venerdì 10 aprile 2015

Leggende della Transilvania




IL LAGO DELLE FATE
Jókai


Nella terra dei székely  esiste una valle riparata, da anima viva mai abitata,   dove nulla disturba la splendente quiete delle notti stellate, forse solo  lo strillo del uccello selvatico ovvero l'incessante turbinio delle semprevive acque.
Scure giammai avea ferito questi maestosi alberi,  giammai cacciatore avea inseguito la selvaggina che qui dimora. Dalla notte dei tempi sacra fu questa valle per ogni creatura.
Da tempi immemori gli alberi secolari, arrivati alla fine del loro destino, crollavano uno sull’altro, marcivano, diventavano polvere, dai loro cumuli si ergeva un  altro albero, che a sua volta  tendeva verso il cielo stellato, s'innalzava per centinaia di anni fino a quando anch’esso divorato dai tempi e mangiato dalle tarme crollava, senza che nessuno si rendesse conto. I cumuli dei tronchi degli alberi marciti hanno intassato  l’alveo dell’ allegro e tintinnante torrente montano e siccome il marciume delle piante fu coperto dal muschio e dai fiori di montagna oggi sembra che il ruscello a volte sparisce sotto terra per ritornare nuovamente alla luce più alla valle.

Sulle cime di un' alta collina rotonda si trova un posto incantato; vasta regione alpestre coperta da altissima erba di color rosso-marrone cresciuta attorno al muschio verde, sui stelli di queste piante si sono avvolte le liane biancastre di una pianta con fiori pallidi che non si trova in altri posti. Se magari qualcuno desidera cogliere uno di questi strani fiori oppure calpesta l’erba, sente subito la terra affondare sotto i suoi passi, come se non terra fosse ma solo uno spesso tessuto che naviga sulle acque. Se l’infelice insiste a proseguire nelle sue intenzioni, su questo ingannevole campo, in un battibaleno l’erba si apre sotto i suoi piedi. Non gli resta altro che urlare ma invano chiama tutti i santi in aiuto; peggio per lui, perché quanto più prega, tanto più è trascinato nelle profondità. L’ingannevole campo si rileva una rete di radici, muschio, liane che intrappolano i piedi e le mani: lo sventurato invano si agita per scappare, siccome le verdi radici, le alghe, le liane gli si stringono attorno e lo trascinano iremediabilmente verso il profondo portandolo nelle acque senza fondo. Neanche una bolla d’aria torna dietro di lui.
Si possono scorgere innumerevoli laghetti alcuni più piccoli altri più grandi su quest’immenso altopiano così pericoloso;  alcuni di loro sono appena più larghi  di una comunissima vasca da bagno e se qualcuno rimira questo prato verde- marrone dalle vette delle montagne vicine ha l’impressione di essere  guardato e invitato da decine e centinaia di splendenti occhi azzurri.
E’ meglio guardare  solo da lontano.

Al di là della foresta, oltre la montagna, nel fondo di una valle circondata dalle rocce, giace  il lago di Sant’Anna, un occhio di mare tanto profondo e  quieto. Attorno ad esso veglia l'impenetrabilmente scura foresta di abeti.
E’ così tranquillo, così silenzioso tutto intorno, come se l’intero paesaggio fosse appena sorto dalle sponde del mare, invece quante cose sono successe qui!
Al sognatore potrebbe sembrare che tutto questo sia avvenuto  appena ieri o l’altro ieri. Ma questa è una storia di tempi immemori, di cui  si sta perdendo perfino il ricordo.

Tanto tanto tempo fa questo lago, come  quello più in alto,  ormai  coperto di erba,  era l’impero delle fatine dell'acqua. Il verde imperatore delle acque con barba lunga fino alle ginocchia, remava fino alla sponda con la zattera fatta di tifa, in compagnia delle sue figlie, le fatine con capelli biondi  che giocavano tutto il meriggio nei caldi raggi del sole. Le fatine facevano altalene con le foglie, giocavano a  nascondino tra le campanule alpine, bevevano nettare di rugiada dalle corolle di mughetto, sfidavano i grilli e altri insetti fastidiosi che  facevano loro la  guerra, poi cavalcavano  sulla farfalla con occhio di pavone, si prendevano gioco dal brutto ragno, con le loro forti braccia riuscivano a distruggere la ragnatela che giocava  nei colori dell’arcobaleno e con la quale il ragno soffocava le povere mosche, infine con  questi fili tessevano le loro vesti che le stavano a pennello.
In tutto questo tempo, il re delle acque,  più vecchio del mondo, riparava in un nido dentro l’albero per oziare, non dava noia a nessuno, nella sua barba brizzolata crescevano funghi, nei suoi capelli cresceva il muschio e le sue mani erano giallastre tanto da sembrare  la corteccia di un albero.
Invece le sue figlie erano tutt' un altro mondo: erano bellissime. La neve non era mai talmente  bianca come la loro pelle, il cielo sereno non era mai talmente azzurro come i loro occhi, le loro chiome bionde sembravano un tessuto d’oro.
Si pettinavano i capelli ondulati  con pettini fatti di conchiglie, intrecciavano corone di fiori di giglio e di nontiscordardime e cantavano in maniera talmente  affascinante che l’erba e gli alberi si fermavano per sentirle, perfino gli uccellini cinguettanti tacevano per ascoltarle ed imparare il loro canto.

Capitò invece una volta che degli umani visitino questo posto. Loro furono colpiti all’instante della bellezza, della quiete e della solitudine di questo posto al punto tale da pensare che,  sarebbe stato  un ottimo posto  per magnificare Iddio, ed alzarono proprio là una cappella in onore di Santa Anna. La eressero là nel fondo della valle, sulle sponde dell’occhio di mare, la consacrarono con grande fasto e tanta cerimonia. Nel campanille misero una campana tintinnante e da allora in poi anno dopo anno accorrevano da tutte le parti  i pellegrini nella terra dei szekely all’incantevole cappella sul lago di Sant’Anna. I penitenti e i sofferenti si fermavano per settimane per pregare. Lontani da ogni abitazione umana,  trovavano la quiete e la consolazione  per la loro anima, raccogliendo le  forze per la strada di ritorno nel mondo.
La cappella era sempre custodita da un eremita vecchio quanto il mondo, che faceva suonare la campana tre volte al giorno.  Al pellegrino smarrito e stanco dal cammino fatto, il tintinnio della campana, che si udiva nell’antica foresta sembrava un canto celeste, un balsamo per il suo cuore.
Invece codesto tintinnio non risultava affatto gradito al verde re del lago; il popolo delle fate è insofferente al suono delle campane; essi volano via, si nascondono appena lo sentono.  Le fate del lago non ebbero più  il coraggio di salire sulla sponda del lago di  Sant’Anna, non potevano  più risalire alla luce né riscaldarsi i loro corpi diafani e non  potevano pettinarsi le chiome bionde nei raggi del  sole. I canti dei  salmi e il tintinnio delle campane le cacciarono via. Tutte si ritirarono nell’ occhio di mare che si trovava  sull’altura, in quanto questo sotto la montagna era comunicante  col lago della valle.

Per non sentire più il tintinnio fastidioso delle campane, i piccoli fantasmi si misero a tessere dalle liane, ranina e altre radici acquatiche, un tessuto che copriva la superficie dell’acqua. Tessevano senza sosta, anno dopo anno il tessuto diventava sempre più spesso, lo coprì  il muschio e crebbe anche  l’erba sopra di esso,  somigliava perfettamente a un prato, soltanto che le radici delle piante si trovavano in acqua .
Le ingegnose fate lasciarono solo qualche finestra nel miracoloso tessuto, una finestra ampia e rotonda perché  il sole potesse  penetrare nel profondo del lago  e perché le fate potessero salire  sulla superficie dell’acqua per vedere cosa succedeva  nel mondo. Questi occhi di mare non furono mai coperti d’erba.
Tuttavia il suono della campana arrivava  perfino così  fino a loro. Il re dell’acqua si strappava la barba per la furia; le affascinanti fate piangevano  tutta la sera dalla disperazione, cosicché i pastori non ebbero più  il coraggio di portare a pascolare le loro greggi, gli strani suoni li inquietarono assai .

Successe inoltre che un  massaro székely assunse un mandriano  e nonostante lo avvertì di stare alla larga dai cespugli di more. Ma colui giacché si sentiva più furbastro, portò il  gregge proprio da quelle parti. Quando calò la sera, egli accese un fuoco e vi si sdraiò accanto. Appena  riuscì ad addormentarsi ché fu risvegliatò da un urlo staziante che sembrava il mugghio di un toro
pensò che fosse qualche toro cacciato via o che aveva  smarrito la sua mandria e che poteva  prendersela con i suoi animali; prese la sua mazza e  s'incamminò nella direzione del suono.

Non trovò invece alcun toro. Affondò solamente  fino alle ginocchia in qualche che melma, da dove solo a stento riuscì a uscir fuori  e tornarò bagnato fradicio sulla terraferma. Il suono di toro proveniva da un’ uccello acquatico, oramai si sentiva più lontano e  chiamava  il giovanotto  a seguirlo.  Egli invece non lo seguì, ma  ritornò al  fuoco che aveva  lasciato incustodito, e siccole si era spavento da morire non riusciva a  smettere di recitare varie parolacce.
Quando invece cercò la sua giuba di pastore che lasciò accanto al fuoco, si accorse che un essere fatato vestiva  il suo mantello.  Era un nano vecchio come il cucco, con la barba fradicia  che arrivava per terra, vestito di verde, con la capigliatura piena di muschio e di alghe che si scaldava le mani cerule  e scorzose al suo fuoco.
Il giovanotto aveva udito tante cose a casa sua sugli spiriti e fu tanto contento di averne incontrato uno che gli chiese: “cosa mi hai portato di buono?”
 “Un moggio d’oro e un sacco d’argento” disse il re delle acque mentre torceva l’acqua della barba inzuppata.
“Cosa vuoi in cambio?” domandò il pastore.
“Voglio che mi porti la campana della cappella di Sant’Anna e che la scaraventi nel lago, là  in quel posto dove l’ abete alto e rosso fuoriesce dai cespugli di more. Sui rami di quell’ abete troverai un sacco d’oro ed un sacco d’argento. Nessuno li  può  prendere all’ infuori di colui che io guiderò fin là. La faccia del  giovanotto s’illuminò di gioia al sentire codeste parole, gli diede la mano e il suo palmo divenne zeppo d’acqua come se avesse stretto un fungo fradicio e  promise che avrebbe portato la campana. Il re delle acque tornò a stento al lago.
 Il calpestio dei suoi passi sembravano inzuppati  come se avanzasse in una pozzanghera, e il giorno dopo, alla luce del giorno si potevano distinguere le orme dei suoi passi, in quanto dove lui  calpestò, l’erba ingiallì.
La sera dopo si scatenò una terribile tempesta, con pioggia a catinelle e tuoni rimbombanti. Il nostro pastore partì per rubare la campana; fulmini accecanti e tuoni esplodevano davanti e dietro di lui, le saette colpirono perfino il lago; nulla fermava il sacrilego. La campanella addirittura tintinnò tre volte mentre il ladro la tolse dal suo posto, e nonostante di solito perfino un bambino sarebbe riuscito ad alzarla, all’instante diventò talmente pesante che il pastore quasi si ruppe la schiena per prelevarla, fin quando riuscì a portarla fino al cespuglio di more.
 Il povero eremita dormiva il sonno del giusto, non sentì nulla di ciò che avvenne attorno a lui.
Il vecchio ondino aspettava già con impazienza il pastore sulla sponda del lago. Che gioia criminale sentì quando vide la campana!  Strappò in una mossa sola la lingua della campana e partì, portandola dinanzi a se come se fosse uno scettro reale. Il pastore seguì le sue orme addentrandosi nei cespugli.  Il suolo galleggiante  sprofondava sotto i suoi passi..
 “Non temere” disse l’ondino “arriveremo in un instante all’abete”.
 Nel frattempo smise anche la tempesta, vi era una bella luna splendente nel cielo quando costoro arrivarono al grande abete le cui radici si trovavano sotto il fondo del lago. Il pastore scaraventò la campana nelle acque ed essa sprofondò con grande rimbombo. L’ondino tolse  dai rami dell’abete due sacchi, uno pieno zeppo d’oro, l’altro pieno  d’argento; il pastore li mise su un ramo e poi a tracolla un sacco a destra e un altro a sinistra e  poi domandò come si faceva per  ritornare nel paese.
 L’ondino gli spiegò: “là dove nell' erba scorgerai questa specie di fiorellino giallo vorrà dire che puoi calpestare  senza tremore; codesto ha la radice forte come lo spago che tiene bene unito il tessuto  di piante che galleggiano sul lago, non permette che si rompa sotto il peso dell’uomo.”
 Il pastore fu  prudente, fece  molta attenzione su dove metteva il piede e arrivò sano e salvo alla terraferma; ma i sacchi pesavano così tanto che gli tirarono giù  le spalle e alla fine crollò  sotto il loro peso, infatti cadde per terra e non riuscì più ad alzarsi giacché in quell' instante fu trasformato in un toro.

 Il padrone szekely scoprì col sgomento il giorno dopo, che nella sua mandria comparisse un toro nero mai visto fino ad allora;  gli unici indizi che facevano presumere da dove venisse lo straordinario animale era la sacca da viaggio del suo mandriano avvolta attorno al toro, mentre dalle due corna pendevano due sacchetti, uno con oro e l’altro con argento.  La bestia si lamentava e mugghiva piangendo  come  un’ essere umano.
Il buon padrone szekely non sapeva come interpretare il prodigio, però quando il giorno dopo seppe che era stata rubata la campana della chiesetta si affrettò a comperarne una nuova con l’oro e l'argento portato dal suo nuovo toro.
 La nuova campana era più grande, più bella e ornata tutta con argento.
Misero la nuova campana nel campanile, la consacrarono, però quando volevano farla suonare, per la delusione di tutti, la campana faceva solo un suono sordo, come se la linguetta della campana battesse contro uno strato di velluto.
Di notte le fate maliziose si radunavano davanti alla cappella sul lago e prendevano in giro il povero eremita con vari versetti che imitavano il ticchettio sordo della nuova campana.
L’eremita e i pellegrini continuavano a cantare nella cappella, ma era inutile cantare, come era inutile pregare affinché  la Vergine ridesse la voce alla campana. Ormai neanche i canti riuscivano a salire fino al cielo.

Accadde però che, nella notte di Santa Maria Grande, il vecchio eremita fece un sogno meraviglioso. Sognò che la Vergine Madre scese dai cieli, lo prese per mano e lo condusse fino al lago circondato dai cespugli di more, e attraverso uno specchio d’acqua rotondo si immersero nelle acque. L’eremita tremava di paura, ma la donna celeste gli disse di non temere nulla e scesero nella profondità senza fondo.  Innumerevoli mostri acquatici scapparono via alla vista della luce celeste che emanava dalla fronte la Vergine. Arrivati al fondo del lago, l’eremita poté scorgere l’antica campana perduta. Le liane si attorcigliavano attorno alla campana, e sopra dormicchiava il re  delle acque. Sembrava un grande ranocchio verde. Attorno alla campana dormivano tranquille le sue bellissime figlie.
La Vergine allora si volse verso l’eremita e disse: “Fin quando questa campana non tornerà dal fondo del lago alla cappella alcun suono di campana risuonerà in questa terra.”
 Dicendo questo lasciò la mano dell’eremita che si spaventò tantissimo, quindi si svegliò nel suo letto ed era  meravigliato che  i suoi vestiti non fossero inzuppati d’acqua.

Il giorno dopo l’eremita raccontò il suo sogno all’intero villaggio; si presentarono da subito prodi giovani col cuore impavido disponibili a mettere a rischio la propria vita percorrendo il campo galleggiante ed immergendosi in acqua per riportare su l’antica campana. Nessuno di loro tornò.  I demoni cattivi li avevano affogati, succhiato l’anima e nemmeno la loro salma tornò mai più sulla superficie dell’acqua.
Padri premurosi piangevano di dolore per aver perso i loro bravi figli, le madri pregavano in ginocchio i figli di non andare verso i cespugli con le more. Ma nessuna preghiera riusciva a fermarli.
Chi contemplava dall’alto quegli specchi d’acqua azzurrognoli restava affascinato come se l’avessero guardato degli occhi che lo chiamavano in maniera irresistibile, sentiva di notte la voce delle sirene e non trovava più la pace, doveva andare a trovare le fate che facevano il bagno nel lago, come si pettinavano i biondi capelli che coprivano le spalle e il loro corpo marmoreo. Non tornò mai più nessuno ai suoi compagni.

Il contadino szekely il cui mandriano rubò la campana, avea tre figli. La loro madre li pregò in tutte le lingue di non avventurarsi nelle vicinanze del lago delle fate, però avrebbe fatto meglio a non pregarli così tanto perché così è fatto l’essere umano: quanto più una cosa è pericolosa o vietata tanto più ne viene attratto.
Ogni giorno uno dei figli custodiva la mandria; l’ex mandriano mutato in toro nero, era  il  capo mandria. Quando iniziava ad imbrunire il pastore radunava gli animali dispersi e li dirigeva verso la casa perché la notte non li sorprendesse nelle vicinanze del lago. 
Una sera, quando era il turno del fratello maggiore, codesto legò il capo mandria a un albero perché non se ne andasse e si sedette sulla sponda del lago.
Il toro mugghiava e si dimenava come se volesse dire al pastore di andare a casa , ma al giovane non gli importava nulla di tutto ciò, egli aspettava le fate.
Quando apparve la luna nel cielo, comparì anche  una piccola fata sul lago. Aveva un volto incantevole, il corpo sembrava una scultura di corallo rosa, portava una bella corona di gigli azzurri, ed era coperta da un velo fatto dei colori dell’arcobaleno, ed era così fine che se qualcuno l’avesse strappato si sarebbe volatilizzato.
Il pastore rimase colpito e affascinato da questa apparizione, spalancò gli occhi così tanto che gli stavano per cadere, sospirò a più non posso e il cuore gli batteva talmente forte che la fatina poteva sentirlo.
“Bel pastorello dai capelli corvini” disse la fata con una voce melodiosa “vieni da me, scendiamo assieme sotto le acque. La mia casa è un castello di cristallo, con il tetto di perle, nel giardino crescono coralli e clarisse, i miei vestiti sono fatti con fili di seta e di rugiada, i miei gioielli sono perle delle conchiglie. Le mie labbra sono dolci, la mia voce è un canto. Non vuoi sposarmi?
Il pastore rispose: “Ma come potrei io seguirti bella principessa ? Non so camminare sulle acque, non so vivere sott’acqua; piuttosto seguimi tu, anche io ho una casa con un giardino sulla collina. Quando sorge il sole è più bello di qualsiasi giardino di coralli ,clarisse e perle. Vieni e sii mia sposa!”
La fata nuotò con aria sottomessa fino al giovane e tese verso lui la sua manina. Lui pensò che avrebbe preso la mano della fatina e tirata fuori dal lago, l’avrebbe  stretta tra le sue braccia forti e lei neanche volendo avrebbe potuto più ritornare.
Ma appena prese la sua mano la fata lo tirò fortemente verso di sé, le fate sono più potenti degli umani, e con una mossa decisa  trascinò il giovane sotto le acque. Oramai solo le  montagne echeggiavano il suo urlo di morte e poi tutto si acquietò.
Il giorno seguente venne il secondo figlio a custodire la mandria, andò pure lui la sera sulla sponda del lago ad aspettare le fate; venne un’altra fata ancor più affascinante della precedente, anche lui si lasciò ingannare e perì.
La terza notte venne il turno del figlio più giovine. Furono inutili le preghiere della madre e del padre di starsene alla larga dal lago per evitare la sorte dei suoi fratelli. Il ragazzo non stette alla larga.
“Non preoccupatevi per me, possono venirmi incontro anche un’armata di fate che non riusciranno a tirarmi in acqua!”
Allora portò la mandria a pascolare. Portò con se uno spago grosso che legò alle corna di ogni animale, per ultimo legò le corna del capo toro e infine legò lo spago attorno alla sua vite. Diede una pacca amichevole sulla nuca del capo toro.
“Caro mio servitore a quattro zampe vado a trovare una fata, a cacciare una. La farò venire fino alla sponda, le prenderò la mano e quando griderò oissa, nel nome di Gesù Cristo e della Vergine Maria, voi tirerete! Vedrai che tiriamo fuori la fata dal lago!”
La luna salì lentamente su nel cielo. Il pastore, seduto sotto un acero montano, suonava dolcemente al suo flauto quando sullo specchio blu del lago apparve la più giovane delle fate.
Ella era la più bella di tutte. Portava una corona di fiori di non-mi-scordar, ma anche i suoi occhi sembravano due fiori di non mi scordar, era così dolce, sorridente, incantevole, aveva la bocca di rosa, il corpo grazioso e flessibile, il suo vestito fatto di fiori era così leggero che sembrava un soffio di vento.
Appena la vide il pastorello smise di suonare il flauto e gli disse con coraggio: “Figlia delle acque, bellissima fata, sii mia sposa!”
La mite bambina, bellissima figlia del popolo delle fate sentì un certo dispiacere per quel giovane vulnerabile e con voce soave disse: “Vai via da qui bel giovane umano, noi non siamo fatti l’uno per l’altro, è pericoloso per te vedermi.”
“Io non vado via da qui senza di te” disse il pastore.
“Che cosa trovi di così bello in me. Se vuoi le perle che porto al mio collo bianco te le regalo, se vuoi la mia cintura d’oro che stringe la mia vite  te la regalo” disse la fata togliendosi la collana e la cintura, e le buttò sulla terraferma verso il giovane.
Ma il giovane non pensò minimamente di andar via.
“Non voglio né il tuo oro né le tue perle, voglio te, tutta ti voglio, le tue labbra, i tuoi occhi, il tuo bel corpo di colombella. Ti porterò a casa mia dalla mia buona madre, avremo cura di te, sarai felice come gli uccelli  del cielo.
La fata si avvicinò con aria triste alla sponda verdeggiante del lago. Le piante sotto l’acqua si distinguevano così bene che sembrava  si potessero cogliere con la mano.
La fata arrivò vicino al ragazzo, tese la mano verso di lui. In quell’istante il ragazzo la prese forte con la mano sinistra e gridò“O-issa, nel nome di Gesù Cristo e della Vergine Maria, tirate!”
Ma avrebbe potuto agguantarla anche con la destra o con tutte e due le mani, avrebbe potuto essere tirata non solo da dodici  tori, ma anche dodici volte dodici, che la fata con una mossa avrebbe potuto trascinarlo al fondo del lago lui e i suoi tori.
Avrebbe potuto, se un mare proffondo  non avesse visto, 
se un mondo più splendido non avesse intuito
nel lucchicchio degli occhi di lui, se 
la forza del magico fiume che scorre tra gli sguardi di un uomo e una donna che si riconoscono   più potentenon fosse  di ogni fatucheria celeste.

Si rese conto che all’improvviso stava tra le braccia del giovane che la baciava con ardore sulle labbra, sentì come il fuoco di questo bacio gli sciogliesse il potere magico di fata, gli cambiasse il sangue, gli mettesse nelle vene un calore finora sconosciuto, sentì come se non fosse più l’irraggiungibile fata ma una donna terrestre, donna che ama e viene amata.
Quando il re delle acque e le sorelle ondine videro che la fata mandata sulla superficie stava per soccombere, la seguirono e si aggrapparono ai suoi vestiti. Ciurme di spiriti acquatici, liane e altre creature si avvolgevano attorno ai sui piedi per trascinarla indietro. Era troppo tardi: le fate non avevano più potere su di lei perché sentiva amore terrestre. Questo sentimento disarmò le fate, non riuscirono ad andarci contro.
La mandria tirava fortemente in avanti. Ormai l’acqua arrivava solo fino alle ginocchia della fatina, mentre sulla superficie dell’acqua si potevano scorgere le teste quadrate dei mostri acquatici che si impegnavano di farla ritornare. A questo punto la mandria fece un ulteriore sforzo e la fata era già sulla terraferma. I mostri ricaddero in acqua e nel farlo fecero delle onde gigantesche così potenti da trascinare  alcuni alberi che si trovavano sulla sponda. L’acqua del lago gorgogliò tutta la notte  come in ebollizione, come se una tempesta celeste l’avesse rimescolata senza tregua.
Il giovane prese fra le braccia la sua bella fatina rapita e la fece sedere sul primo toro, mettendogli sotto il suo mantello così da farla stare comoda.
I genitori non credevano ai loro occhi per la  gioia quando videro che il loro figlio tornava incolume a casa, si meravigliarono ancora di più quando videro la bella fata che il ragazzo portava con sé. Nella terra degli szekely ci sono tante ragazze bellissime ma nemmeno là si trovava una che poteva concorrere in bellezza con questa.
“Cari miei genitori, non fatemi domande sulla sua provenienza, dove e come  l’ho trovata, basta che sappiate che Dio me l’ha data e mia sarà fino a quando Dio me la toglierà”.
I genitori non  fecero domande, si affrettarono solamente a vestirla con abiti decenti come ogni ragazza szekely, e quando le misero il copricapo nessuno avrebbe mai  potuto affermare che non una mamma szekely l’aveva messo al mondo, era come ogni altra ragazza dal paese.
Da allora in poi, i due giovani vissero felici e contenti, erano come due colombe della foresta,  nessuno li vide mai divisi, erano sempre assieme in armonia, erano una coppia da invidiare.
Nessuno avrebbe pensato mai che la bella signora non era nata da madre terrena. Solo l’anziana suocera osservava che spesso le orme della mano della ragazza  erano umide, e vide inoltre che, nelle afose giornate estive, se sua nuora, la regina delle acque, camminava nel giardino, i fiori si rinvigorivano, le foglie tornavano rigogliose, i calici dei fiori si riempivano di rugiada, l’erba diventava più verde.
Un giorno la fata diede alla luce un maschietto; la fata lo immerse subito, tenendolo dai piedi nella vasca da bagno, il bimbo sguazzò giocando con l’acqua e allora la fata gli lasciò i piedini, quindi il bimbo nuotava  con facilità sia sull’acqua che immerso nell’acqua, come se fosse un girino appena nato.
Nessuno seppe queste stranezze perché la fata era sola quando faceva queste cose, fino a quando gli altri arrivarono e il pupo era avvolto nelle fasce e si riposava tranquillo attaccato al seno bianco come la neve della sua mamma.
Ma ogni volta quando si trovava da sola col bambino gli toglieva le fasce, lo lasciava nell’acqua dove lui  sguazzava e giocava ridacchiando di piacere, immergendosi anche completamente in acqua. Quindi imparò prima a nuotare che a camminare sulla terra.
Quando compì appena sette anni attraversò a nuoto avanti e indietro il lago Sant’Anna, riportò la tazza d’oro dal fondo del lago e scese nel profondo da dove raccoglieva fiori e piante acquatiche per la sua mamma.
La gente lo chiamò il fantastico sub.
Il tempo passò. Il maschietto diventò un giovane  virile  in tutto il suo splendore; quelli che furono giovani diventarono anziani, l’anziano eremita si era trasferito da un bel po’ di tempo in una cappella più luminosa dove gli angeli cantavano e i serafini suonavano le campane, la campana persa fu dimenticata da tutta la gente, ormai era abitudine che la gente veniva chiamata alla messa battendo con un martello su un asse di legno.
Solo il volto della fata non invecchiò affatto perchè le fate non sanno cosa sia la vecchiaia, lei era ancora adesso un essere così delicato come quando uscì dalle onde, chi la vedeva poteva pensare che era la figlia e non la madre del suo figlio.
Un anno fu grande siccità in tutta la terra degli szekely, invano cantava e pregava la gente, la sciagura non passava. Invece il lago circondato dai cespugli di more e di ribes si gonfiava minacciando di inondare il paese.
Durante questa calamità la fata portò il suo figlio sulla sponda dell’occhio del mare e gli svelò il segreto degli abissi.
“Qui, nell’occhio del mare, in un luminoso castello di cristallo vive mio padre, il verde re delle acque. Siamo tre sorelle, tutte e tre figlie dello stesso padre, ma ognuna di noi ha un’altra madre. La madre di una delle mie sorelle era la nuvola, quella dell’altra il torrente montano mentre la mia mamma era la rugiada dei cieli. Mio padre è uno spirito crudele e senza cuore. Quando si arrabbia con la terra chiude in prigione le nostri madri: le nuvole, i torrenti e la rugiada dei cieli. Le tiene legate a se, ecco perché le acque del suo lago sono così gonfie, mentre in tutto il mondo c’è siccità, ecco perché sono seccati i letti dei fiumi. Figlio mio, scendi sotto l’acqua, prendi un ramo di cotogno potato fino a fondo, colpisci con quello chi prova a fermare la tua strada e non temere nessuno. Piccoli spiritelli, pigri mostri, scapperanno ognuno come può se tu colpisci con coraggio in mezzo a loro. Oltre il prato dei gigli gialli scorgerai il castello di cristallo dal verde re delle acque. Ha tutte le pareti trasparenti, Ci sono più di cento stanze decorate con smeraldi e diamanti, i capitelli dei pilastri sono di rubino. Ogni porta è custodita da due demoni  marini con tre fila di denti. Non devi spaventarti, se li colpisci col tuo ramo di cotogno si trasformeranno in statue di pietra. Devi attraversare centinaia di stanzette per arrivare all'alcova del verde re delle acque. Il pavimento della sua stanza è fatto di conchiglie, il soffitto di perle luccicanti, alle finestre ci sono dei vasi di smeraldo in cui crescono rigogliose clarisse rosse, con fiori di diamante e frutti d’oro. I rami di grandi fiori acquatici sostengono le loro amache fatte di tele tessute da ragni e da bachi di seta. Sui rami di queste piante sguazzano piccole rane rosa con voci melodiose come quelle di un usignolo e giocano con lucertole di color celeste. Nel centro di questa stanza c’è una vasca di cristallo con la fontana che spruzza l’acqua dalla bocca di un pesce d’oro. Dietro questa si trova il trono del re. Il trono è sostenuto da quattro pesci rovesciati, sopra troneggia il re delle acque. La sua barba è d’argento, il vestito è verde e di velluto, ha un serpente d’argento al posto  della cintura. Da entrambe le parti le mie sorelle lo soffiano con due enormi pinne di pesce come ventagli. Non temere, sarà lui a spaventarsi. Essere umano non è arrivato da quelle parti giammai: mio padre e le mie sorelle saranno gentilissimi, lusinghieri, si vanteranno portandoti nella camera dei tesori dove ci sono montagne di oro, d’argento e di perle. Te ne offriranno, ma tu non prendere niente  e non toccare nulla. Vedrai invece disposte in alto in ordine dei barattoli di cristallo: chiedi quelli. Non sono vuoti. Dentro furono rinchiuse le anime di coloro che  annegarono nel lago, fra di loro anche le anime dei tuoi due zii, le mie sorelle gli hanno succhiato l’anima e li hanno rinchiusi là. Dopo che hai preso questi barattoli, ti faranno vedere le loro collezioni di rarità: vasi scolpiti, coppe adornate con pietre preziose e tante altre cose affascinanti. Non prendere nessuna di quelle cose, invece vedrai in un angolo una campana ammuffita e arrugginita, sprofondata in melma e attorcigliata dalle liane. Quella la devi chiedere. Se fanno opposizione li minaccerai di colpire e far risuonare la campana e allora saranno disposti a darti tutto; quando avrai la campana tra le mani portala fuori dal castello facendo attenzione che non risuoni, ma quando sei uscito colpiscila tre volte nel nome di Dio. Con questo il tuo compito sarà finito e potrai venire su.
Il fantastico sub fece come gli aveva indicato la sua mamma: ruppe una grossa verga di cotogno dalla foresta e là dove crescono i gigli gialli saltò in acqua. Appena arrivato in acqua lo circondarono i mostri delle acque con teste quadrate, con forme amorfe, con gli occhi di color fuoco, serpenti con facce umane, salamandre di mille colori, pesci con il muso a forma di sega, demoni acquatici a forma di cavallo, serpenti attorcigliati e altre piccoli fantasmini di ogni tipo che pungono, solleticano, succhiano il sangue, e oltre questi animali si potevano discernere anche i rami di centinaia di liane e altre piante acquatiche, le cui braccia non fanno altro che cercare la preda  per avvolgerla, agguantarla, chiuderla nella loro rete e trascinarlo verso il profondo, perché la loro bocca è nascosta al di sotto delle loro radici.
 Il fantastico sub non si fece intimorire, ma colpì con la verga i tentacoli  della medusa affamata, così che questa impazzita di dolore si spaventò e ritornò in fretta nella sua tana.
Con la mano libera prese per l’orecchio uno dei più grossi mostri, lo colpì col bastone di cotogno così che questo si mise a muggire tremendamente  dal dolore, e i suoi fratelli spaventati scapparono via per nascondersi. Quindi cavalcò la bestia domata e gli ordinò di portarlo subito al castello reale.
Il verde re delle fate si era appena addormentato sul suo letto di muschio verde, quando nel castello echeggiarono i suoni dei passi del fantastico sub. Il monarca si svegliò di soprassalto.
“Chi è l’incosciente che osa venire qua?” gridò e prese la sua verga di gigli d’oro, ma il giovane rispose con coraggio alla sfida, colpì per primo il bastone del re e poi la sua schiena. Il re perse l’arma dalle mani e urlò così forte che il lago iniziò a ribollire.
I mostri e le fate si inginocchiarono davanti ai piedi del giovane pregandolo di non fargli del male e promettendogli in dono qualsiasi cosa desiderasse il suo cuore: oro, argento,  pietre preziose, poteva scegliere qualsiasi cosa.



“Non voglio né oro né argento” disse il giovane “ ridatemi l’ anima imprigionata dei miei zii e degli altri giovani che avete annegato, fate cattive!”


Le fate portarono le bottiglie di cristallo chiuse, il giovane le aprì e da ognuna di esse ne uscì una grande bolla bianca che iniziò a salire verso la superficie dell’acqua, e mentre varcavano   lo stretto collo della bottiglia emettevano un suono umano.
Le fate lo abbracciavano, lo lusingavano, lo invitavano a mangiare, a  bere, a divertirsi con loro, a riempirsi di tesori e tornarsene a casa.
“Non voglio nulla del vostro! La cosa per la quale sono venuto è di Dio. Ridate alla cappella la campana che  tenete nascosta!”
Al sentire tali parole le fate si misero a strillare e a lamentarsi, mentre la barba del vecchio re delle acque crebbe a vista d’occhio e diventò due volte più lunga di prima.
Il giovane trovò la campana, la pulì dalla melma e dalle liane e la portò fuori del castello.
Fuori dal castello, sotto le acque colpì la sacra campana tre volte con la bacchetta, tre volte risuonò la campana.
Al primo suono scomparve senza alcun rumore  il castello di cristallo, le splendide colonne, le pareti tappezzate d’ oro, il soffitto decorato con le perle, tutto svanì e diventò sabbia e pietre.
Al secondo suono tutti i mostri delle acque si rimpicciolirono e sparirono sul fondo del lago, come se non fossero mai esistiti.
Al terzo rimbombo, sul posto delle rovine del vecchio castello comparvero due piccolissime lucciole mentre su un camino stava accovacciato un rospo verdastro. Questi erano le fate e il re delle acque. Ancora oggi  si riesce ad incontrarli sotto questo aspetto.
Quando il ragazzo salì con la campana ritrovata sulla superficie del lago vide sullo specchio dell’acqua dodici cigni bianchi, proprio il numero delle anime prigioniere che aveva liberato. Due cigni gli vennero incontro, sembrava che volessero abbracciarlo con le ali, o baciarlo con i becchi, insomma volevano salutarlo, dopo di ché tutte assieme fecero sentire un  canto, aprirono le ali bianche come la neve, spiccarono in volo e s’innalzarono sempre più su, toccando perfino il cielo.
Avviandosi verso la casa incontrò la mandria e si meravigliò non poco quando accanto alla sua mandria vide un vecchio pastore sconosciuto, che aveva perfino una campanella al collo. Egli era colui che tanto tempo fa aveva buttato la campana nelle acque del lago;  la stessa campana che adesso il giovane riportava indietro  sulle spalle, il vecchio si mise in ginocchio ai piedi del ragazzo ringraziandolo con baci e con  lacrime di averlo sciolto dall’incantesimo e di averlo salvato.
Quando il giovane raggiunse la casa paterna, gli venne incontro una signora anziana, appoggiata al braccio del suo papà: la vecchietta lo abbracciò e lo baciò. Lui chiese stupito  chi fosse la signora: “è la tua mamma” rispose il padre “mentre tu eri lontano ad un certo momento ha iniziato a vista d’occhio a recuperare i suoi anni finora risparmiati e adesso è vecchia come me. Ora, nuovamente siamo una coppia adatta l’uno all’altro, così vivremo e moriremo sereni insieme.
Nell’ instante in cui il figlio sciolse l’incantesimo smise anche lei di essere una fata.
La campana ritornò con grande fasto nella cappella. Per l’immensa gioia dei viaggiatori e per la consolazione dei pellegrini suonava nuovamente il canto nella contrada, così la capella sul lago divenne per centinaia di anni il luogo di pellegrinaggio preferito dai székely.
Oggi, se magari nel profondo delle acque le ondine vivono ancora, potrebbero riprendersi i laghi. Non esiste più né la cappella, né la campana, né canti attorno al lago Sant’Anna. 
Solo l'immensa quiete colma di malinconia sussurra nelle orecchie del solitario viandante  che qui, c’era il regno in cui vivevano e  regnavano le fate.

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