NEI TEMPI REMOTI, tanto
remoti che il cielo era ancora molto più vicino alla terra e le acque
ricoprivano quasi tutta la terra, lontano, nei Carpazi, viveva un potente mago. Egli era
più alto del più alto abete e portava sulla testa un albero coi rami sempre
verdi, la sua barba lunghissima era di muschio, come di muschio erano anche le
sue sopracciglia; la sua veste era fatta di scorza degli alberi, la voce aveva
il rimbombo del tuono e sotto il braccio portava una cornamusa grande quanto
una casa.
Con quella cornamusa egli
poteva ottenere tutto ciò che desiderava il suo cuore. Suonava melodie soavi e
attorno a lui, fino alla linea dell’orizzonte, sbocciavano i fiori e cresceva
l’erba; quando soffiava più forte, creava gli essere viventi; ma quando soffiava
con ira, sollevava una tale tempesta che la montagna si piegava, il mare si
ritraeva dagli scogli e scopriva a nudo la terra. Un giorno fu assalito da
potenti nemici; invece di difendersi portò la cornamusa alle labbra mutando i
suoi nemici in abeti, quindi si liberò da loro. Egli non si stancava mai di
suonare e sentiva grandissima gioia quando l’eco gli rimandava indietro le sue
canzoni; ma ciò che gli riempiva più il cuore di gioia era vedere come
s’inanimava tutto intorno a lui. Migliaia di pecore venivano da tutte le alture,
da tutte le valli e portavano piccoli alberelli sulla fronte, così Caraiman le
riconosceva come sue creature; tra le rocce apparvero anche i cani che
riconoscevano la sua voce.
Egli esitò a lungo a creare
uomini, perché aveva visto che negli altri paesi le persone erano poco inclini
a gesti di benevolenza e non erano capaci ad amarsi. Tuttavia pensava che i
bambini fossero invece amabili e buoni e trovò come soluzione di popolare il
suo regno solamente con i bambini. Quindi suonò la più soave melodia che aveva
mai suonata e all’improvviso spuntarono fuori fanciulli e fanciulle in numero
infinito. Adesso vi potete immaginare quanto era particolare i regno del
Caraiman: non si faceva che suonare e comparivano quei piccoli marmocchi, tutti
contenti, rotolandosi sulla bella e verdeggiante terra benedetta di Dio.
Dopodiché si intrufolavano sotto le pecore per succhiare il latte dalle loro
mammelle; raccoglievano frutta ed erbe e le mangiavano, dormivano sul morbido
muschio, protetti dalla roccia e dalla mattina alla sera erano sempre allegri.
Anche dormendo erano felici perché il Caraiman suonava alcune melodie che
favorivano i sogni più dolci. Giammai si udirono parole offensive nel regno del
Caraiman: quei bimbi erano infatti così gentili e felici che non litigavano mei
tra di loro; invidia e gelosia erano sconosciute, giacché ognuno aveva le
stesse qualità dell'altro. Il Caraiman stava attento che ci fossero sempre
abbastanza pecore per nutrire tutti i bambini e che per le tante pecore
crescessero erbe a sufficienza, quindi, per ottenere tutto ciò, non si scordava
mai di suonare. Nessun bimbo si faceva del male e per questo i cani dovevano
fare da guardia, trasportandoli e scegliendo un terreno adatto per i loro
giochi. Se qualcuno cadeva nell'acqua, i cani lo tiravano fuori, quando
qualcun'altro era troppo affaticato, un cane lo prendeva in groppa e lo portava
sotto l'ombra più fresca per farlo dormire. I bimbi erano felici come in
paradiso; loro del resto non desideravano nulla, perché non avevano visto ancora
nulla; non c'erano abiti ricchi o poveri, nè grandi palazzi accanto a misere capanne
da far guardare gli uni con avidità i beni degli altri. Non c'erano malattie,
né morti presso il Caraiman; gli esseri da lui creati venivano al mondo così
sani come se fossero usciti dall'uovo. E poi non c'era alcuna ragione di morire
quando c'era tanto spazio nel mondo. Tutto il paese donde il Caraiman aveva
scacciato il mare non era popolato, e per pecore e bimbi lo spazio era più che
sufficiente per molto tempo ancora.
I fanciulli non si
preoccupavano di leggere o scrivere; del resto non ne avevano bisogno, perché
tutto era previsto e si risolveva da sé; loro non dovevano preoccuparsi di
nulla ed era superfluo per loro diventare savi, perché il pericolo era loro
ignoto.
Intanto, diventando più
grandi, essi cominciarono a scavare delle piccole case nella terra e a coprirle
di muschio, poi dissero d'un tratto: "Questo è mio!". Ma appena uno
ebbe pronunciato per la prima volta: "Questo è mio!", gli altri
vollero fare altrettanto. Alcuni si costruirono delle casette simili; ma altri
trovarono molto più comodo installarsi in quelle già finite; e quando i
proprietari si lagnarono gridando, i cattivi piccoli conquistatori si misserò a
ridere. Quelli che erano stati derubati cominciarono a servirsi dei loro
piccoli pugni - e nacque la prima guerra.
Alcuni corsero da Caraiman e
si lamentarono; allora egli suonò un gran tuono rimbombante e li fece tremare
tutti di paura. Fu così che per la prima volta essi impararono a conoscere la paura
e poi, siccome i ladruncoli tenevano il broncio ai delatori, nel bello e
piacevole regno di Caraiman scoppiò la zizzania. Fu penoso vedere come tutti
quei piccoli uomini si comportassero già così male come i grandi negli altri
paesi. Caraiman iniziò a pensare a qualche rimedio. Avrebbe potuto cacciarli
tutti insieme nel mare e crearne di nuovi, ma questi avrebbero sicuramente finito
per comportar si allo stesso modo ed egli amava molto i suoi piccini! Allora
pensò di allontanare quel che poteva essere l'oggetto di discordia; ma così
tutto sarebbe diventato sterile e nudo, giacché la disputa aveva avuto luogo
appunto per un po’ di terra e di muschio e poi perché gli uni erano stati
laboriosi e gli altri pigri. Pensò dunque di fare un regalo: infatti donò loro
pecore, cani e anche un giardino. Ma questo peggiorò la situazione: alcuni
coltivarono i loro giardini, mentre coloro che li lasciavano incolti, si
accorsero subito che i giardini lavorati erano più belli e che le pecore davano
più latte, essendo migliori i pascoli. Questa fu una grande sventura. I pigri
fecero una lega, attaccarono i laboriosi e s’impadronirono di molti dei loro
giardini. La maggior parte dei laboriosi o se ne andò altrove e, sotto le loro
mani, tutto ben presto divenne assai bello, o non si lasciarono spodestare e ne
nacquero lunghe lotte, nelle quali alcuni furono uccisi.
Quando essi videro per la
prima volta la morte rimasero pietrificati di sgomento e di dolore, giurando
l’uno all’altro di mantenere per sempre la pace e l’amicizia. Ma non riuscirono
a restare a lungo tranquilli; e siccome non si volevano ammazzare cominciarono
a derubarsi con furbizia tutti i beni. Questo fu ancora ben più triste. Il
Caraiman aveva il cuore così appesantito che versò torrenti di lacrime, le
quali colarono nella vallata fino al mare. I cattivi fanciulli, però, non si
resero nemmeno conto che queste erano le lacrime che il loro padre aveva
versato per loro e perseverarono nell’ira.
Il Caraiman pianse ancor più
forte e le sue lacrime diventarono fiumi e torrenti che distrussero il paese e
lo cambiarono ben presto in un grande lago, nel quale perirono innumerevoli
esseri.
Allora cessò di piangere e
prese a soffiare un vento impetuoso, che fece asciugare la terra. Intanto il
verde era sparito, grosse pietre coprivano case e giardini, le pecore non
trovavano più pascoli e siccome non davano più latte, i fanciulli tagliarono
loro la gola con una pietra tagliente, per vedere se il loro latte non uscisse
magari da un’altra parte. Invece di latte venne fuori sangue e quando i
fanciulli ne ebbero bevuto diventarono sempre più feroci ed avidi: uccisero
molte pecore, rubarono quelle dei loro fratelli, bevvero sangue e mangiarono
carne.
Allora il Caraiman disse:
“Bisogna creare animali più grandi, altrimenti non ne basteranno più”.
Quindi egli suonò di nuovo la
cornamusa. Allora vennero al mondo i bufali e i cavalli con ali a lunga coda
riccia, e scomparirono gli elefanti e i serpenti. I fanciulli cominciarono a
guerreggiare con quegli animali, cosi divennero più grandi e più forti; addomesticarono
molti animali, ma da molti altri furono perseguitati e uccisi. Siccome non
avevano una vita semplice, cominciarono a emergere tra di loro numerose e gravi
malattie. Ben presto furono del tutto simili agli uomini di altre nazioni ed il
Caraiman diventò sempre più fosco e di cattivo umore, perché tutto quel che
aveva voluto far di bene, era andato a finir male.
Le sue creature non avevano
più in loro né amore, né fede; non pensavano che loro stessi erano la causa
delle loro sciagure! Invece credevano che il Caraiman le aveva loro mandate per
leggerezza e per passatempo. Rifiutavano di ascoltare la cornamusa che altre
volte li aveva incantati con simili dolci suoni. Il gigante del resto non
soffiava più tanto; anzi, era triste, così triste che il tedio lo esauriva e
spesso dormiva per lunghe ore sotto l’ombra delle proprie sopracciglia, che si
riunivano alla barba. Talvolta, quando si svegliava, portava la cornamusa alle
labbra e soffiava dentro a quel malvagio mondo, gridando ai quattro venti. I
venti, svegliandosi, scatenavano una tempesta talmente violenta che gli alberi
gemevano strofinandosi gli uni con gli altri fino a infiammarsi: così il fuoco
divorava foreste intere. Allora con l’albero che aveva sulla testa, egli raggiungeva
le nuvole e scuoteva la pioggia in basso per spegnere l’incendio.
Gli uomini non avevano che
un pensiero: ridurre per sempre al silenzio la cornamusa. Essi andarono con
lance e giavellotti, con fronde e pietre a combattere il gigante, ma egli rise
così forte da provocare un terremoto, che li inghiottì insieme coi loro animali
e con le loro case. Un altro gruppo arrivò con pali di resina accesi per incendiare
la sua barba, ma egli starnutì spegnendo il fuoco e facendo ruzzolare gli
uomini all’indietro. Un terzo gruppo volle legarlo nel sonno, ma egli allungò
le sue membra e tutti i lacci si ruppero, la banda intera fu distrutta.
Essi tentarono inoltre di
mettergli contro tutti gli animali feroci da lui stesso creati, ma egli serrò
nei suoi pugni l’aria e una neve densa cominciò a cadere: era una neve senza
fine, che li avviluppò, li seppellì e li gelò. Dopo migliaia di anni, quando
non vi fu più sulla terra un solo dei loro simili, quegli animali furono
ritrovati in carne ed ossa nel ghiaccio.
Gli uomini pensarono di
impadronirsi della cornamusa, e decisero di trascinarla lontano mentre il
gigante dormiva, ma egli vi posò la testa sopra e il peso era tale che tutti gli uomini e gli
animali non poterono smuoverla.
Essi, allora, si
avvicinarono leggermente al gigante e fecero un piccolo buco nella cornamusa, ed
ecco che si scatenò una tempesta tale che non si poteva più distinguere il mare, la terra e il cielo:
di tutta la creazione del Caraiman non restò più nulla.
Il gigante però non si
svegliò più. Egli dorme ancora oggi con la cornamusa sotto il braccio, la quale
risuona, quando la tempesta vi s’ingolfa e discende nella vallata della
Prahova.
Se qualcuno riuscisse a ricucire la cornamusa, di nuovo la
terra apparterebbe ai bambini.
LA
GROTTA DI JALOMITZA
Se attraversiamo la gola che
separa Varful cu Dor da Furnica e raggiungiamo all’altro lato del Bucegi,
incontriamo la Jalomitza, un corso d’acqua la cui sorgente si trova in
un'inquietante grotta calcarea. Davanti alla grotta si erge un piccolo
monastero costruito in tempi antichissimi.
La gente dice che la grotta è profonda, senza fine, cosicché se qualcuno ha
osato una volta addentrarsi, non è mai più ritornato.
TANTO TEMPO FA, questa
grotta fu abitata da un terribile stregone il quale, così si racconta, rapiva
le belle fanciulle dai campi, dalla casa paterna e anche dai piedi dell’altare.
Esse lo seguivano tutte senza resistenza e non furono mai più viste. Un giorno
un giovane audace aveva giurato di liberarle ed entrando coraggiosamente nella
grotta chiamò il mago:”Bucur! Bucur!”, ma non si fece vedere nessuno: né Bucur,
né qualcuna delle vergini rapite.
Nel grazioso villaggio di
Rucar, ai pendii di Bucegi, viveva una leggiadra fanciulla di nome Jalomitza.
Ella aveva giurato di non seguire il mago, non importa sotto quale sembianza le
si fosse presentata e qualunque fossero state le promesse con le quali avrebbe
voluto sedurla.
“Anche se mi portasse nella
sua caverna”, diceva ella, “io ne uscirei fuori nuovamente”.
Queste erano parole molto
audaci e i vecchi scuotevano la testa e alzavano le spalle dicendo:
“Quando il mago lo vorrà,
lei lo seguirà volentieri come hanno fatto tutte le altre”.
Passò un tempo assai lungo,
durante il quale non apparve nessuno e non accadde nulla che mettesse alla
prova il coraggio della fanciulla. Ella era la gioia e la delizia di tutti gli
uomini, con le sue guance rosa, le labbra rosse, i capelli ondulati e color di
fiamma e i grandi occhi azzurri. Il nasino era fine, un po’ indiscretamente in
su. Dalla camicia riccamente ricamata, usciva un collo fine, bianco come la
neve e sulla fronte, sulle tempie, sulla nuca si inanellavano riccioli rossi
sfuggiti alle trecce e ribelli al pettine.
Quando la domenica si vestiva per la
danza dell’hora scioglieva le
sue trecce, si trovava coperta come in un mantello d’oro di cui neppure la
terza parte poteva ella vedere nel suo piccolo specchio.
C’era un giovane nel
villaggio che le correva sempre dietro: alla fontana, ai campi, alla danza. Lei
non è che voleva sapere gran che del povero Coman che era tuttavia un ragazzo
buono e benestante. Aveva bei campi, cavalli e vacche, bufali e montoni;
portava una giubba di pelle bianca stupendamente ricamata e un candido mantello
foderato di panno rosso e riccamente adorno di nastri e d’oro.
A molte fanciulle piaceva Coman, solo a Jalomitza no. Ella
pensava all’incantatore Bucur e ai mezzi per combatterlo, onde vendicare tutte
le povere ragazze cadute della sua trappola.
Nel meriggio di una
splendida domenica, mentre i danzatori riscaldati si riposavano un istante,
risuonarono in quel vicinato suoni così dolci di un flauto che tutta la giovane
compagnia ne fu sorpresa.
Tutti, curiosi, si
affrettarono a vedere chi stesse suonando: un bel giovane pastore stava
appoggiato ad un albero, i piedi incrociati l’uno sull’altro, calmo come se
fosse stato sempre lì e intanto nessuno lo aveva visto venire, nessuno lo
conosceva.
Egli continuò a suonare,
come se fosse solo sulla terra: una volta però alzò gli occhi e guardò
Jalomitza, che si era avvicinata a lui e ascoltava le divine melodie, con le
labbra aperte e le narici frementi. Dopo qualche tempo egli la guardò di nuovo,
poi una terza volta.
Allora Coman le sussurrò :
“Scappa, Jalomitza,
quest’uomo è malevolo”.
La fanciulla fece un gesto
d’impazienza con le spalle e i gomiti.
“Jalomitza”, brontolò di
nuovo il geloso, “non ti vergogni a lasciarti guardare cosi?”.
Neanche questa volta ella
rispose, anzi, gli volse le spalle.
“Jalomitza, io te lo dico chiaro e tondo, questo pastore non
è altro che Bucur, lo stregone!”
In questo momento il pastore
s’inchinò senza smettere di suonare e Jalomitza sentì freddo al cuore e
inaridirsi la gola.
“Che ne sai tu?”, disse con
dispetto, ma non senza un leggero tremito nella voce.
“Lo so, perché lo sento; lo
sento, perché t’amo; e perché t’amo vedo che ne sei affascinata di lui e che tu
sarai la sua vittima come tutte le altre”.
“Io? Giammai! Lo giuro”,
gridò Jalomitza e divenne pallida come la morte.
“Ecco il mio flauto, suona tu!” esclamò il pastore e porse
il flauto a Coman.
Senza rendersi conto di quel
che facesse Coman prese il flauto, cominciò a suonare e suonò con un incanto
tale, come mai aveva suonato nella vita sua, ma con orrore presto si accorse di
non poter più smettere. Compose delle nuove hora ch’egli non aveva mai udite e vide che intanto lo straniero
danzava con Jalomitza.
Allora egli iniziò a suonare
una Doina talmente triste che
tutte le donne avevano lacrime agli occhi. Jalomitza stessa lo pregò di
smettere, ma lui continuò a suonare ancora e ancora guardandosi attorno con
l’angoscia della morte: il flauto non taceva più. Giunta la sera, la folla si
diradava, la gente cominciò a rincasare. Coman suonava ancora e Jalomitza
rimase al suo fianco come sotto un incanto. Il pastore straniero era scomparso.
“Smettila Coman, mi spezzi
il cuore! Sai bene che anche se non sono innamorata di te ho giurato di non
appartenere mai a quell’altro. Smettila Coman, sii ragionevole!”.
Ma Coman continuò a suonare,
ora gaiamente come se volesse ridere, ora in modo talmente straziante che
l’usignolo dall’umida vallata gli rispondeva. Sempre più vicino, sempre più
vicino venne l’usignolo; al chiarore della luna Jalomitza lo vide posarsi sulla
testa di Coman e accompagnare il flauto col suo canto. Poi l’uccello si
allontanò, attirandola con dolci suoni e Jalomitza lo seguì tutta la notte
senza saper dove la portasse.
Coman, col flauto, seguiva
il fantastico usignolo addentrandosi nella fredda vallata, fiancheggiando il
ruscello.
Fattosi giorno, Jalomitza,
spaventata, portò la mano alla testa.
“Dove mi trovo, dunque? Mi
trovo molto lontana dalla casa e questa contrada mi è ignota. Coman, dove
siamo? Io ho paura.. L’uccello era Bucur!”.
Intanto Coman non rispose,
ma suonò un'allegra danza. Allora uno stallone, lanciatosi attraverso la
prateria, volteggiò attorno alla giovane ragazza, le offrì il suo dorso, quasi
toccandola con la testa.
“Ah, esclamò ella, fossi
uccello e potessi volare! Io riconosco il mostro."
Appena finì di pronunciare
tali parole (in men che non si dica, ella spiego le ali e spiccò in volò, mutandosi in) una tortorella e volando
lontano, molto lontano, verso il mattino pieno di rugiada.
Lo stallone, invece, divenne
un falcone e precipitò su di lei da un’altezza vertiginosa per portarla in
cattività nei suoi monti.
“Ah, se io fossi un fiore
del prato”, pensò la giovine piena di angoscia.
Nello stesso battibaleno
ella divenne un nontiscordardime sulla sponda del ruscello, ma il falcone
divenne farfalla e si posò sul fiore, gli volò attorno, si cullò su di lui.
“Se io fossi una trota del
ruscello!”, pensò Jalomitza.
Nel medesimo istante mutò in
una trota, ma la farfalla divenne rete, l’afferrò e la trasse in aria, finché
ella credette di morire.
“Vorrei essere una
lucertola”, pensò mezza morta la povera fanciulla.
E subito ella strisciò come
il vento tra l’erba e i fiori e si credette al riparo sotto ogni foglia, sotto
ogni pietra, ma, da sotto la pietra vicina, uscì un serpente che la fermò,
affascinandola coi suoi occhi terribili, in modo che ella non riusciva più a
muoversi. Lungamente essi stettero così; i fianchi della piccola lucertola
battevano fino a rompersi.
“Se io fossi suora! Potrei
stare nascosta nel convento”, pensò ella.
In quel battibaleno scorse
sopra la sua testa l’alta cupola arrotondata di una chiesa. Ardevano le candele
e un canto solenne s’innalzava cantato da un coro di centinaia di suore.
Jalomitza era inginocchiata dinanzi ad un'icona; il suo cuore batteva ancora di
paura, ma ella aveva già la speranza di essere al riparo nel santuario.
Riconoscente, ella alzò gli
occhi all’immagine, ma ecco, gli occhi di Bucur si distaccarono e
l’affascinarono talmente, ch’ella non poté allontanarsi, nemmeno quando la
chiesa era ormai abbandonata. Fattosi notte, gli occhi dell’icona
diventarono luminosi e le lacrime di Jalomitza grondarono senza cessare sulle
pietre, sulle quali era inginocchiata.
“Ahimè!”, esclamò, “ nemmeno
in questo santo luogo tu mi dai tregua. Oh potessi diventare una nuvola!”.
E subito la vòlta al di
sopra di lei divenne la vòlta del cielo ed ella navigò come una nuvola ad
un’altezza meravigliosa, ma il suo persecutore prese la forma del vento e la
inseguì da nord a sud, da est a ovest, attorno alla terra.
“Meglio essere un granello
di sabbia”, pensò infine la piccola nuvola.
Allora ella cadde a terra,
granellino di sabbia dorata nel Riul
Doamnei chiamato fiume della principessa, giacché l’oro che vi si trova
apparteneva una volta alla principessa; ma Bucur diventò un contadino, che
attraversava a piedi nudi il fiume alla ricerca dell’oro e pescò nel fondo il
granellino. Questo però scivolò prestamente dalle sue dita e divenne capriolo,
il quale fuggì verso la foresta, ma, prima di riuscire ad arrivarci, Bucur si
fece aquila e, piombato su di lui dall’alto, lo portò tra i suoi artigli al
Bucegi, nel suo nido. Appena si sciolse da questa stretta, la giovane cadde in
forma di goccia di rugiada su una genziana, ma lui divenne raggio di sole e si
diresse su di lei per succhiarla; allora ella, diventata camoscio, si lanciò
senza saperlo proprio dentro la grotta dell’incantatore. Egli da cacciatore
corse a lei ridendo e mormorò:
“Infine, ti tengo”.
Ella fuggì, addentrandosi
sempre di più nella grotta, fino in fondo, dove vide che tutte le pietre
attorno a lei erano meravigliose fanciulle dai cui occhi cadevano inesauribili
lacrime:
“O fuggi, gridarono
centinaia di voci, fuggi da qui, o sfortunata ragazza”.
“Un bacio di lui e tu
diverrai pietra come noi!”.
Ma a queste parole, una freccia volò attraversando la
caverna e ferì il camoscio fuggente. Nell’angoscia della morte ella esclamò:
“Ch’io sia ruscello! Potrei
così sfuggirgli!
E subito si precipitò fuori dalla grotta un selvaggio
ruscello; il mago, lanciata una maledizione divenne roccia egli stesso e prese
tra le sue braccia il ruscelletto, che continuava a sfuggirgli sempre.
Coman arrivò in questo momento alla grotta, riconobbe la
voce della sua Jalomitza che chiamava “Coman! Coman!” e con un ultimo sforzo,
scagliò il flauto contro la roccia, sotto la cui forma riconobbe Bucur.
Fu rotto l’incantesimo. Né
Bucur, né Jalomitza poté oramai più cambiare forma: oggi ancora ella continua a
scorrere via dalle sue braccia avide. Coman eresse una cappella davanti alla
grotta, si fece eremita e rimase fino alla morte in contemplazione della sua
dolce amata.
OMUL
Chi sa come mai la gente chiamò quella montagna Omul,
“l’uomo”. La montagna era talmente piccola o l’essere umano era gigante quanto
la montagna? Chi mai sarà stato dunque quest’uomo? Sarà stato un grande eroe
che ha vinto delle battaglie? Sarà stato un’eremita che visse in solitudine?
Sarà stato un brigante il cui nome incuteva terrore al solo pronunciarlo? Sarà
stato un mendicante di cui nessuno sapeva l’origine? O forse un imperatore
davanti al quale i re avevano tremato?
L’essere umano.
Ecco la sua storia.
C’ERA UNA VOLTA un fanciullo
il quale ardeva dal desiderio di compiere grandi imprese. Nulla gli sembrava né
troppo grande, né troppo audace, né troppo grandioso che egli non potesse
tentar di raggiungere.
Amava la sua patria come una
sposa, donava ai poveri quanto poteva, serviva le dame, sia quelle povere che
quelle ricche, proteggeva i deboli, ma tutto ciò era poco, ben poco per
accontentare lo slancio del suo cuore.
Infatti diceva che, finché
vedrà la gente straziarsi e soffrire, sopperire all’odio e all’inganno, la sua
vocazione sarà quella di rendere felice l’umanità.
Sua madre era una buona
imperatrice, venerata come una santa; ella aveva avuto il dono di guarire i
malati, imponendo su di loro le mani, quindi da vicino e da lontano gli ammalati
accorrevano in folla per essere guariti da lei. Per questo motivo ebbe molti
nemici e subì varie persecuzioni, resa
sospetta davanti all’imperatore, le fu proibito di guarire, anzi, fu bandita dalla
Corte. Ella allora si ritirò sulle montagne, dove la accompagnò tutto il popolo
e, malgrado l’esilio, continuò a guarire
migliaia di ammalati. Ben presto però, in parte per colpa del grande dolore, in
parte per la troppa fatica, ella esaurì le sue forze, si mise a letto e morì.
Gli ammalati non smisero di venire a trovarla, venivano ora alla sua tomba per
essere guariti.
Non gli fu dato di portare
con sè in esilio il suo unico figlio, però lui di nascosto andava a trovarla,
le stava accanto per lunghe ore pendendo dalle sue labbra, ascoltava le sue
parole dolci come il miele, guardava attentamente le sue belle mani che
diffondevano forza e guarigione.
“Madre, quando rendi sana la
gente, la rendi anche migliore?”, chiese egli una volta.
“E’ più facile essere buoni
quando si è sani”, rispose ella e accarezzò i bei capelli del figlio
“Ma io sono sano e intanto
non sono buono”, disse lui con tristezza.
“L’uomo non è buono tutto
d’un tratto, s’impara piano piano ad esserlo, figliolo mio!”.
Così avevano detto quelle
sagge labbra che ora si sono chiuse per sempre. Il ragazzo si gettò
disperatamente a terra accanto alla morta.
“No, io non ce la faccio,
non ce la faccio a vivere senza la mia mammina!”, gemeva tra le lacrime.
“Mamma, mammina mia, svegliati, guarisci il mio cuore! Mi fa tanto male!
Mamma!”.
La gente stava in silenzio
attorno alla morta e al figlio in lacrime, lacrime che nessuno riusciva ad asciugare.
Tanto cosa gli avrebbero
giovato le lacrime altrui? Cosa volevi che fosse per lui il fatto che un intero
popolo accompagnava nell’ultimo viaggio la bara della loro benefattrice per
deporla nel grembo della terra? Era devastato dal dolore, col corpo e l’animo
dilaniati. Per lui era scesa la notte, il sole era diventato grigio cupo.
Oramai era solo soletto nell'immenso mondo dal quale la sua mamma era stata
strappata via.
Dopo il funerale della madre
sparì, nessuno sapeva dove fosse andato, l’avevano sentito piangere singhiozzando,
l’avevano visto rifiutare la pala con la quale avrebbe dovuto buttare la terra
sulla bara di sua madre e poi era scomparso. L’imperatore mandò esploratori per
cercarlo in tutti i confini dell’impero, ma questi tornavano senza alcun
risultato, sembrava l’avesse inghiottito la terra.
Nessuno conosceva quell'eremita,
che si era fatto credere morto per vivere nascosto nelle grotte di Bucegi. Una
donna sola sapeva di lui ed ella, l'amica della madre, gli aveva fatto
promettere di prendersi cura del figlio quando lei non ci sarebbe stata più.
Questa donna era l’imperatrice.
“Insegnami ad essere buono!”, con tali parole
approdò il bimbo orfano nella grotta dell’eremita e lui lo riconobbe subito.
Poi si rincantucciò nell'angolo più scuro della grotta e si mise ancora a
piangere, quasi volesse consumare in quel pianto i suoi occhi e il suo cuore.
Il vecchio restò in silenzio, ma passava la sua mano ossuta
sulle guance, accarezzava la sua barba e muoveva di continuo le sue palpebre
appesantite nella lotta con le lacrime, che volevano assalire i suoi occhi.
“Emmanuel, figliuolo mio”,
disse infine, “Sii come tua madre, allora sarai buono”.
“Ma lei non aveva un’anima
così ardente, selvaggia ed impetuosa come la mia”.
“Ne sei così sicuro? Chi te
l’ha detto che ella non sia stata un giorno come te?”.
“Come me? Questo è
impossibile!”.
“Lei aveva tanta energia e
nella giovinezza l’energia è impetuosa. Tu non sai quanto ella abbia sofferto”.
“Mai quanto me”.
“Figliuolo, figliuolo! La
sofferenza ti mette solo adesso e per la prima volta alla prova e credi che
nulla sia uguale alle tue pene. In questo momento tu pensi solo a te stesso.
Questo lei non lo aveva mai fatto.”
“A chi mai dovrei pensare?
Io non ho più nessuno al mondo!”.
“A chi?” .
L’eremita indicò verso la
vallata e d’un tratto sfilarono davanti a loro le immagini di tutti i mali e di
tutte le sofferenze che gravavano sulla terra: infermi, ciechi, storpi, poveri,
prigionieri, gente in pericolo, malati, donne con bambini che piangono; giorno
e notte durò la sfilata delle immagini, tre volte si è alzò e tramontò il sole
e tre volte la luna, ma il proseguirsi delle varie forme di sofferenza durava
ancora. Emanuel abbassò lo sguardo e non proferì una parola. L’eremita posò
allora la sua mano sugli occhi stanchi del giovane e questi si chiusero
immediatamente.
Egli prese poi in braccio il
bimbo e lo portò all’interno della grotta, gli fece bere un po’ di latte,
quindi lo lasciò riposare. Dopo due giorni il fanciullo si svegliò fresco e
forte.
“Sai tu perché devi
vivere?”, gli domandò l’eremita.
“Sì”, disse il giovane con
voce trasognata, “ho fatto un sogno così meraviglioso che mi sembra di aver
girato l’intero mondo”.
“Ora va e servi. Nessuno ti
riconoscerà e se hai bisogno di me, basta che ti corichi pensando a tua madre e
sarai subito presso di me. Evita di fare qualsiasi malvagità perché in quell’istante
il volto di tua madre scomparirà e non ritroverai più la strada che porta da
me.
Con mille sacre promesse
Emanuel si congedò dall’eremita e si avviò verso la valle in cerca di persone
da servire.
Non arrivò molto lontano
quando incontrò una vecchia signora che trascinava sfinita alcuni fagotti
pesanti, fermandosi spesso per riprendere fiato. Lei guardò di sbieco il bel
giovane che la salutò con gentilezza e le chiese cortesemente se potesse
prendere e portare quel peso per lei fin dove volesse.
“Però è pesante e la strada
è lunga”.
“Un motivo in più per darvi
una mano”, soggiunse Emanuel gentilmente. Si caricò dunque addosso tutto il
peso e partì così velocemente che la signora faceva fatica a tenere il passo.
Camminarono fino all’imbrunire quando arrivarono ad una piccola casetta.
Emanuel depose il carico, salutò l'anziana signora e volle allontanarsi. La
donna lo misurò con attenzione: “Vuoi andare via senza nessuna ricompensa?”,
domandò. “E dove pensi di passare la notte?”.
Emanuel indicò la terra:
“C’è abbondantemente spazio per dormire in questo mondo”, le rispose
sorridendo.
“No, figlio mio, non se ne
parla nemmeno, tu dormirai nella mia casetta, dove troverai da mangiare e da bere, ho abbastanza per
due persone."
Ella lo ospitò gentilmente e
gli chiese da dove venisse e cosa volesse fare.
“Vengo dall’eremitaggio e
ora voglio servire”.
“E che ricompensa aspetti in
cambio?”.
“Io? Nessuna”.
Ella gli preparò il letto.
Egli dormì dolcemente per tutta la notte e, appena spuntò l’alba, volle allontanarsi
senza rumore per non svegliare l'anziana signora. Invece lei era già in piedi e
gli aveva preparato un po’ di latte e di pane. Emanuel si sentì imbarazzato. La
donna gli disse:
“Non rifiutare ciò che è
buono, fosse esso solo un quarto d’ora di sonno prendilo, se l’occasione si
presenta. Io non voglio lasciarti andare senza ricompensa perché tanto troverai
presto ingratitudine sulla tua strada. Ecco il mio dono: ogni bene che farai
agli altri, lo farai per la tua gioia, per te sarà uguale se ricevi gratitudine
o meno, tu sarai felice per il solo fatto di aver fatto del bene, ma se
infliggerai il male agli altri, quel male si ritorcerà contro di te, sia se
essi si lamenteranno sia se non lo faranno. Pensaci bene figlio mio!”.
Ad Emanuel questo dono sembrò
al quanto insolito ed era indeciso se rallegrarsene oppure no. Ringraziò però
la donna e s’incamminò.
Incontrò sulla strada un
uomo che giaceva mezzo morto, cadendo da una rupe si era sfracellato. Non aveva
ormai che la forza di gemere: “Mio bimbo! mio povero bimbo!”.
Emanuel lo raccolse con
attenzione e lo portò a casa, con tal pesante fardello la lunga strada gli
pareva interminabile. Sull’uscio della casetta stava una leggiadra pulzella
come lui giammai aveva visto. Non era più bambina, ma neanche giovane donna:
aveva dei grandi e sognanti occhi scuri, i suoi capelli erano di un nero
corvino e ondeggiavano attorno alla sua testolina. Ella alzò le sue piccole,
delicate mani gridando: “Padre mio!”.
Il suo volto avorio diventò
bianco, come il muro della sua cassetta.
“Non c’è nulla di grave”,
tentò di tranquillizzarla Emanuel. “Non si è fatto tanto male e noi lo faremo
guarire presto”.
“Raba, bimba mia!”, gemette
il ferito, “Non piangere se io morirò. Tu devi ancora essere felice, tanto
felice”, Dicendo codeste parole egli perse coscienza per molti giorni. Emanuel
non si mosse dal suo capezzale, lo curava con la sollecitudine di un figlio.
La piccola Raba gli ubbidiva
in tutto, come a un fratello. Sperava che il babbo si salvasse perché ella non
aveva nessun altro nel mondo e sarebbe rimasta derelitta sulla terra, diceva
con voce soffocata dalle lacrime.
Giorno e notte tutti due
vegliarono presso il morente, spesso Raba poggiava la testolina sul cuscino del
suo babbo e s’addormentava esaurita. Una volta, mentre lei era così assopita,
il malato tornò in sè, strinse la mano di Emanuel e mormorò: “Raba!”. Il
giovane fece un segno di assenso e strinse la mano smagrita del moribondo, il
quale richiuse gli occhi per non aprirli mai più. Emanuel si accorse della
morte, ma restò in silenzio per non disturbare il sonno dolce della bimba,
tanto la poverina la aspettava un risveglio terribilmente doloroso.
Si attanagliava e non sapeva
cosa fare con l’orfana. “Oh, se vivesse mia madre!”, pensò e, stanco, si stese
sul suolo. In un battibaleno egli si trovò nella grotta dell’eremita che lo
accolse dicendo: “Sì, portala da me, voglio tirarla su per te”.
“Quindi sai tutto?”, domandò
Emanuel stupito.
Conosco tutto ciò che stai
attraversando, in quanto tua madre, che accompagna tutti i tuoi passi, me lo
racconta. Lascia da me la bambina e tu continua a servire”.
Emanuel credette di avere soltanto sognato, poiché un
movimento di Rada lo svegliò.
“Babbo!”, gridò ella
disperata quando osservò il viso del defunto.
Il suo giovane protettore le
prese la mano e disse:
“Ti ha affidato a me, sei
ora mia sorella e sei mia figlia. Conosco un posto dove sarai sicura. Vuoi
seguirmi?”.
“Dovunque tu vorrai”, disse
tra le lacrime la bambina, “Non ho più niente e nessuno”.
Seppellirono il padre morto,
poi, mano nella mano, salirono alla grotta. Arrivarono a notte inoltrata.
Emanuel sentì la piccola mano tremare nella sua e diventare fredda.
“Non temere”, le disse, “Ti
porterò presso un uomo molto buono che ti vorrà molto bene”.
L’eremita accolse Rada con tanta tenerezza che svanirono
tutte le sue paure e ben presto chiacchieravano nella più serena confidenza.
All’alba, dopo un sonno
rinfrescante, Emanuel fu svegliato dolcemente dall’eremita con tali parole:
“Risparmia alla bambina il
dolore di un nuovo addio. La saluterò io per te. Vai, il lavoro ti attende!”.
Emanuel guardò con tenerezza
la dormiente fanciulla. Le sue lunghe ciglia nere ombreggiavano le sue guance
smagrite, respirava così leggermente che il petto si sollevava appena.
“Vorrei tanto restare. E’
bello qui!” ,sussurrò il giovane.
Ma l’eremita lo cacciò via
delicatamente, accompagnandolo sull’uscio.
“Quel che tu hai fatto non è
nulla ancora nulla, figlio mio. Non ti sei ancora meritato il riposo”.
Emanuel ridiscese nella
vallata ed incontrò un servitore di suo padre, l’Imperatore, che però non lo
riconobbe. Egli era impegnato nel costruirsi un tugurio con rami e con argilla,
mentre la sua donna si prendeva cura di un paio di bambini.
“Cosa ci fai tu qui?”,
chiese Emanuel all’uomo che, sebbene avesse la faccia solcata dal dolore e
sembrasse di dieci anni più vecchio, lui
l’aveva subito riconosciuto, per non tradirsi doveva trattenersi a non
chiamarlo col nome “Ilie”.
“Io non sono stato sempre
così povero come tu mi vedi adesso; per lunghi anni ero servitore
dell’Imperatore, avevo anche portato suo figlio tra le mie braccia, ma una
cattiva stella ci perseguita, sono stato licenziato e mi trovo con moglie e
bambini sulla strada.
“Come mai?”.
“Perché il giovane principe
è scappato, chissà dove e tutti coloro che non sono riusciti a trovarlo, sono
stati licenziati. L’imperatore non si è mai interessato di suo figlio fin quando
viveva con lui. Ora deve cadere il cielo se non lo trova, ma lo dimenticherà
presto, perché sta per risposarsi, e quando la nuova imperatrice gli darà un
figlio, egli non penserà più all’altro, però noi resteremo poveri e
sfortunati”.
“Magari io posso aiutarvi!”.
“Tu?”, chiese Ilie
guardandolo con disprezzo, “Come potresti aiutarmi?”. “Come ti chiami? Chi sei
tu?”.
“Mi chiamo Manoil e voglio
servirti. M’intendo di giardinaggio”.
“Manoil! Il mio giovane
principe si chiamava Emanuel. Che lo raggiunga la mano di Dio, lui è la causa
della mia sventura. E tu non sei altro che un vagabondo. Mi porterai solo pena
e imbarazzo”.
“Vedrai, mettimi alla prova.
Mi potrai cacciare in qualsiasi momento, se sarò un servo inefficiente”.
“Tu mangerai il pane dei
miei figli, senza dar niente in cambio!”.
“Proviamo!”.
Ilie alzò le spalle.
“Senti però, vagabondo,
giuro sul cielo, se mi fai anche solo il minimo danno o mi indebiti, ti
tratterò senza alcun riguardo, proprio così come anche altri trattarono me”.
Non era ancora calata la
sera che Emanuel aveva già raccolto le erbe aromatiche, cucinato la mamaliga,
zappato un pezzo di terra: era di un'incredibile laboriosità. Egli corse in
città ed impegnò il suo mantello in cambio di sementi di granturco e di una
capra che poi portò in casa con tanta allegria. Quanto erano contenti i bambini
e quanto erano grati ad Emanuel! Ma Ilie continuava a brontolare, non rivolgeva
mai una buona parola al giovane e solo raramente gli dava da mangiare.
Solo quando gli si ribadiva
la sua vecchia posizione, allora diventava amichevole e raccontava lungamente e
col gusto dell’opulenza dei pasti e dei buoni bocconi che ne cadevano per i
suoi figlioli, della gente che gli faceva sperticate riverenze per ricevere
prima un'udienza, dell’imperatore che era sempre di cattivo umore, guardava
accigliato e rimproverava aspramente i suoi famigliari per la minima
sbadataggine.
Ad Emanuel veniva da ridere
pensando a come Ilie lo trattava chiamandolo vagabondo e pezzente ad ogni
occasione.
“E il principe” continuava
Ilie “era della stessa pasta. Faceva ogni sorta di cattiverie e stupide
buffonate, e quando gli si voleva chiedere conto, spariva per accoccolarsi
dalla madre che lo aveva viziato, come fanno tutte le madri”, qui Ilie lanciò
uno sguardo pungente alla moglie, “e che l’imperatore aveva ripudiato per
causa del cattivo stile di vita e per i
suoi rapporti con gente da nulla”.
A queste parole Emanuel
gridò come fosse stato morso da un serpente:
“Menti! Ella era una
santa!”.
Ilie guardò con sorpresa il
giovane e chiese:
“Che ne sai tu dunque,
Manoil?”.
“Io…io…Io ho visto come guariva gli infermi. Io ho…”
“Ebbene?”
“L’ho visto adorata da tutti
quei poveri”.
“Non mi voleva
particolarmente bene e suo figlio mi ha pure picchiato una volta, non l’ho
dimenticato neanche oggi, perché non ho potuto renderglielo e non volevo
accusarlo, sapendo che sarebbe stato duramente punito. Adesso rimpiango di
esser stato troppo buono, giacché è per lui che io sono nella sventura.”
Dove Emanuel era più amato
era al mercato, dove portava le verdure da lui coltivate per poi dare il
guadagno a Ilie. Ben presto era un asino a portargli i cesti, mentre un altro
giorno Emanuel portò a casa una mucca.
Le donne e le fanciulle gli donavano dei fiori e i bambini
lo chiamavano da lontano.
“Manoil! Manoil! Vieni, il mio cavalluccio si è spezzato! La
nostra capra è malata! La mamma ha del lino e vuol pregarti di venderlo, tu ne
trarrai miglior partito di lei. Mia sorellina è caduta e chiama sempre Manoil
perché tu hai guarito il Sandu.
Tutti avevano bisogno di lui
e per tutti lui aveva del tempo. Questa cosa irritava Ilie perché era geloso e
voleva averlo solo per sé.
Egli temeva sempre che il suo servo non facesse delle generosità a suo danno,
benché Manoil coltivasse per sé un pezzo a parte. Egli aveva trovato alcuni
poveri per i quali era la provvidenza. (poco chiaro, potrebbe essere: egli
temeva che il suo servo fosse generoso utilizzando i suoi soldi e dunque
danneggiandolo, benchè Manoil regalasse i guadagni del suo lavoro, dato che coltivava
una parte per sè?)
Aveva scoperto uno
sgabuzzino così piccolo, dove appena entrava un misero letto. Là giaceva una
fanciulla cieca e inferma. Ella era caduta parecchie volte, così
malauguratamente che si era rotte le braccia in parecchi punti e queste erano
così malamente riassestate che non avevano più la forma umana. Infine si era
rotta anche una gamba, così stava sempre a letto a sferruzzare. Sua sorella era
fuori per l’intera giornata a lavorare e quando la sera rincasava e si
accorgeva che la cieca non aveva lavorato abbastanza, la picchiava. Le grida
della sventurata avevano attratto l’attenzione di Emanuel. Egli dette una
severa lezione alla cattiva sorella. Le lasciò
del cibo, ma non si allontanò solo quando vide mangiare la cieca.
Inoltre aveva incontrato una
donna infelice con un paio di figliuoli, il cui marito era in prigione. Emanuel
ne aveva udito parlare e aveva sentito dire che quella donna non permetteva che
alcuno andasse a trovarla. Egli dovette bussare lungamente invano e solo quando
le promise di portare buone nuove di suo marito, ella acconsentì ad aprire. Era
talmente malata che aveva dovuto trascinarsi sulle ginocchia per giungere fino
alla porta. Un bambinello giaceva nella paglia e sputava nel cucchiaio di zinco
dove beveva anche. Una bimbetta piangeva in un angolo, mentre un altro bambino
dagli occhi sbarrati e dalle guance febbricitanti tossiva senza sosta.
Emanuel sentì stringersi il
cuore alla vista di tanta miseria, ma egli non varcava mai una soglia invano.
Come un angelo benedetto, elargiva la pace e la gioia, e ben presto incuria e
miseria mutavano dapprima in una povertà laboriosa, poi in un certo benessere.
Qui portò erba medica e
qualcosa da lavorare ogni giorno a casa; giacché la donna si vergognava di mostrarsi
davanti agli altri.
Riuscì anche a procurare
lavoro e pane ad un uomo che, dopo la prigione di un anno, era stato lasciato
in libertà e, non trovando un impiego in nessun luogo, era quasi ridotto a
morir di fame coi suoi figliuoli.
Emanuel era riuscito con la
sua parola convincente, a dissipare la diffidenza che quell'uomo ispirava.
Erano innumerevoli le sue
opere di beneficenza: i fanciulli di Ilie gli volevano molto bene e la moglie
chiedeva sempre l’aiuto di Manoil, cosa che
rendeva Ilie terribilmente geloso.
Egli trattava il giovinotto
più male di giorno in giorno e lo caricava d’un lavoro inaudito, ma Emanuel non
si lamentava. Non sospettava nemmeno che Ilie potesse essere geloso, pensava
solo che forse il benessere generava in lui quella durezza di cuore.
Un giorno, Emanuel era di
nuovo al mercato. Era riuscito a vendere tutte le mercanzie di Ilie ed anche le
sue ed aveva già distribuito il suo guadagno tra i bisognosi, quando un uomo
che aveva perduto le braccia, avvicinatosi a lui, chiese l'elemosina.
Emanuel non aveva mai
toccato nulla di Ilie, ma per questa volta credette di poterlo fare e mise un
po’ di denaro nella tasca dell’infelice. Proprio in quel momento fu preso per
il collo.
“Ah, ladro miserabile!”,
gridò Ilie schiumando di rabbia, ti ho colto alla fine sul fatto e ti farò
vedere furfante, quel ch’io penso di te, che mi rubi il mio avere e allontani da
me mia moglie.
Lo picchiò col pugno di
ferro ed il nodoso bastone. Il
sangue ribolli sul viso del giovane volle mettersi sulla difensiva,
ma riflettè e lasciò cadere le braccia sotto quella gragnuola di colpi.
Quell’infamia non durò a lungo perché, radunatasi la gente, la sorella della
fanciulla cieca arrestò coraggiosamente le braccia d’Ilie, gridando:
“Non ti permettere di
maltrattare il tuo e il mio benefattore! Vergognati!”.
Allora Emanuel volse ad Ilie il viso pallido come la morte e
disse con occhi fiammeggianti:
“Ci lasciamo Ilie, servo mio!”
E scomparì.
Ilie, barcollando portò le mani alla testa.
“Ahimé, balbettò, egli non
era altro che il nostro principe”.
Tutto il mercato fu in subbuglio, molti corsero per
ritrovare il principe, l’amato Manoil. Altri insultarono e picchiarono Ilie ché
aveva distrutto con i suoi modi brutali la felicità di tutti. Ilie stesso fu
inconsolabile quando vide che Manoil era introvabile.
Il giovane era fuggito di
corsa così in fretta quanto la sua giovane età permetteva, era andato lontano
in un campo di granturco, dove, sotto le grandi foglie, si gettò a terra e
pianse come non aveva mai pianto dalla morte di sua madre.
“Ora”, esclamò, “ora
comprendo quanto sia amara l’ingratitudine” e strinse il suo pugno tra i denti
finché ne uscì il sangue.
“O madre, madre, io posso
tutto sopportare fuorché la vergogna!”.
Appena pronunciato questo
nome, apparve dinanzi a sè l’eremita che gli posò la mano sulla spalla:
“Guarda”, gli disse,
“riconosci tu ancora la tua piccola Rada?”.
Emanuel abbagliato, guardò
la meravigliosa fanciulla, la quale, dopo averlo osservato con l’umido fuoco
dei suoi profondi occhi neri, riabbassò le ciglia e parve che un velo si
stendesse sulle guance rosse. Egli non riuscì a proferire la parola; sorpreso e
ammirato, dimenticò perfino di salutarla e continuò a guardarla.
“Nevvero”, disse l’eremita,
“che sono stato miglior custode io del tuo tesoro, che non sei stato tu di
quello del tuo servo? Io mica l’ho donato ad alcuno!”.
Emanuel guardò spaventato il
vecchio e chinò la testa, come fanciullo acerbamente rimproverato. “Non si può
fare beneficienza nel nome di un altro”, proseguì il vecchio, “Questo è stato
il tuo errore, figlio mio”.
“Quanto l’ho duramente
espiato”, disse il giovane con le guance ardenti e gli occhi in lacrime.
“Ma qui ti aspetta la tua
ricompensa, che però non te la sei meritata ancora”, soggiunse l’eremita, e
indicò nuovamente verso Rada, i cui sguardi andavano dall’uno all’altro con
sorpresa.
“E adesso passiamo pure
qualche ora di gioia prima che tu torni al lavoro”.
Rada aveva preparato un
pasto squisito all’esterno della grotta. L’intera grotta era stata trasformata
dalle sue mani di fata, all’interno pendevano tappeti e l’eremita portava una
camicia da lei tessuta e da lei ricamata. Ella stessa era vestita con molto
decoro e contegno e gli fece vedere con orgoglio i libri che aveva letto
insieme al loro amato maestro.
Emanuel diventò nuovamente triste:
“Divento ogni giorno più
ignorante”, disse. “Non ho tempo di studiare. Non sarò degno di te,
Rada!".
“Trovati un altro lavoro”,
disse il solitario, “e impiega ciò che guadagni per farti un'istruzione”.
“E i poveri?”, chiese
Emanuel.
“Ci sono vari modi per fare
del bene, le elemosine spirituali valgono le altre.
Emanuel aveva passato qualche
ora felice nella grotta, ma il sole stava calando sull’orizzonte, dipingendo le
montagne di color viola e porpora, mentre la valle s’avviluppava d’ombre
azzurrognole.
“Devi andare prima che la
sera scenda completamente”, disse l’eremita.
Emanuel guardava con gli occhi tristi lontano. Questa volta
aveva il cuore talmente pesante. Rada lo attirava come una calamita e le sue
ultime esperienze erano state talmente amare.
L’eremita notò
quest’esitazione, ma finse di non essersene accorto e affrettò subito e con
severità la partenza. Emanuel, indignato nell’intimo suo di quella durezza,
trovava che il mondo era ben cambiato.
Discese lentamente, più
lentamente che mai. Più di dieci volte egli guardò indietro. Rada, avvolta
dalla rosea luce del tramonto, gli faceva segni di addio. Egli compresse con la
mano i battiti del sul cuore che gli si stringeva in uno spasimo prima ignoto.
Perché l’eremita l’aveva
cacciato via così di notte? Perché non gli era permesso di attendere
l’indomani? Perché doveva egli apprendere con tanta pena quella scienza
dell’abnegazione che avrebbe dovuto renderlo degno dell'incantevole vergine? La
durezza dell’eremita era incomprensibile.
Così pensava Emanuel; poi si
coricò sotto una roccia e si addormentò.
Nel sogno vide sua madre
come guariva gli innumerevoli malati, apponendo sul loro capo le sue mani, si
svegliò di soprassalto e gridò al cielo stellato:
“Diventerò un medico! Cosi
potrò soccorrere i sofferenti!”.
Discese nella vallata ed
entrò da un farmacista:
“Posso essere il Suo apprendista?”.
“Che cosa sai fare?”.
“Conosco le erbe mediche, le
so piantare e coltivarle, nient’altro”.
Il farmacista si mise a
ridere, ma non rise a lungo giacché il giovane uomo che ora diceva di chiamarsi
Manea, dava prova di una notevole intelligenza e di uno zelo straordinario.
Oltre a lavorare, egli
studiava ogni notte e dava anche, gratuitamente, delle lezioni ai poveri
fanciulli.
Erano queste le sue
elemosine perché impegnava i suoi piccoli guadagni per la sua istruzione.
Non abitava da molto tempo
qua, quando una grande festa fu celebrata nell'intero paese. L’imperatrice
aveva regalato un figlio al marito, che chiamarono Trandafir e che avrebbe
dovuto rimpiazzare il primogenito scomparso. Emanuel sorrise con malinconia: “Ormai
non manco più a nessuno”, disse tra sé e sé e lavorò con maggior lena tutta la
notte.
“Un buon medico ha il suo
indiscutibile valore. Lasciamo che sia imperatore il mio fratellino”.
I suoi sforzi sovrumani non
tardarono ad essere ricompensati; gli venne in aiuto anche il suo naturale
talento, ereditato dalla madre. Non aveva ancora finito i suoi studi, ma dai
paesini vicini e lontani veniva chiamato dovunque fosse un ammalato. Spesso
pensava a Rada col più vivo desiderio di rivederla, ma era intimamente convinto
che l’avrebbe riveduta appena sarebbe stato degno di lei. In questo momento,
l’amore per la scienza prevaleva su ogni altro sentimento. Per la prima volta
nella vita egli non voleva solamente servire il suo prossimo, ma voleva
realizzare se stesso e voleva farlo con le sue proprie forze.
I suoi lineamenti divennero
più decisi e marcati segnando il continuo sforzo intellettuale, le numerose
veglie avevano reso i suoi occhi lucenti e profondi.
Egli era anche amato come
prima lo era stato Manoil, e quando sentivano il nome del dottore Manea, tutti
gli sguardi si rischiaravano e nei cuori addolorati rinasceva la speranza.
Or accadde che il piccolo
erede al trono Trandafir si ammalò così gravemente che tutti temevano il
peggio.
L’imperatrice invece, aveva
sentito del giovane medico che tutti i bambino amavano e mandò a cercarlo. Egli
entrò col cuore palpitante nel castello paterno, ove ogni passo gli ricordava
la propria infanzia e donde egli stesso si era bandito da solo in un momento di
collera e d’infantile caparbietà. Suo padre non lo riconobbe e lo guardava
ansioso nel viso, quando fu presso al letto del fratellino che lottava con la
morte.
Emanuel lo osservò con
attenzione poi disse:
“Io credo che si possa
guarirlo”.
Il viso, di solito duro e altezzoso dell’imperatrice, viso
dinanzi al quale tremava anche il suo sposo, s’inondò di lacrime.
Emanuel stava giorno e notte accanto al piccolo Trandafir.
Una sera il bimbo cadde in
un sonno calmo e profondo, Emanuel pregò i genitori di riposarsi, giacché il
pericolo era finito: egli avrebbe vegliato.
In mezzo alla notte, il
piccolo malato si svegliò, tese le braccia verso il fratello, gliele passò
attorno al collo e lo baciò.
“Emanuel”, disse il bimbo
con voce chiara, così dolcemente, così teneramente come da anni questa parola
non era stata mai più pronunziata.
Poi il bimbo si addormentò
di nuovo.
Al mattino egli era fuori
pericolo: i genitori testimoniarono la loro riconoscenza al salvatore del
figlio, insistendo che egli restasse al castello. Il giovane medico non si
lasciò persuadere né dalle preghiere né dalle promesse e l’imperatrice, che
prima l’avrebbe stretto volentieri fra le braccia, finì con l'irritarsi per la
sua partenza.
Emanuel allora pensò di
andare a trovare la sua Rada per sposarla. Egli credeva finalmente di averla
meritata, quando l’eremita venne da lui:
“Ragazzo mio”, gli disse e
la barba gli tremava attorno alle labbra “temo che la ricompensa meritata ti
sia sfuggita. Avevo inviata Rada giù nella valle perché si perfezionasse in tutte
le virtù della donna ed ora ho saputo che ella vuole sposare un altro."
Emanuel sentì il sangue
salirgli in testa, gli occhi gli lampeggiarono di sdegno.
“E’ stata dunque questa la
tua sollecitudine paterna?”, gridò, “Oggi che volevo riceverla dalla tua mano,
tu mi sottometti a questa inumana prova. Non mi hai raccontato che frottole! Oh
Dio! Sento di impazzire!” Egli scosse il vecchio e gli diede uno spintone. Il
povero uomo vacillò e andò a urtare con la testa contro un angolo acuto, dalla
ferita sgorgò il sangue. Emanuel si spaventò di quel che aveva fatto, si buttò
in ginocchio accanto al vecchio e mise in atto tutto il suo ingegno per farlo
ritornare a sè. Finalmente questo aprì gli occhi e, muovendosi con immane
fatica le labbra, disse:
“Figlio ingrato!” disse, poi
sospirò per l’ultima volta e morì fra le braccia del giovane uomo disperato.
Emanuel lo chiamò coi nomi più teneri, lo pregò di perdonarlo, ma, ahimè, era
troppo tardi! Egli aveva perduto tutto: padre, amico, fidanzata, tutto: e con
loro aveva perso anche il suo cuore pieno d’amore ed innocenza.
Scomparve dalla contrada e
s’immerse nella solitudine della montagna Bucegi. Questo non durò a lungo,
giacché fu riconosciuto perché non riusciva a trattenersi dal guarire i montoni
malati dei pastori. Presto arrivava da lui anche la gente e lo stimavano come
se fosse un santo. Non lo chiamavano che l’Uomo e quando vi era un ammalato o
un infelice, si correva a cercare l’uomo. Egli era sempre serio come se
avesse cento anni. Aveva dimenticato di essere giovane, tanto gli pesava sul
cuore la colpa irreparabile. Da quel momento egli aveva smarrito nell’oblio l’immagine di sua madre.
Viveva così, portando in silenzio il peso del suo immenso dolore e malgrado
faceva quanto bene poteva, lui, l’Uomo straordinario verso cui gli sguardi
s’innalzavano con timidezza e con profondo rispetto, nonostante le loro parole
di riconoscenza, egli restava sempre sconsolato giacché udiva nel suo cuore
quel “Figlio ingrato!”, sussurrato dalle labbra del suo unico amico.
Il piccolo Trandafir si
ammalò di nuovo, però il buon dottore Manea era scomparso e siccome il piccolo
malato chiamava incessantemente
“Emanuel!” tutti dicevano che probabilmente era presto per morire, giacché
diceva il nome del suo fratello morto che egli non aveva mai incontrato.
Infatti il bimbo morì
davvero dopo qualche giorno e, spezzato dal dolore morì anche il padre.
L’intero popolo era sconvolto perché non aveva più un imperatore.
Allora si sparse una notizia meravigliosa.
“Emanuel è vivo!”,
ripetevano di villaggio in villaggio, di città in città. La gente non sapeva
chi avesse sparso la notizia, ma molti si ricordavano di aver visto una
meravigliosa fanciulla girovagare in compagnia di un vecchio. Chiedevano a
tutti di Emanuel, cercavano le sue tracce. Così arrivarono a Bucegi, dove i
pastori mostrarono loro il cammino verso la grotta dell’Uomo.
Lo trovarono seduto, la
testa appoggiata sulla mano, guardando con cupa malinconia dinanzi a sè. Essi
restarono per lungo tempo a contemplarlo. Poi egli sollevò lo sguardo e gridò:
“Rada!...Ilie!... Voi qui?
Cosa volete da me?”.
“Oh Maestà!”, si lamentò
Ilie, buttandosi in ginocchio davanti a lui. “Potrà mai Sua Altezza perdonare
la mia ingratitudine?”.
Emanuel sobbalzò dapprima,
poi disse:
“Io perdonare? Sia lodato
Iddio che egli mi abbia dato il modo di farlo! Ma te…Rada dov’è il tuo uomo?”.
Un espressione amara contrasse le sue labbra.
“Io non ho marito, ti sono
stata sempre fedele e ti ho cercato in tutto il paese, il cui imperatore tu
sei, siccome tuo padre e il tuo fratellino sono morti”.
Emanuel si alzò bruscamente e dovette poi appoggiarsi alla
roccia:
“Rada”, disse egli, “Io non
sono degno di te. Io sono l’assassino di nostro padre.”
“Lo so”, disse Rada, “lo so
da molto tempo. Egli me l’aveva raccontato in sogno ed è stato sempre lui a
dirmi di cercarti”.
“E tu mi vuoi?”.
Emanuel voleva nascondere il
suo viso tra le mani, ma ella ne lo impedì e si gettò fra le sue braccia.
Allora risuonarono da tutte
le parti grida entusiaste: “Evviva il nostro imperatore! Il nostro buon
imperatore! Il padre dei poveri, il protettore dei deboli, il salvatore di
tutte le miserie! Viva il nostro imperatore!”. E d’un tratto tutti quelli ai
quali aveva fatto del bene lo circondarono, gli baciarono le mani, le vesti, i
piedi chiamandolo Manoil, Manea, dottore ed imperatore. Egli era come stordito
e guardava Rada che annuiva. Poi la prese per mano e disse:
“Ecco la vostra imperatrice,
la donna più devota. Senza di lei voi non mi avreste mai trovato”.
Una folla infinita li
accompagnò fino al castello, la fiumana di gente si ingrossava sempre di più
sulla strada, ognuno veniva a raccontare i suoi benfatti, che, per la maggior
parte, lui aveva pure dimenticato da un po’.
Ilie ridiventò il suo servo
e fu incaricato di cercare tutti quelli che furono cacciati dal servizio per
colpa sua. Rada visse felice e contenta al suo fianco e con i suoi baci
cancellava le rughe che gli solcavano la fronte quando il pensiero gli correva
alla peggior ora della sua vita.
Essi ebbero molti bei bambini.
Nemmeno i figli dei loro figli vivono più, la montagna ancor
oggi si chiama Omul, l’Uomo.
Carmen Sylva è lo pseudonimo letterario della regina della Romania
Traduzione dal originale Pelesch Marchen @ Lucia Teszler con l'aiuto di Paola Silvestri e Oronzo Turi