il suo cuore
«Mio padre non se ne intende. Lui non conosce gli uomini. Io ricevo in cambio del mio cuore il suo cuore, che ora appartiene tutto a me poiché ha detto che mi ama.»
Ma quando l'uomo ebbe stretto tra le mani sue l'intero cuore della fata, partì per conquistare un altro cuore.
La fata rimase sola e continuò il suo viaggio sfinita, con la luce infranta negli occhi. Ma il suo volto era bello e il suo corpo giovane e gli uomini nei quali si imbatteva stendevano supplici, implorando, le braccia verso di lei. La fata era costretta a dare, e così dava a loro ciò che era rimasto nel vuoto del suo cuore: amarezza, dolore e malinconia.
La fata continuò il viaggio che doveva percorrere e nessuno vide mai una lacrima nei suoi occhi, né un sorriso sulle sue labbra. Gli uomini, ai quali andava avvelenando la vita, si inginocchiavano davanti a lei scongiurandola:
«Ma non hai cuore tu?»
Lei alzava la testa, li guardava:
«L'avevo.»




IL TENENTE


Il convoglio avanza lentamente in una notte con la luna chiara. E' un treno di soldati: ogni vagone è pieno di fanti. Vanno in guerra. Si avvicinano sempre di più al settentrione, dove, fra pochi giorni, si troveranno di fronte ad altri uomini e dovranno uccidere con le baionette, all'assalto, mentre essi saranno battuti dalle raffiche del fuoco nemico. Le ruote cantano: "Perché, perché, perché?" Una stazione. Il treno riprende il suo rollio smorzando la fine della canzone.
Nel fondo, nella vettura degli ufficiali, un tenente è seduto vicino al finestrino: ha tentato invano di dormire, preferisce guardare il paesaggio fuori, nel chiaro della luna: quanto è quieto e tranquillo tutto! E dopodomani anche lui guiderà i suoi fanti all'assalto, anche lui combatterà, darà il suo braccio per battere il nemico! Oh magari fosse già giunto!
Quanto candida splende la luce della luna! Brilla come l'altra sera, quando è stato per l'ultima volta da loro per accomiatarsi! No, non da loro. Da lei! Perché è andato solo per lei, per vederla ancora una volta, e per dirle ciò che finora non aveva osato, per dirle che la ama. Senza di questo non avrebbe potuto andarsene.
Lo ama anche lei? E’ vero, non ha risposto, ma non ha forse accostato il viso quando egli si è chinato su di lei baciandole le labbra?
O forse ha fatto così perché era un addio?
Verrà il giorno in cui potrà sapere tutto, o dovrà morire senza sentire da lei questa piccola parola, per cui vale la pena di vivere e di morire? Perché non poteva aspettare un altro giorno? Forse allora avrebbe avuto la risposta.
Le ruote cantano indifferentemente: "perché, perché, perché?"
Il treno rallenta. Dalle prime carrozze giunge a brani la canzone: "E' arrivato l'ordine di arruolarsi. Tutti devono partire!" Il treno è già lontano. Davanti al finestrino aperto sta, coi pugni chiusi, il tenente e guarda con gli occhi sbarrati nella notte di luna chiara.





LETTERA DAL FRONTE

Cara! Non offenderti con me perché ti chiamo così. Lo faccio per la prima e ultima volta. Tu sai che io ti amo? Non ne sono tanto sicuro. Tu sei entrata nella mia vita con un sorriso che mi è stato più caro di tutto quelli che gli altri mi hanno dato.
Ti ringrazio, cara, del sorriso che mi hai donato. Tu non puoi sapere che cosa sei stata per me. Non ho mai avuto il coraggio di confessarti il mio amore. Non mi sentivo degno di te! Pensavo che un giorno sarei tornato dalla guerra, dopo aver combattuto con tutto il mio ardore e forse allora, un giorno....Ma la sorte non vuole che sia così. Non importa! Ti ringrazio cara per averti potuto conoscere.
Tu sei stata nella mia vita la bellezza, la purezza, l'amore.
Tu sei stata il mio sogno e la mia realtà! Tu sei stata la mia speranza!
Non piangermi. Tu mi hai dato la felicità. Ti ringrazio cara per averti potuto amare.






LA FELICITA' INASCOLTATA


Il ragazzo e la fanciulla erano vicini. Avevano sempre giocato assieme. Avevano intessuto insieme i loro sogni.
Il ragazzo disse in un giorno di primavera:
« Andiamo nel bosco, dove non siamo mai stati, a vedere cosa c'è.»
Quindi si addentrarono nel bosco.
Il bosco era grande e fitto. Il muschio sotto i loro piedi era verde, il fogliame sopra le loro teste era verde e verde era anche l'aria intorno a loro. Attraverso il fogliame fitto, qua e là un raggio di sole penetrava attraverso piccoli spiragli rotondi. I due ragazzi procedevano tenendosi per mano, stretti uno all'altro, attraverso la foresta immensa e silenziosa. A loro sembrava di penetrare nelle profondità di un verde oceano.
Ad un tratto gli alberi iniziarono a diradarsi. I ragazzi raggiunsero una radura luminosa. Nel bel mezzo della radura c’era una fata con un fiorellino azzurro tra le mani.
"Questo è il fiore della felicità" disse "Curatelo col sorriso, con parole dolci, innaffiatelo con la rugiada dell'amore, perché non muoia".
Appena finì di dire ciò che aveva da dire la fata sparì. Il fiore restò tra le mani dei ragazzi. Loro tornarono a casa attraversando la grande foresta di color smeraldo, portando il fiore della felicità. I loro passi erano lenti, non parlavano, solamente qualche volta si guardavano di sfuggita, sorridendo silenziosamente.
A casa cercarono il loro tesoro più gelosamente custodito: un vecchio e bellissimo cofano. Vi piantarono il fiore della felicità. Lo nascosero bene così che nessuno lo vedesse e lo curarono tutti i giorni col sorriso e con dolci parole e lo innaffiavano con la rugiada dell'amore.
Arrivò però l'estate e il ragazzo andò a passare le vacanze con i suoi compagni molto lontano, dove la ragazza non poteva seguirlo. Pure la ragazza ebbe tante faccende da fare che le impedirono di prendersi cura del fiore della felicità. "Un'altra volta ... più tardi...c'è ancora tempo!"
Passò anche l'estate. Venne l'autunno, il freddo, la pioggia...
Il ragazzo e la ragazza si incontrarono nuovamente. Solo allora si ricordarono del fiore della felicità che avevano trovato un giorno, quando nella foresta verdeggiava la primavera. Aprirono il cofano, per ritrovare il fiore e curarlo col sorriso e con parole dolci ed innaffiarlo con la rugiada dell'amore... Ma nel cofano giaceva innanzi ad essi, morto, il fiore della felicità...
Il ragazzo e la ragazza rimassero immobili, uno in fronte all'altro: si guardarono, ma né l'uno né l'altra disse una parola...





L'INFEDELE


Una donna amò un uomo. Lo amò e gli diede la pace e la salvezza della sua anima. E se avesse avuto ancora qualcos'altro glielo avrebbe offerto senza esitare.
L'uomo la ripagò con alcuni baci e un po' di disprezzo. Fin quando un giorno trovò eccessivo anche questo e abbandonò la donna.
Questa in principio voleva morire, poi credette di impazzire per il tormento che sembrava durare eternamente. Ma non morì e non divenne pazza.
Un giorno s'accorse che lo spasimo era passato e con esso anche l'amore.
Dopo lungo tempo amò di nuovo ed ebbe nuove preoccupazioni. Non penso più al primo uomo, il quale non le perdonò mai questa sua infedeltà.








LEGGENDA D'ISLANDA

Molto lontano, lassù nel Nord, viveva la Regina delle Nevi. Da una parte si stendeva un immenso prato, dall'altra si ergeva un monte altissimo. Ma da tutte le parti un manto di neve copriva ogni sembianza di vita. Là viveva la Regina delle Nevi, muta e bianca, da centinaia, da migliaia di anni. Non piangeva e non rideva. Ella non soffriva per nulla , ma non provava neppure mai alcuna felicità.
Non aspettava niente. Stava solo là.
Sotto di lei, giù nel profondo della terra, viveva il Re del Fuoco. Intorno a lui ondeggiava un mare di fiamme, ma egli non sentiva il loro bruciante calore. Nella sua anima ardeva più focoso di ogni fuoco il desiderio di una cosa grande: ella, sconosciuta. E un giorno uscì dalla porta della sua prigione e si lanciò verso l'alto.
Gli apparve il giorno sulla cima di una montagna, e guardando in basso vide innanzi a sé la Regina delle Nevi.
Il Re del Fuoco si gettò ai suoi piedi e disse:
«Chi sei tu? Chi sei tu, cosi diversa da me? Tu sei così fredda, così candida. Non ti ho mai vista, sei più ammaliante di un sogno, ti amo! Amami anche tu!»
La Regina delle Nevi rispose:
"Se tu mi ami morirai E morirò anche io! Il Re del Fuoco e la Regina delle Nevi non possono baciarsi impunemente sulle labbra! Si dice che vivere è bello. Vivi dunque e lascia vivere anche me!"
Il Re del Fuoco però si chinò su di essa:
"Ti amo! E se il prezzo fosse la morte, ti amerei lo stesso!" ed abbracciò forte la Regina delle Nevi e la baciò sulle labbra con bruciante ardore.
Lei non poté, o non volle resistere.
All'alba non c'era più la Regina delle Nevi e le vampe del Re del Fuoco si erano spente per sempre.
Povera! Povera? Chi lo sa? Forse è meglio morire fra le braccia del Re del fuoco che vivere per cento e mille anni freddamente, candidamente, sola...



LE CAMPANELLE

Questa storia accadde molto tempo fa. Una cappella fu eretta sulla collina e un eremita si prese come dimora un tugurio preso la cappella. Gli uomini del villaggio salivano qui quando avevano delle pene nel cuore. Venivano a cercare il conforto ai piedi dell'altare e portavano con sé i loro bimbi perché l'eremita li battezzasse. Per il resto egli era sempre solo. Digiunando e pregando cercava il suo Dio.
Un giorno, uscendo dalla cappella, venne da lui una giovane donna che portava un bimbo fra le sue braccia.
"L'ho portato perché lo battezzi» disse, porgendogli il figlio
L'eremita lo guardò:
"Chi sei tu? E chi è il padre di questo bambino?"
La donna abbassò gli occhi:
"Io sono un'orfana abbandonata e mio figlio non ha padre"
Il servo di Dio alzò la mano accennando che non poteva:
"Io non posso battezzare il figlio del peccato!"
La donna si prostrò innanzi a lui:
"Non lo cacciare nell'inferno!Egli è innocente! Io ho già avuto il mio paradiso sulla terra, ed è giusto che sia dannata nell'al di là! Egli mi ha amata, ma mi ha detto che non sarebbe ritornato mai più. Io sono caduta lo stesso in peccato e non me ne sono pentita! L'ho amato. Ed egli è stato felice. Ma il bimbo è innocente. Abbi pietà di lui!
Il volto dell'eremita rimase impassibile:
"E' vero, egli è innocente. Vieni, ma domani all'alba, che nessuno ti veda: vieni di nascosto, umilmente, senza scampanio di festa, ed io lo battezzerò in nome del Dio della misericordia!"
La notte passò. L'eremita pregò in ginocchio vegliando davanti al suo tugurio: cercava il suo Dio.
Quando i primi raggi dell'alba inondarono il tetto della cappella, il suo orecchio fu colpito da uno scampanio, prima piano, leggero, lento, sommesso, poi sempre più forte. Sollevò lo sguardo: il pendio era cambiato. Nuovi, strani, fiori azzurri lo coprivano tutto e tra i fiori avanzava lentamente, a capo chino, umilmente la donna. E dappertutto dove posava i piedi, tenendo il bambino non ancora battezzato tra le braccia, tintinnavano sommessamente, poi trionfalmente, risuonando come un inno, le campanelle del Signore.



DUE PUPAZZI DI CARTA


C'erano una volta due pupazzi di carta: un pupetto e una pupetta. Sono stati fatti di bella e resistente cartapesta, e nella loro testina e intorno al loro cuore avevano messo un pezzetto di piombo per renderli più pesanti. La loro dimora era sulla tavola, davanti al camino. Il loro padrone era un ragazzetto di nome Andreuccio.
Un giorno Andreuccio portò a casa una bambina e nella sua stanza le mostrò tutti i suoi giocattoli: poi, arrivando ai pupazzi di carta disse:
-Guarda Marietta, questi non sono pupi comuni. Questi sentono e capiscono tutto. Ma se qualcuno sta qui, essi non vogliono parlare. Io li ho già visto sussurrarsi e bisbigliarsi all'orecchio quando credevano che io non badassi a loro.
Marietta si mise a ridere:
" Ma che stupidaggini stai dicendo? Credi forse che io sia così piccola da potermi dare a bere queste fandonie? E inutile che tu mi racconti delle favole ".
Andreuccio stava per rispondere quando sua sorella, che era già una signorina, entrò col fidanzato e i due ragazzetti furono mandati fuori. La fidanzata si sedette di fronte al suo promesso sposo e, prendendosi le mani, i due si baciarono. Il fidanzato le chiese:
«Mi ami?»
Ed ella rispose:
«Ti amo!»
e ripeterono il gioco parecchie volte.
Poi anche loro andarono via.
La sera, prima di coricarsi, Andreuccio sussurrò ai pupazzi di carta:
«Ma io so bene che voi siete vivi e che non volete parlare.»
Quando poi tutto si fece silenzio nella casa e solo il fuoco ardeva nel camino con piccoli crepitii, la pupetta di carta disse sommessamente:
«La fidanzata e il fidanzato si sono baciati e hanno detto: "Mi ami?" "Ti amo" Perché hanno fatto questo?»
Il fanciullo di carta rispose:
«Non lo so. Io non mi intendo di queste cose!»
Allora dal camino balzò un folletto rosso, che gli uomini chiamano scintilla, danzando e ridendo:
«Ha ,ha ha,- ha ha ha! Voi non capite queste cose perché avete del piombo nella testa e nel cuore: il piombo è duro e insensibile! Venite con me nel fuoco! Là è bello. Là c'è caldo. Là le vostre teste diventeranno ardenti, ardente diventerà il vostro cuore, e sarete come sono la fidanzata e il fidanzato. Venite da noi, venite da noi!»
E il piccolo folletto rimbalzò nel fuoco.
Il pupetto e la pupetta di carta si guardarono poi, piano piano, prudentemente scesero dalla tavola e si avvicinarono al camino.
Poiché ne aveva quasi raggiunto il bordo, il pupetto si fermò:
-Ma noi siamo fatti di carta! Se entriamo nel fuoco, saremo bruciati.
La pupetta però lo prese per mano e chiudendo gli occhi:
-Ardente sarà la nostra testa, e ardente il nostro cuore, e saremo come i due fidanzati!
Ed entrarono nel fuoco. I due pupi erano fatti di buona, resistente cartapesta, quindi non presero subito fuoco ma con il calore si sciolse il piombo nelle loro teste e divenne incandescente, poi presero fuoco dentro dove c’era la cartapesta e ad un tratto, da essi si levò con splendore abbagliante la fiamma.
I piccoli folletti, che gli uomini chiamano scintille, danzarono intorno a loro ridendo a squarciagola:
-Ha, ha , ha - ha , ha , ha! Essi ardono, e credono di essere come lo sposo e la sposa!
Ma il piccolo ragazzo e la ragazzetta di carta non li sentivano già più! Essi stavano l'uno di fronte all'altra , e tenendosi per mano, si baciarono e dissero:
-Mi ami tu?
-Ti amo! Ti amo! Ti amo!






LA FIGLIA DEL VENTO

La figlia del vento si trova molto in alto. Le nuvole sono lo strascico della sua veste. Non ha mai pace, non può mai sostare in alcun luogo: va, va sempre senza tregua. Non conosce riposo, non sente fatica. Guai a colui che ascolta il suo richiamo, guai a colui che intravede lo sventolio delle sue mani bianche: egli sarebbe perduto! Dovrebbe correre dietro ad essa e sarebbe a lei legato con un filo invisibile per l’eternità.
Nella immensa pianura abitava un pastorello. Sorvegliava il gregge e, steso sui prati per giorni interi, osservava il volo delle nubi. A volte gli sembrava che una mano bianca lo invitasse tra le nuvole. Una notte, mentre un immenso silenzio regnava sulla pianura addormentata, l'aria incominciò a soffiare intorno a lui. Prima piano piano, poi sempre più forte, fischiando e sibilando. Infine gli urlò nell'orecchio.
- Vieni con me, Vieni con me!
Il giovane si alzò e andò sulle orme delle nubi, senza meta, attraversando mari, deserti. Sempre avanti, là dove lo chiamava la voce affascinante, dove lo chiamava la mano bianca.
Ora la vedeva sopra i monti e quando arrivava sulla vetta, essa era ormai lontana, oltre le vallate.
Egli la seguiva con fiducia, con speranza: forse oggi, forse domani....
Passarono gli anni. Il ragazzo era già divenuto uomo, e andava ancora senza riposo attraverso le pianure e i monti, sulle orme delle nuvole, quando un giorno arrivò in una valle dove vicino alla porta di una casupola c’era una donna. L'uomo la guardò, e dopo tanti tanti anni sentì per la prima volta di essere stanco e posò la testa sul petto della donna.
Passò ancora del tempo e l'uomo viveva felice in quella piccola valle silenziosa. Ma una notte sobbalzò nel sonno:
"Che cos'è?"
La donna gli prese le mani
"Niente! Che hai? Solo il vento mugghia sulle vette..."
L'uomo la abbracciò strettamente, con terrore e passione, sussurrando tra sé:
"Il vento! La figlia del vento! Sento la sua voce!"
Da allora in poi la sentì ogni notte, in seguito anche durante il giorno. Prima come un sussurrio dolce: "vieni con me! Vieni con me!" Poi sempre più forte, insistente, selvaggia, fischiando, sibilando, soffocando ogni altra voce. Una notte la bianca mano si stese dall'alto su di lui e lo rapì
Giù nella casetta piangevano abbracciati la mamma ed il figlio che non aveva più padre, mentre in alto rideva sibilando la figlia del vento, che trascinava con sé il suo amante riconquistato.





ANIME UNITE


Un uomo e una donna si amarono ma poiché non avevano potuto congiungersi in vita, si unirono nella morte. Furono ritrovati dopo tre giorni nel canneto fiancheggiante il fiume. Erano abbracciati. Li divisero e furono sepolti in tombe diverse: l'uomo nella tomba di famiglia, la donna in un piccolo cimitero paesano, fra le sepolture senza nome, senza una cerimonia, come si fa con i suicidi.
Le due anime stavano ora davanti al Sommo Giudice, così strettamente congiunte che neanche lo sguardo dell'Eterno Padre poteva separarle.
Iddio li scrutò, poi fece cenno ai suoi angeli:
«Dividete questi due, perché possa giudicarli.»
Gli angeli con tutto il loro potere e la loro infinita bontà cercarono di eseguire l'ordine, ma non vi riuscirono. Perciò chiamarono in aiuto tutti i loro confratelli e tutti gli abitanti del cielo e con tutto il calore del loro amore e con tutta la forza della loro volontà cercarono di sciogliere e di dividere quelle due anime avvinghiate. Ma tutto invano!
Allora Iddio ordinò:
«Portateli all'inferno! Forse il demonio riuscirà a fare ciò che voi non avete potuto!»
Li portarono all'inferno e li consegnarono a Satana. Satana alzò il suo scettro e tutti i diavoli si lanciarono su di loro, non dolcemente come gli angeli, ma tirando ferocemente, tentando di strapparli l'uno dall'altra. Misero in atto, fino all'estremo delle loro capacità, tutte le torture dell'inferno. Ma nemmeno così riuscirono a dividere le due anime.
Alla fine Satana chinò il capo superbo e disse:
«Riportateli da dove sono venuti! Qui non possiamo tollerare qualcuno che sia più forte di noi!»
Le due anime ritornarono davanti al Tribunale del Padreterno, dove, tremando, si prostrarono ma non si divisero aspettando il giudizio:
Dio alzò la mano:
«Voi due, che siete uno, e che siete più forti della morte, che siete stati esiliati dal cielo e non siete stati accolti dall'inferno, voi che, benché tremanti, avete avuto il coraggio di sfidare la mia decisione, voi girerete per il vuoto celeste, abbandonati da Dio, dagli uomini , dagli angeli e dai demoni, sempre soli ma sempre uniti!»




LA DONNA ALL'INFERNO

Visse una volta una donna. Poi morì. Le sue conoscenti, tornando dal funerale, stabilirono di comune accordo che nel frattempo la donna fosse già arrivata all'inferno.
Le donne che non avevano mai peccato esclamarono “Povera donna!”.
Quelle invece che avevano peccato, ma non da così lungo tempo da essersene dimenticate, sentenziarono: “Lo meritava!”

Le sue conoscenti questa volta non avevano torto: la donna veramente si trovava già all'inferno.
Prima, come si usa, le passarono in rassegna la vita: lei sentì di nuovo che nella sua esistenza non aveva vissuto solo il lato bello, puro e nobile della vita. Aveva sposato un uomo da lei amato, stimato e onorato, essendone adorata e malgrado tutto ciò si era innamorata di un altro. Invece di sradicare dal suo cuore questa passione peccaminosa, ci si era abbandonata senza esitazione, ingannando il marito.
E ricordando tutto questo, le chiedevano se fosse vero. Ed ella faceva cenno col capo di sì.
Quindi le domandavano se ritenesse giusto e meritevole il castigo per questi suoi peccati. Ed ella faceva cenno col capo di sì.
Quindi le domandavano se ritenesse giusto e meritevole il castigo per questi suoi peccati.
Ella assentì di nuovo senza dire una parola. Infine la destinarono all'inferno.

L'inferno è un luogo dove ognuno riceve la pena secondo le proprie colpe: chi sulla terra è stato uno strozzino dal cuore freddo, sarà dannato a gelare per l'eternità fra i massi di ghiaccio del suo stesso cuore, mentre chi ha peccato perché il suo cuore è stato ardente, sarà tormentato ed arso dalle vampe del proprio cuore.

La donna era all'inferno e intorno e dentro di lei ardevano con fiammate incandescenti le sue memorie, i suoi peccati e il suo amore. La bruciavano, la tormentavano e la torturavano senza concederle tregua per un solo istante, né giorno né notte.

Ma un giorno andò da lei un angelo: le sue ali lunghe e bianche lambivano la terra. Egli alzò le mani benedicendola e disse: «Dio è grande, misericordioso e potente. Ha dato uno sguardo al tuo cuore e ha visto che, malgrado i tuoi peccati, non sei una donna malvagia. E ti ha perdonata. Mi ha permesso di venire da te e di portarti via da questo luogo in cui soffri. Puoi venire con me nel paradiso, dove potrai dimenticare tutto, dove troverai la pace e sarai felice!»
La donna lo guardò:
«Io dimenticherò tutto? La mia vita, i miei peccati e anche il mio amore?»
L'angelo sorrise benevolmente:
«La pietà divina è infinita! Dimenticherai tutto: la tua vita, i tuoi peccati e il tuo amore!»
La donna reclinò il capo e rispose:
«Io resto qui!»









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