La fiaba di
Capellidoro, della BuonaCerva e di BelGatto
I. Capellidoro
C’ERA UNA
VOLTA UN RE chiamato Bonaccione. Lui era
amato da tutti perché era buono, solo i malvagi lo temevamo perché era giusto.
La sua donna, la regina Dolcetta, era altrettanto buona quanto lui. Loro ebbero
una piccola principessa, chiamata Capellidoro per via della sua magnifica
chioma bionda. Ella era buona quanto il suo papà, il re, e dolce quanto la sua
mamma, la regina. Purtroppo la regina morì poco tempo dopo aver dato alla
luce Capellidoro e il re la pianse lungamente. Capellidoro era troppo piccina
per capire che aveva perso la mamma; lei continuava a poppare, ridacchiare, giocare
e dormire tranquillamente. Il re amava molto Capellidoro e anche per ella
nessuno al mondo era importante quanto il suo papà. Il padre le regalava i più
bei giocatoli, i cioccolatini più buoni, la frutta più deliziosa. Capellidoro
cresceva felicemente.
Un
giorno re Bonaccione ascoltando i suoi sudditi parlare tra loro, intuì che essi
desideravano che lui si risposasse e che desse al regno un figlio come erede al
trono. All’inizio il re non volle nemmeno sentire, però poi, all’insistenza dei
suoi sudditi, acconsentì. Chiamò a sé il suo consigliere di nome Leggerone e
gli disse:
“Caro
amico, vogliono che io mi risposi. Io però sono ancora così afflitto per la
morte della mia cara Dolcetta, che non ce la faccio ad occuparmi di persona
della ricerca di un’altra donna. Incarico Lei di trovarmi una principessa che
potrebbe rendere felice la mia cara Capellidoro. Non chiedo da lei nient’altro.
Vada dunque carissimo Leggerone e quando avrà trovato una donna perfetta, la
chieda in sposa per me e me la porti.”
Leggerone
partì immediatamente, andò da tutti i re e vide molte principesse: brutte, musone,
malvagie, quando infine arrivò alla corte del re Turbolento. Egli aveva una
figlia bella, intelligente e che sembrava buona. Leggerone la trovò incantevole
e la chiese subito in sposa per re Bonaccione, senza informarsi se colei era
veramente così amabile come sembrava.
Re Turbolento
era molto felice di potersi sbarazzare di sua figlia, che aveva invece un
carattere perfido e prepotente e inoltre gli creava tanti guai, quindi la diede
in fretta a Leggerone purché se la portasse nel regno di Bonaccione.
Leggerone
partì conducendo con sé la principessa Falsetta e quattromila muli che
portavano la dote e i gioielli della principessa.
Arrivarono
dal re Bonaccione che fu avvisato prima del loro arrivo attraverso un corriere;
il re venne incontro alla principessa. Egli la trovò carina, ma comunque
lontano dall’avere un’aria dolce e buona come la povera Dolcetta! Quando
Falsetta vide Capellidoro, la guardò con un sguardo così malvagio che la povera
bimba, che aveva già tre annetti, ebbe paura e si mise a piangere.
“Cosa c’è?”
domandò il re. “Perché la mia dolce e saggia Capellidoro piange come un bambino
viziato?”.
“Babbo,
caro babbo”, piangeva Capellidoro, nascondendosi nelle braccia del suo papà. “Non
darmi a questa principessa! Mi fa paura, ella ha lo sguardo così cattivo.
Il re, incredulo, guardò la principessa
Falsetta che non poté cambiare abbastanza in fretta la sua espressione, cosicché
egli poté osservare quello sguardo crudele che intimoriva tanto Capellidoro.
Decise immediatamente che la sua bambina non dovesse
vivere con la nuova regina e la lasciò con la
sua tata che l’aveva accudita fino ad allora e le voleva tanto bene. La regina
quindi vedeva di rado Capellidoro e quando capitava di vederla non riusciva a nascondere
il suo odio.
Dopo un
anno la Regina Falsetta diede alla luce una bimba con i capelli neri come il
carbone e la chiamò Brunettina. Brunettina era carina, ma molto meno bella di Capellidoro.
In più era malvagia come sua madre e come ella non sopportava Capellidoro; le combinava
infatti tanti guai: la mordeva, la tirava per i capelli, le distruggeva i
giocattoli, le sporcava i bei vestitini. La buona piccola Capellid’Oro non si
arrabbiava mai e trovava sempre scuse per Brunettina:
“Papà”,
diceva ella al re, “non sgridarla! Lei è cosi piccina, non sa che mi fa male
distruggendomi i giocattoli… Mi morde solo per scherzo… Mi tira i capelli solo
per giocare.”
Il re
Bonaccione abbracciava sua figlia e non diceva nulla, ma vedeva che Brunettina
faceva quelle
cose per cattiveria e Capellidoro la
perdonava perché era molto buona. Egli amava sempre più Capellidoro e sempre
meno Brunettina.
La regina
Falsetta, vedeva anche lei tutto questo, ma odiava sempre di più la povera Capellidoro
e, se non avesse temuto il re Bonaccione, l’avrebbe fatta diventare la bambina
più infelice del mondo.
Il re
ordinò che Capellidoro non restasse mai da sola con la regina. Nonostante egli
fosse buono, era risaputo da tutti che puniva severamente i malvagi, per questo
la regina non aveva il coraggio di disobbedire.
II.
Capellid’Oro si smarrisce
Capellidoro aveva già sette anni e
Brunettina quattro. Il re regalò a Capellidoro una bella carrozza, trainata da
due struzzi e guidata da un cocchiere di dieci anni, nipote della tata che
aveva cresciuto Capellidoro. Il bimbo si chiamava Golosetto. Voleva molto bene
a Capellidoro con la quale giocava da quando erano piccolissimi e anche lei era
molto buona con lui. Il cocchiere però aveva un grande debole: i dolci. Sarebbe
stato capace di fare cose malvagie solo per ricevere un sacco di caramelle.
Capellidoro
gli diceva spesso:
“Ti voglio bene Golosetto, ma non mi piace
vederti così goloso, ti prego, prova a rinunciare a questo brutto difetto che
fa inorridire tutti!”
Golosetto le baciava la mano e le
prometteva di migliorare, ma continuava a rubare dolci dalla cucina e caramelle
dalla dispensa. Era spesso punito per la sua disobbedienza e per la sua
golosità smisurata.
Regina Falsetta venne a conoscenza di
questo difetto di Golosetto e pensò di poterlo usare per liberarsi di Capellidoro.
Ecco il progetto che inventò:
Il giardino dove Capellidoro andava a
passeggiare con la carrozza trainata dai due struzzi in compagnia di Golosetto,
si trovava accanto ad una bellissima foresta, chiamata la foresta di Lillà ed
era divisa da un recinto: il recinto divideva il giardino dalla foresta che
tutto l’anno era in fiore, con tanti fiori di lillà. Nessuno si addentrava in
quella foresta giacché tutti sapevano che era una foresta incantata e chi vi
entrava non ritornava mai più. Golosetto conosceva pure lui il terribile segreto
della foresta. Il re gli aveva severamente vietato di portare la carrozza di Capellidoro
da quelle parti, temendo che inavvertitamente sua figlia potesse entrare nella
foresta di lillà.
Varie volte il re aveva provato a
rafforzare il recinto con un muro divisorio o a rendere più spesso il recinto,
ma, ogni volta che metteva le pietre o le divisorie, un potere invisibile le
faceva scomparire.
La perfida regina provò a conquistare
Golosetto, donandogli ogni giorni dei dolci. Quando riuscì a renderlo
dipendente dai suoi dolci, cosicché egli non poté più vivere senza caramelle,
gelati o torte, lo chiamò e gli disse:
“Golosetto, dipende solo da te ricevere un
baule pieno di caramelle e cioccolatini o non mangiare più dolci per tutta la
tua vita.”
“Non mangiare mai più dolci?! Oh Signora,
morirei di tristezza! Mi dica, signora, cosa devo fare per evitare una simile
disgrazia?”
“Devi…”, disse la regina guardandolo negli
occhi, “devi portare la principessa Capellid’Oro vicino alla foresta di Lillà.”
“Non
posso, il re mi ha ordinato di starne alla larga”.
“Non puoi?! Allora vattene! Non ti darò più
dolci e ordinerò che nessuno del palazzo te li dia.”
“Signora, non sia così crudele con me”,
disse piangendo Golosetto, “mi dia un ordine che posso eseguire!”.
“Ripeto, voglio che porti Capellidoro nella
foresta di Lillà, che la incoraggi a scendere dalla carrozza, che oltrepassi il
recinto e si addentri nella foresta.”
“Ma signora”, disse Golosetto tutto pallido
in volto, “se Capellidoro entrasse nella foresta di Lillà, non ne uscirebbe più.
Lei sa bene che la foresta è stregata. Mandare là la principessa è come
mandarla a morte sicura!”
“Ti chiedo per la terza e ultima volta:
vuoi un grande baule pieno di dolci, che io riempirò di nuovo ogni mese o non vuoi
ricevere mai più dolci e caramelle?”
“Ma
chi mi salverà dalla tremenda punizione che mi darà il re?”
“Tu non preoccuparti per questo. Appena
avrai portato Capellidoro nella foresta di Lillà verrai da me. Ti darò il tuo
baule di dolci e al tuo futuro poi ci penserò io.”
“Abbia pietà di me signora, non mi
costringa a portare alla morte la mia cara padroncina, che è stata sempre tanto
buona con me!”
“Esiti ancora, piccolo miserabile?! Che
t’importa di cosa accadrà a Capellidoro? Ci penserò io più tardi a metterti al
servizio di Brunettina e starò attenta che non ti manchino mai le caramelle.”
Golosetto ci pensò ancora, era indeciso se
sacrificare la sua buona principessa per qualche chilo di caramelle. Tutto il
giorno e tutta la notte si tormentò con questa domanda, se valeva la pena o meno
commettere questo crimine. La paura di non poter più soddisfare la sua avida
gola disobbedendo alla regina, insieme alla speranza di poter ritrovare Capellidoro
con l’aiuto di qualche buona fata, misero fine ai suoi dubbi e decise di
ubbidire alla regina.
All’indomani, alle quattro, Capellidoro volle
andare con la sua carrozza, trainata dagli struzzi, a passeggiare, abbracciò e
baciò il suo papà e gli promise di tornare in due ore al castello. Il giardino
era grande, Golosetto guidò gli struzzi nella parte opposta della foresta. Quando
erano già abbastanza lontani e nessuno li poteva ormai vedere, cambiò la
direzione e andò verso il recinto che divideva il giardino dalla foresta. Il
ragazzo era triste e silenzioso, il peccato che stava per commettere gli pesava
sul cuore.
“Cosa ti è successo Golosetto? Perché non
dici una parola? Sei malato per caso?” chiese Capellidoro.
“No
principessa, non sono malato”.
“Quanto sei pallido! Dimmi cosa opprime il
tuo cuore, caro mio Golosetto, che provo ad accontentarti!”
La bontà di Capellidoro rischiava di
ammorbidire e quindi salvare l’animo di Golosetto, ma poi pensò ai dolci
promessi dalla regina malvagia e sconfisse la bontà che stava per sopraffarlo.
Non ebbe neanche il tempo di rispondere che gli struzzi arrivarono al recinto
che portava alla foresta di lillà.
“Oh, che bei fiori di lillà”, esclamò Capellidoro,
“che buon profumo! Come vorrei raccogliere un mazzo di questi rametti di lillà
e donarli a papà! Scendi Golosetto e raccoglimi dei fiori!”
“Io non posso scendere”, disse Golosetto, “gli
struzzi potrebbero fuggire durante la mia assenza.”
“Non
fa niente, riesco a guidarli anche da sola al castello!”
“Ma il re potrebbe arrabbiarsi se ti lascio
sola. Meglio se scendi tu e raccogli i fiori che ti piacciono.”
“E’
vero, mi dispiacerebbe se tu fossi punito per colpa mia, mio caro Golosetto!”
E dicendo questo saltò con leggerezza fuori
dalla carrozza, attraversò il recinto e iniziò a raccogliere i rametti fioriti.
In quel momento Golosetto rabbrividì, i
rimorsi di coscienza gli struggevano il cuore, per cercare di riparare al suo
errore, chiamò qualche volta Capellidoro affinché tornasse, ma, malgrado lei
non si trovasse a nemmeno dieci passi da lui, non lo sentì e si addentrò sempre
di più nella foresta proibita. Per un po’ Golosetto continuò a vederla ancora
raccogliere i rametti con i fiori, ma poi sparì dalla sua vista.
Per lungo tempo pianse ancora Golosetto per
il suo crimine e maledisse la sua avidità: odiava la regina Falsetta.
Finalmente pensò che era già giunta l’ora in cui Capellid’Oro avrebbe dovuto trovarsi
a casa; entrò sulla porta di dietro e andò subito dalla regina che lo
aspettava. Quando scorse il suo volto pallido e gli occhi arrossati dalle
lacrime di rimorso, capì che Capellidoro era perduta.
“Fatto?”,
chiese la regina.
Golosetto
annuì con la testa. Non aveva più la forza di parlare.
“Vieni!”,
disse la regina, “Ecco la tua ricompensa.”
Gli donò quindi un baule pieno zeppo di
dolci di ogni tipo e lo fece mettere su uno dei muli che avevano portato i suoi
gioielli.
“Tieni questo baule Golosetto e vai alla
corte di mio padre. Vattene e torna entro un mese che te ne daro un altro”,
disse e gli diede in mano anche un sacchetto pieno d’oro. Golosetto salì sul
mulo e, senza dire una parola, partì subito al galoppo. Il mulo era testardo,
ma anche imbizzarrito; non sopportava più il peso del baule, così si alzò sulle
zampe posteriori e buttò giù dalla sella il baule e Golosetto che sbatté la
testa sulla ghiaia e morì sul colpo.
Questa fu la ricompensa per la sua avidità.
Non poté nemmeno assaggiare i dolci che gli aveva dato la regina in cambio del
suo crimine.
Nessuno lo pianse, perché nessuno gli
voleva bene al di fuori della povera Capellidoro che si trovava nella foresta
di Lillà.
III.
La Foresta di Lillà
Quando Capellidoro s’addentrò nella foresta,
si mise a raccogliere i più bei rami di lillà, contenta che ce ne fossero tanti
e che profumassero così bene. Ne vedeva sempre di nuovi e di più belli. Allora
svuotava il suo grembiule e il suo capellino che erano già pieni e li riempiva
di nuovo.
Era già passata un’ora da quando Capellidoro
era impegnata così. Cominciava ad avere caldo e a sentirsi stanca, i rametti di
lillà erano pesanti e pensò che era tempo di ritornare al palazzo. Ella cercò
la via di ritorno, ma si vide circondata solo da alberi di lillà. Chiamò
Golosetto. Nessuno le rispose. “Forse mi sono allontanata troppo”, disse Capellidoro,
“devo provare a tornare sui miei passi, anche se sono stanca. Se Golosetto mi
sente mi verrà incontro.”
Camminò così per qualche tempo, ma non vide
la fine della foresta. Invano chiamava Golosetto, nessuno le rispondeva. L’assalì la paura.
“Cosa sarà
di me da sola in questa foresta? Cosa dirà il mio babbo quando non mi vedrà
ritornare? E, povero Golosetto, come potrà tornare senza di me al palazzo? Sarà
sgridato, forse anche picchiato, tutto per colpa mia, perché io volevo raccogliere
i rametti di lillà. Quanto sono disgraziata! Morirò di fame e di sete in questa
foresta, se i lupi non mi mangeranno stanotte!”
Capellidoro
si sedette sotto un grosso albero e pianse lacrime amare. Pianse tanto che si
stancò, poggiò la testa sul mazzo di rami di lillà e s’addormentò.
IV.
Il primo risveglio di Capellidoro. Il BelGatto
Capellidoro dormì tutta la notte, nessun
animale selvaggio disturbò il suo sonno e il freddo non si fece sentire.
All’indomani ella si svegliò tardi e si stropicciò gli occhi, meravigliata di
non trovarsi nella sua stanzetta, ma circondata solo dagli alberi. Chiamò la
sua tata, ma le rispose solo un gentile miagolio.
Stupita, ma non spaventata, Capellidoro si
guardò intorno e vide ai suoi piedi un magnifico gatto bianco che lo guardava
con tenerezza e miagolava.
“Oh, BelGatto quanto sei gentile!”, esclamò
Capellidoro, passando la mano nella sua bella pelliccia, bianca come la neve. “Sono
così contenta di vederti. Mi porterai a casa tua: io ho fame, non ho mangiato
niente e mi mancano le forze per camminare, se non mangio”.
BelGatto miagolò di nuovo e indicò con la
zampetta un fagottino di stoffa bianca e fine, che aveva davanti a sé. Capellidoro
aprì il fagotto e vi trovò dei panini al burro: ne assaggiò uno e lo trovò
delizioso, ne offrì un pezzo anche a BelMicione che lo apprezzò tanto.
Quando sia lei che BelGatto furono sazi, Capellidoro
si chinò sul gatto per accarezzarlo e gli disse:
“Ti ringrazio moltissimo per la merendina
che mi hai dato. Adesso mi potresti portare da mio padre, che sarà molto
preoccupato per me?”.
BelGatto
scosse la testa e fece un miagolio lamentoso.
“Oh, ma tu capisci ciò che ti dico! Allora
ti prego, abbi pieta di me, portami in una casa che io possa non morire di
fame, di freddo e di paura in questa inquietante foresta!”
BelGatto fece segno con la testa per indicare
di aver capito tutto, fece qualche passo e si guardò indietro per essere sicuro
che Capellidoro lo stesse seguendo.
“Eccomi qua BelGatto”, disse Capellidoro, “ti
seguo! Ma come possiamo attraversare questi cespugli? Non vedo nessun sentiero.”
Come risposta, BelGatto si lanciò verso i
cespugli che si aprirono da soli davanti a lui e a Capellidoro e si richiusero
dietro di loro. Stavano camminando così da quasi un’ora, quando la foresta
divenne più chiara, l’erba più fine e i fiori più colorati; si vedevano
uccellini canori bellissimi e scoiattolini che si arrampicavano sugli alberi. Capellidoro,
pensando che ormai stessero uscendo dalla foresta e che presto avrebbe incontrato
suo padre, guardava con gioia tutto ciò che vedeva attorno a sé; si sarebbe
anche fermata volentieri a raccogliere dei fiori, ma BelMicione miagolava
tristemente ogni volta che Capellidoro voleva fermarsi.
Dopo un’ora di cammino Capellidoro scorse
un magnifico castello. BelGatto la condusse fino al recinto dorato. Capellidoro
non sapeva come fare, non c’era alcun campanello e la porta era chiusa.
BelGatto era scomparso. Ella era rimasta sola.
V.
Il BuonaCerva
BelGatto
entrò probabilmente da una porticina per i gatti e avvertì qualcuno del
castello, perché il portone si aprì senza che Capellidoro avesse fatto alcunché.
Entrò nel giardino del castello, ma non vide nessuno. Le porte si aprirono da
sole. Capellidoro entrò in un corridoio di marmo bianco pregiato. Tutte le
volte che lei si avvicinava, le porte si aprivano da sole. Capellidoro
attraversò una serie di bei salotti e alla fine arrivò in un salotto blu dorato.
Su un letto di piante profumate stava riposando una maestosa cerva bianca. BelGatto
le stava accanto. Quando vide Capellidoro, la cerva si alzò e le venne
incontro:
“Benvenuta
Capellidoro. Io e mio figlio ti aspettavamo da un bel po’!”
Sentendo
parlare una cerva, la bambina si spaventò.
“Tranquilla, sei tra amici, conosco bene
tuo padre e gli voglio bene come voglio bene a te.”
“Gentile Signora, se Lei conosce mio padre,
il re, mi aiuti a tornare da lui, sarà molto preoccupato per la mia assenza.”
“Mia cara”, sospirò la cerva, “Non posso farti
ritornare da tuo padre. Ti trovi sotto il potere del mago della Foresta di Lillà.
Anch’io sono sotto il suo potere che è più forte del mio. Manderò a tuo padre,
invece, sogni che lo rassicureranno sulla tua sorte, lui capirà così che sua
figlia si trova da me.”
“Cosa?
Signora”, esclamò Capellidoro, “vuol dire che non rivedrò più il mio caro padre?!”
“Cara Capellidoro, non pensiamo ora
all’avvenire. La saggezza è sempre ricompensata. Ritroverai tuo padre, ma non
ora. Abbi pazienza, sii gentile e ubbidiente. BelGatto e io faremo di tutto
perché tu sia felice.”
Capellidoro sospirò profondamente e lasciò
cadere qualche lacrima. Poi pensò che doveva sentirsi riconoscente nei
confronti della cerva, invece di farle credere che trovarsi in loro compagnia
fosse per lei una sofferenza e si sforzò di essere ben disposta. BuonaCerva e
BelGatto la portarono nella sua stanza. La stanza preparata per Capellidoro era
tutta tappezzata di seta rossa e ricamata con del filo d’oro. I mobili erano rivestiti
di velluto bianco, ricamato con fili di seta splendente. Là erano rappresentati
tanti animali: uccelli, farfalle, insetti. Accanto c’era la sua stanza di
lavoro, tappezzata con la seta di colore celeste e ricamata con le perline. I
mobili erano rivestiti con seta color argento e con borchie turchine. Sulla
parete vi erano due ritratti: rappresentavano una donna giovane e splendida e
un giovane uomo affascinante, i loro vestiti indicavano la loro origine regale.
“Di
chi sono questi ritratti, signora?” domandò Capellidoro.
“Non posso risponderti bambina mia”, disse
la Cerva. “Più tardi lo saprai, ma ora è pronta la tavola per la cena. Devi
aver fame.”
Infatti Capellidoro moriva di fame. Seguì
BuonaCerva nella sala da pranzo dove la tavola era apparecchiata in un modo
particolare. Per terra c’era un grande cuscino, rivestito di seta bianca per
BuonaCerva. Davanti a lei c’era un mazzo di erbe selezionate, fresche e
succulenti e in un vasetto d’oro c’era dell’acqua fresca e limpida. Nella parte
opposta della tavola c’era una sedia alta per BelGatto, davanti a lui, in una
casseruola dorata, c’erano tanti pezzi di pesce e beccaccino fritti. C’era
inoltre un piatto di cristallo, colmo di latte fresco. Tra BuonaCerva e
BelGatto c’era una poltroncina scolpita d’avorio, coperta di velluto rosso,
fissato con chiodi di diamante per Capellidoro. Davanti ad ella stava un piatto
d’oro, pieno di verdure e frittura di pollo e beccaccini e un panino fresco. Il
cucchiaio e la forchetta erano d’oro e il tovagliolo di una stoffa molto fine.
Il bicchiere e la brocca d’acqua erano di cristallo. Il servizio a tavola era
gestito da alcune belle gazzelle, che indovinavano tutti i desideri di Capellidoro,
di BuonaCerva e di BelGatto.
La cena era squisita, con pietanze
raffinate e succulenti. I dolci, una vera goduria. Capellid’Oro aveva fame e
mangiava tutto con appetito. Dopo la cena tutti e tre andarono a fare una
passeggiata sugli incantevoli sentieri del giardino, pieno di fiori e alberi di
frutta. Dopo la passeggiata, Capellidoro era stanca e BuonaCerva la portò a
dormire. Nella sua stanza la aspettavano due gazzelle, che la aiutarono con
grande abilità a cambiarsi e vegliarono poi il suo sonno.
Capellidoro si addormentò subito, non prima
però di aver pensato a suo padre ed aver pianto per essere lontana da lui.
VI.
Il secondo risveglio di Capellidoro
Capellidoro dormì profondamente e quando si
svegliò le sembrò di non essere più la stessa persona che era quando andò a
dormire. Le sembrava di essere diventata più grande, di pensare come un adulto,
di aver imparato molte cose, come se durante il sonno avesse letto tanti libri e
avesse scritto, disegnato, cantato, suonato il pianoforte e l’arpa.
Tuttavia,
la stanzetta era uguale a quella in cui, la sera prima, ‘BuonaCerva la portò a
dormire.
Turbata e irrequieta, andò a guardarsi allo
specchio e vide una bella ragazza, incantevole, e quasi non si riconobbe perché
cento volte più bella di quando era andata a dormire. I suoi bei capelli le
arrivavano fino alle caviglie, la sua pelle bianca e rosea, i begli occhi
azzurri, il nasino piccolo, la boccuccia piccola e rosa, le sue guance rosa, la
sua vite sottile e graziosa. Non aveva mai visto, in vita sua, una ragazza così
bella.
Scombussolata e spaventata si vesti in
fretta e corse da BuonaCerva. La trovò nello stesso salotto dove l’aveva vista
per la prima volta.
“BuonaCerva!”, gridò lei, “Cosa mi è successo?
Sono andata a letto bambina e mi sono svegliata adulta? Mi sbaglio o sono
cresciuta così tanto in una sola notte?”.
“Non ti sbagli Capellidoro, oggi compi
quattordici anni. Il tuo sogno è durato sette anni. Quando sei arrivata da noi
non sapevi scrivere e leggere. Mio figlio BelGatto e io stessa abbiamo voluto
risparmiarti le fatiche dei primi anni di studio. Hai dormito per sette anni e
durante questi noi ti abbiamo dato un’istruzione, ti abbiamo insegnato una serie
di cose mentre dormivi. Vedo invece nei tuoi occhi che dubiti delle tue
conoscenze. Vieni allora con me nella tua stanza di lavoro e vedrai quante cose
conosci.
Capellid’Oro seguì BuonaCerva nella sua
stanza di studio. Si sedette al pianoforte e si mise a suonare, vide che
suonava bene. Provò anche con l’arpa e vide che sapeva suonare benissimo a
anche l’arpa e sapeva cantare in maniera meravigliosa. Prese la penna e il
pennello e vide che sapeva scrivere e dipingere bene. Poi sfogliò dei libri e
le sembrò di averli già letti. Sorpresa ed emozionata abbracciò BuonaCerva e
BelGatto.
“Oh! Miei meravigliosi amici! Quanto vi
sono grata che avete così tanto curato la mia educazione, facendo crescere la
mia anima e il mio spirito!”.
BuonaCerva
la accarezzò, BelGatto la leccò con delicatezza sulle mani. Dopo i primi
momenti di gioia, Capellidoro disse però con timidezza:
“Non pensate che io non vi sia riconoscente,
cari amici miei, se oltre tutto ciò che avete già fatto per me vorrei sapere
anche cosa fa mio padre. Piange ancora per me? E’ mai riuscito a tornare sereno
dopo che mi ha perso?”.
“Il tuo desiderio è troppo legittimo per
non essere soddisfatto. Guarda in questo specchio Capellid’Oro e vedrai tutto
ciò che è avvenuto da quando sei qui e anche cosa sta facendo adesso tuo padre.”
Capellidoro guardò e vide l’appartamento di
suo padre: il re camminava su e giù con aria pensierosa, sembrava che aspettasse
qualcuno. La regina Falsetta entrò e disse al re che Capellidoro, malgrado il
divieto e le insistenze di Golosetto , volle lei stessa portare la carrozza con
gli struzzi verso la foresta di Lillà, dove la carrozza traballò e Capellidoro
fu buttata oltre il recinto nella foresta. Golosetto perse la testa per il dolore
e la paura, quindi fu rimandato dai suoi genitori. Vide il re disperato correre
verso la foresta di Lillà e solo usando la forza gli impedirono di addentrarsi
per cercare Capellidoro. Quando fu portato a casa era devastato dal dolore e
chiamava continuamente la sua cara figliuola. Alla fine s’addormentò e vide nel
sonno che Capellidoro si trovava al castello di BuonaCerva e di BelGatto. BuonaCerva
lo rassicurò che Capellidoro avrebbe vissuto un’ infanzia felice e tranquilla e che un
giorno l’avrebbe rivista.
Lo specchio diventò opaco, poi si schiarì
nuovamente e Capellidoro vide ancora suo padre. Adesso sembrava invecchiato,
aveva i capelli bianchi e un’aria addolorata. Teneva vicino a sé un piccolo
ritratto di Capellidoro che baciava spesso, fra le lacrime. Era solo. Capellidoro
non vedeva né Brunettina, né Falsetta.
Pianse
disperatamente:
“Perché mio padre non ha nessuno accanto a
sé? Dove sono mia sorella Brunettina e la regina?”
“La regina ha dimostrato così poca
afflizione per la vostra morte (perché vi credevano morta, cara)”, spiegò BuonaCerva,
“che il re iniziò a odiarla e la rimandò da suo padre Turbolento, il quale la rinchiuse
in una torre, dove morì di rabbia e di noia.”
“Vostra sorella, Brunettina è diventata
perfida e violenta, così vostro padre la diede in fretta in sposa ad un
principe di nome Arrabbiato, che ha un comportamento rude e adesso pensa lui a
lei. Brunettina si è accorta che la malvagità non porta felicità e adesso sta
provando a cambiare. Quando la rivedrete, l’aiuterete a migliorare col vostro
esempio.”
Capellidoro ringraziò gentilmente per
queste notizie. Avrebbe voluto chiedere ancora quando poter rivedere suo padre,
ma, per non sembrare ingrata e frettolosa nel voler abbandonare i suoi amici, decise
di aspettare un momento migliore per porre questa domanda.
Le giornate di Capellidoro passavano in
fretta perché aveva sempre tante cose da fare, tuttavia a volte era triste. Con
BuonaCerva poteva parlare solo a tavola o durante le lezioni, BelGatto la comprendeva,
ma, dato che poteva risponderle solo miagolando, l’unico modo di farsi capire era
attraverso i segni. Le gazzelle che la servivano erano mute.
Capellidoro andava a passeggiare sempre in
compagnia di BelGatto che le mostrava i più bei sentieri e i più bei fiori. BuonaCerva
fece promettere a Capellidoro di non oltrepassare mai il recinto del giardino e
non entrare mai nella foresta. Capellidoro le domandò varie volte il perché di
questa grande difesa, ma ottenne sempre la stessa risposta:
“Capellidoro non entrare mai nella foresta!
E’ una foresta proibita, che porta solo disgrazie! Meglio se non entri mai!”.
A volte ella andava nel padiglione che si
trovava su un’altura da dove vedeva bene la foresta, vedeva alberi bellissimi,
fiori incantevoli e uccelli canori che volavano di qua e di là; sembrava che la
chiamassero a sé.
“Come mai BuonaCerva non mi permette di
andare in questa foresta? Che pericoli posso incontrare?”.
Ogni volta, quando pensava a queste cose,
BelGatto, miagolando in maniera lamentosa, la tirava per il vestito, forzandola
a scendere dal padiglione.
Capellidoro
sorrideva, seguiva BelGatto e continuava le passeggiate nel parco solitario.
VII
Il pappagallo
Erano passati quasi sei mesi da quando Capellidoro
si era svegliata dal suo sonno di sette anni. Era tanto tempo. Le mancava suo
padre ed era triste. I suoi amici sembravano indovinare i suoi pensieri. BuonaCerva
sospirava, BelGatto miagolava in maniera lamentosa. Capellidoro evitava di
parlare di ciò che le struggeva l’animo, perché BuonaCerva le aveva così promesso:
“Rivedrai tuo padre quando compirai quindici anni, se continuerai a comportarti
in maniera saggia, ma ascoltami, non chiederti sempre sull’avvenire e
soprattutto non provare a lasciarci.”
Una mattina Capellidoro stava sola e
meditava sulla sua vita strana e monotona. Fu svegliata da tre colpetti alla
finestra che la fecero trasalire: vide un pappagallo verde col collare e la
cresta arancioni. Sorpresa da quella apparizione, aprì la finestra e fece
entrare il pappagallo. Ancor più grande fu la sua meraviglia quando il
pappagallo si mise a parlare con voce rauca:
“Buongiorno Capellidoro, so quanto Lei si
annoia qualche volta e ha tanta voglia di chiacchierare con qualcuno. Per
questo sono venuto a tenervi compagnia, ma per carità non dica a nessuno che mi
ha visto, perché BuonaCerva mi torcerebbe il collo.”
“Ma cosa dici bel pappagallo! BuonaCerva
non farebbe mai male a nessuno! Lei odia solo i malfattori.”
“Capellidoro, se non mi promette di tener
segreta la mia visita con BuonaCerva e BelMicione, me ne vado subito e non
torno più.”
“Se lo desidera così tanto, glielo prometto
bel pappagallo. Chiacchieriamo un po’, da tanto tempo non chiacchiero con
nessuno! Lei mi sembra allegro e spiritoso! E molto divertente!”
Capellidoro ascoltava le storie del
pappagallo, i suoi complimenti teatrali sulla sua bellezza, sul suo talento e
sul suo spirito. Capellidoro era affascinata. Dopo un’ora il pappagallo volò
via, non prima di aver promesso che sarebbe tornato il giorno dopo. Lui ritornò
così per diversi giorni e continuava a lusingare e divertire Capellidoro. Una
mattina bussò alla finestra e disse:
“Capellidoro, Capellidoro! Apri in fretta,
ti porto notizie da tuo padre, ma non fare molto rumore se non vuoi che mi si
torca il collo.”
Capellidoro
aprì la finestra e disse:
“Parla, hai davvero notizie di mio padre,
bel pappagallo? Dimmi, ti prego, dimmi come sta.”
“Vostro padre sta bene Capellidoro, ma
piange ogni giorno per la vostra assenza. Gli ho promesso di impegnare tutte le
mie forze per liberarvi dalla vostra prigione, ma non posso far nulla senza il vostro
aiuto.”
“Prigione? Ma cosa dici? Tu non hai la minima
idea di quanto siano gentili con me i miei amici, quanto mi vogliano bene. Loro
sarebbero tanto contenti di farmi tornare da mio padre. Vieni con me, ti
presento a BuonaCerva.”
“Capellidoro, tu non conosci i tuoi amici”,
disse il Pappagallo con voce rauca. “Loro mi odiano perché a volte sono
riuscito a portar via le loro vittime. Non rivedrai mai più tuo padre, non
uscirai mai da questa foresta se non riesci tu stessa a trovare il talismano che
ti tiene legata qui.”
“Quale talismano? Non so di cosa parli. Che
interesse avrebbero BuonaCerva e BelGatto a tenermi rinchiusa qui?”.
“Per non annoiarsi da soli, Capellidoro.
Per quanto riguarda il talismano è una semplice rosa che tu devi cogliere per
liberarti di questo esilio e tornare fra le braccia di tuo padre.”
“Dove
posso cogliere la rosa? Nel giardino non ci sono delle rose.”
“Te lo dirò dopo, adesso non posso dirti di
più, devo andare via perché sta arrivando la Cerva, ma se vuoi capire il potere
della rosa, chiedilo a BuonaCerva, vedrai cosa ti risponderà. A domani, Capellidoro,
a domani!”.
Il pappagallo volò via contento per essere
riuscito a seminare nel cuore della fanciulla i germi della diffidenza,
dell’ingratitudine e della disubbidienza. Appena se ne andò il pappagallo,
arrivò BuonaCerva, sembrava agitata.
“Con chi parlavi Capellidoro?”, le domandò
guardando con sospetto verso la finestra aperta.
“Con
nessuno, Signora!”, rispose Capellidoro.
“Sono
sicura di averti sentita parlare.”
“Probabilmente
parlavo da sola.”
BuonaCerva
non rispose. Ella era triste, le cadde anche una lacrima.
Capellidoro era preoccupata anche lei. Le
parole del pappagallo le fecero vedere in una luce nuova il suo rapporto e i
suoi obblighi verso BuonaCerva e BelGatto. Invece di pensare che una cerva che
parla, che ha il potere di rendere intelligenti le bestie, di addormentare una
bimba per sette anni ed occuparsi della sua educazione, che una cerva che abita
ed è servita come una regina non può essere una cerva qualsiasi, invece di
pensare con gratitudine a tutto ciò che BuonaCerva aveva fatto per lei in
questi anni, Capellidoro iniziò a credere ciecamente a tutto ciò che le aveva
raccontato questo pappagallo sconosciuto, di cui nessuno garantiva la veridicità
e che non aveva alcun interesse a rischiare la vita per liberarla. Lei si
fidava di lui perché lui l’aveva lusingata. Capellidoro ormai non sentiva più riconoscenza
per la vita serena e tranquilla che aveva con BuonaCerva e BelGatto, decise
quindi di seguire i consigli del pappagallo.
Chiese
durante la giornata:
“BuonaCerva, perché tra tanti bei fiori nel
nostro giardino, non trovo il fiore più bello: la rosa?”
BuonaCerva
ebbe un brivido e disse preoccupata:
“Capellidoro, Capellidoro, non chiedermi
questo fiore perfido che punge tutti quelli che lo toccano. Non parlarmi più di
questo fiore. Tu non sai che pericoli nasconde questo fiore per te.”
I
tratti di BuonaCerva divennero così severi che Capellidoro non osò insistere.
La giornata finì male, Capellidoro era
imbarazzata, BuonaCerva era scontenta e BelGatto era triste.
La mattina dopo Capellidoro aspettava alla
finestra e, appena l’aprì, il pappagallo entrò.
“Ecco Capellidoro, hai visto quanto era
turbata BuonaCerva quando le hai detto della rosa. Io ti ho promesso di
aiutarti a trovare questo fiore affascinante. Ecco, devi uscire dal parco ed
addentrarti nella foresta. Ti accompagnerò, ti porterò là dove si trova la più
bella rosa del mondo.
“Come potrei uscire dal parco? BelGatto è
sempre sui miei passi quando faccio le passeggiate.”
“Prova
a liberarti di lui, se non ti permette di uscire, esci lo stesso!”.
“Se
la rosa di cui parli si trova lontano, si accorgeranno della mia assenza.”
“E’ a un’ora di cammino. BuonaCerva è stata
attenta a tenerti lontana dalla rosa, perché tu non possa uscire da questa
prigione!”.
“Ma a che scopo mi tiene in prigione?
Quanto è potente? Non potrebbe trovarsi altri piaceri piuttosto che dedicarsi
all’educazione di un bambino?”.
“Questo ti verrà spiegato più in là, Capellidoro”,
disse il pappagallo, “quando tornerai da tuo padre. Sii decisa, Capellidoro!
Durante la passeggiata mattutina, molla BelMicione ed esci nella foresta, io ti
aspetterò.”
Capellidoro
promise e chiuse la finestra per paura che BuonaCerva la scoprisse.
All’indomani, dopo la colazione, Capellidoro
andò a fare la sua solita passeggiata. BelMicione la seguiva, malgrado il
comportamento dispettoso di Capellidoro. Arrivati al sentiero che portava alla
foresta, Capellid’Oro disse a BelGatto:
“Voglio
essere sola, vattene, BelGatto!”.
BelGatto finse di non capire. Capellidoro si
dimenticò così tanto di se stessa che gli diede un calcio.
BelGatto
miagolò in maniera lugubremente triste e corse al castello.
Capellidoro rabbrividì al sentire il grido
di BelMicione, volle richiamarlo, rinunciare alla rosa e raccontare tutto a BuonaCerva,
ma le mancò il coraggio e si vergognò. Non senza paura aprì il cancello e,
malgrado la paura, entrò nella foresta. Il pappagallo l’aspettava già.
“Forza,
Capellidoro! In un’ora siamo arrivati alla Rosa che ti riporterà da tuo padre.”
Tali parole ridiedero a Capellidoro la
determinatezza e la fiducia che iniziavano a scemare. Avanzava sul sentiero che
il pappagallo le indicava volando da un ramo all’altro. La foresta, che dal
giardino di BuonaCerva sembrava così bella, diventava sempre più difficile da
penetrare, dovunque s’imbatteva in rovi e pietre, non si sentivano più gli
uccelli, i fiori erano spariti. Capellidoro cominciava a sentirsi sopraffatta
da uno strano malessere. Il pappagallo la invitava a muoversi.
“Sbrigati,
Capellidoro. La Cerva si renderà conto che non ci sei, ti inseguirà, mi
storcerà il collo e tu non vedrai più tuo padre.”
Stanca, respirando con affanno, con le
braccia e i piedi graffiati, con le scarpe rotte, Capellidoro stava per
rinunciare a proseguire, quando il pappagallo gridò:
“Siamo
arrivati, Capellidoro. Ecco il posto delle rose!”.
Capellidoro vide alla fine del sentiero un
recinto che fu aperto dal pappagallo. Il terreno attorno era pieno di pietre,
ma nel mezzo si trovava un magnifico cespuglio di rose con una Rosa più bella
di tutte le rose del mondo.
“Coglila,
Capellidoro, l’hai davvero meritata!”, disse il pappagallo.
Capellidoro tirò il ramo verso di sé e,
malgrado le spine le pungessero le dita, prese la rosa. Nello stesso momento,
sentì una forte risata e la rosa le cadde dalle mani urlandole:
“Grazie, Capellidoro, che mi hai liberato
dalla prigione nella quale mi teneva rinchiuso il potere della BuonaCerva. Io
sono il tuo genio malvagio , ormai sei sotto il mio potere.”
“Ha, ha, ha”, rise il pappagallo, “Capellidoro,
ormai posso tornare alla mia forma di stregone. Mi è stato più facile convincerti
di quanto credessi. Ti ho resa facilmente malvagia e ingrata, semplicemente
lusingando la tua vanità. Tu stessa hai causato la morte dei tuoi amici, il cui
nemico mortale sono io. Addio Capellidoro.”
Con queste parole sparirono sia il
pappagallo che la rosa. Capellidoro restò sola nella fitta foresta.
VII.
Espiazione
Capellidoro restò pietrificata. Il suo
comportamento le si rivelava in tutto il suo orrore: era stata ingrata nei
confronti dei suoi amici devoti, che l’avevano cresciuta per sette anni. Chissà
se sarebbero mai riusciti a perdonarla? Che ne sarà di lei se non volessero
riprenderla? Inoltre, cosa significavano le parole malvagie del pappagallo: “Tu
stessa hai causato la morte dei tuoi amici”?.
Volle subito tornare al castello di BuonaCerva.
I rovi e le spine le sfregiavano le braccia, le gambe e il viso, tuttavia continuava
a farsi strada tra i cespugli e, dopo tre ore di penosa marcia, arrivò nel
luogo in cui si trovava il castello di BuonaCerva e BelGatto. Ciò che vide non
lo dimenticò mai. Al posto del bel castello vi erano solo delle rovine. Invece
dei fiori e begli alberi vi erano solo rovi, cardi e ortiche. Terrificata e
desolata, volle penetrare dentro le rovine del castello per vedere cosa fosse avvenuto
ai suoi amici. Un grande rospo uscì da sotto una lastra di pietra e le sbarrò
la strada:
“Cosa fai ancora qui? Non è stata proprio
la tua ingratitudine a causare la morte dei tuoi amici? Vattene! Non offendere
il loro ricordo con la tua presenza!” disse il rospo
“Oh, miei cari amici! BuonaCerva, BelGatto”,
pianse Capellidoro, “magari potessi espiare con la mia morte la disgrazia che
vi ho causato.”
S’inginocchiò sui rovi e le ortiche
piangendo amaramente, devastata dal dolore. Non sentiva nemmeno le spine dei
cardi o le pietre taglienti. Pianse così per molto tempo, poi si alzò per
cercare un riparo, ma non trovò che pietre e rovi. “Va bene, che mi mangino gli
animali selvaggi o che io muoia di freddo e di dolore. Almeno la mia anima spirerà qui sulla tomba dei miei
amici, BuonaCerva e BelGatto.” Appena pronunciò tali parole, sentì una voce:
“Il
rimpianto fa riscattare molte cose.”
Alzò
la testa verso il cielo, ma non vide altro che un Corvo che volteggiava sopra
di lei.
“Quanto amaro sarà il mio pentimento, potrò
mai far tornare alla vita BuonaCerva e BelGatto?”
“Forza, Capellidoro! Espia la tua colpa col
rimpianto. Non farti però accecare dalla disperazione!”.
Povera Capellidoro! Si alzò e si allontanò
da quel luogo di desolazione e di tristezza. Percorse uno stretto sentiero in
quella parte della foresta dove i grossi alberi avevano preso il posto dei rovi
e la terra era coperta dal muschio. Capellidoro, sfinita per la stanchezza ed il
dolore, crollò accanto a uno di questi begli alberi e continuò a piangere
singhiozzando.
“Coraggio,
Capellidoro! Spera!” le disse una voce.
Lei
non vide che una rana la stava guardando con occhi compassionevoli.
“Cara ranocchia, sembri avere compassione
del mio dolore. Cosa sarà di me, ormai che mi trovo sola al mondo?”.
“Coraggio
e speranza”, riprese la voce.
Capellidoro sospirò. Provò a trovare
qualche frutto per saziare la sua sete e la sua fame, ma non trovò nulla. Un
rumore di campane la tolse dai suoi pensieri tristi. Vide avvicinarsi
lentamente una bella mucca, che si fermò accanto a lei e le fece vedere che
aveva una ciotola a tracolla. Riconoscente per l’aiuto inatteso, Capellidoro
prese la ciotola, munse la mucca e bevve con tanto appetito due ciotole intere
di latte. La mucca le fece segno di mettere a posto il vaso. La fanciulla la
abbracciò e le disse con tristezza:
“Sicuramente questo regalo le devo ai miei
poveri amici. Dall’altro mondo hanno visto il mio pentimento e hanno pensato di
allievare così le mie sofferenze.”
“Il
pentimento fa perdonare molti errori”, si sentì dire dalla voce.
“Nemmeno
se piangessi per mille anni non perdonerei il mio errore.”
Imbruniva. Malgrado la desolazione, Capellidoro
pensò che comunque sarebbe stato meglio ripararsi di notte dagli animali
selvatici, i cui ruggiti sembrava sentire. Scorse, a qualche passo di distanza,
un riparo fatto di rami intrecciati di vari arbusti. Doveva un po’ piegarsi per
entrare, poi, aggiungendo un po’ di rametti, riuscì a farsi una deliziosa
capanna Dato che c’era ancora luce, raccolse del muschio, si fece un materasso
e un cuscino morbidi. Prese alcuni rami più grossi che fissò dentro la terra
per nascondere e proteggere l’entrata della sua casetta, poi entrò e si
addormentò per la stanchezza. Quando si svegliò, il sole era già alto nel
cielo. All’inizio fece fatica a raccogliersi le idee, poi si ricordò della
triste realtà e iniziò a piangere e lamentarsi. Aveva fame. Iniziava a
disperarsi per cosa avrebbe mangiato. Nuovamente sentì le campane della mucca: bevve
latte in gran quantità, poi rimise la ciotola a posto, abbracciò la Bianchina e
la seguì con lo sguardo quando si allontanò, nella speranza di rivederla
ancora. Infatti ogni giorno, alla mattina, a mezzogiorno e all’ora di cena, Bianchina
offriva alla ragazza il suo pasto frugale. Capellidoro passava il suo tempo
piangendo per i suoi amici.
“Con la mia disobbedienza, ho causato una
disgrazia che mai potrò riparare. Non ho perso solo i miei amici, ma ho perso
anche l’unica possibilità di rivedere mio padre, che forse ancora aspetta la
sua figlia disgraziata, obbligata a vivere sola in questa terribile foresta,
regnata dal mio demone malvagio.”
Per distrarsi, Capellidoro sistemò la sua
capanna: costruì il suo bel letto di muschio e foglie, intrecciò una sedia di
rami, con qualche spina lunga e sottile fece degli aghi, con qualche pezzo di
canapa, trovato nelle vicinanze della capanna, si fece dei fili, quindi rammendò
le sue scarpe rovinate dai rovi.
Passarono così sei settimane. La sua
tristezza e il suo pentimento erano forti come prima, la vita solitaria e
difficile che viveva aveva rinforzato i sinceri rimpianti per i suoi errori.
Avrebbe accettato di vivere tutta la sua vita in questa foresta, se attraverso
ciò avesse riscattato la vita di BuonaCerva e di BelGatto.
IX.
La tartaruga
Un giorno se ne stava seduta sull’uscio
della sua capanna, rammentando tristemente sul danno che aveva causato ai suoi
amici e le apparve una tartaruga gigante che le disse con voce gutturale:
“Capellidoro,
mettiti sotto la mia protezione, io
ti portarò fuori dalla foresta!”.
“E perché dovrei cercare di uscire da
questa foresta, signora Tartaruga? Qui ho provocato la morte dei miei amici,
qui voglio morire anch’io.”
“Tu
sei sicura che i tuoi amici siano morti?”
“Cosa? Potrebbero essere ancora in vita?
No, non ci credo. Ho visto il loro castello in rovine. Il Pappagallo e il Rospo
mi hanno detto che sono morti. Lei è cosi buona che vuole alleviare il mio
dolore, ma io non ho più il coraggio di sperare. Se vivessero, non mi avrebbero
lasciata disperare con il pensiero che ho provocato la loro morte.”
“Anche loro potrebbero essere in balia di
un potere che è più grande di loro e forse ti hanno abbandonata malgrado la
loro volontà. Come ti ho detto, il rimpianto può riscattare molte colpe.”
“Cara signora Tartaruga, se loro sono
ancora in vita, me lo dica la prego, che non ho sul cuore la loro morte e che
posso sperare di rivederli un giorno. Accetto qualsiasi punizione per avere
questa felicità.”
“Capellidoro, non mi è permesso di rivelarti
la sorte dei tuoi amici, ma se hai il coraggio di salirmi in groppa, di viaggiare
così per sei mesi senza farmi alcuna domanda, ti porterò in un posto dove
conoscerai tutto ciò che vuoi sapere!”.
“Le prometto tutto ciò che vuole, signora
Tartaruga, pur di sapere cos’è accaduto ai miei amici.”
“Stai attenta, Capellidoro. Sei mesi senza
scendere dalla mia groppa, senza proferire una parola! Una volta che saremo
partititi, se tu non avrai il coraggio di andare fino in fondo, resterai per
sempre sotto il potere del stregone Pappagallo e di sua sorella Rosa e non
potrò mandarti nemmeno i piccoli soccorsi che ti ho inviato in queste sei
settimane.”
“Andiamo Signora Tartaruga! Partiamo subito!
Preferisco morire di stanchezza e noia che di rimpianto e d’ansia. Ciò che mi
ha detto mi ha ridato il coraggio e un barlume di speranza, adesso sento di
poter fare un viaggio ancor più faticoso di quello di cui mi parla.”
“Come desideri, Capellidoro. Salimi in
groppa. Non soffrirai né sete, né fame, né sonno. Per tutto il tempo del nostro
viaggio non ti succederà niente di male. “
Capellidoro
salì in groppa alla tartaruga.
“Da ora, silenzio!”, disse, “Non più una
parola fino a quando arriveremo e anche allora aspetterai che parli io per
prima.”
X.
Il viaggio e l’arrivo
Il cammino di Capellidoro durò sei mesi, proprio
come aveva promesso la tartaruga. Passarono tre mesi prima di farcela ad uscire
dalla foresta. Dopodiché attraversarono un’arida pianura per altre sei
settimane. Alla fine della pianura Capellidoro scorse un castello che le faceva
venire in mente quello della BuonaCerva. Dopo un altro mese di viaggio avevano
raggiunto appena il grande viale che portava al castello. “Chissà se non sarà
proprio questo il posto dove potrò sapere qualcosa sulla sorte dei miei amici?”,
si domandava Capellidoro, ma, malgrado la tormentava l’impazienza, non osava
chiedere. Se avesse potuto scendere e correre, sarebbe arrivata al castello in
pochi minuti, ma la Tartaruga continuava ad incedere con lentezza e Capellidoro
rispettò la parola data. Non disse nulla. Si rassegnò ad aspettare, malgrado
tutto. La Tartaruga sembrava rallentare, invece di affrettare il passo. Ci mise
altri quindici giorni per percorrere questa grande viale. A Capellidoro
sembrarono quindici secoli. Non perdeva di vista il castello e la porta. Sembrava
un castello abbandonato, non si vedeva alcun movimento attorno ad esso.
Finalmente, passati i centottanta giorni, la tartaruga si fermò e disse:
“Scendi ora! Giacché mi hai obbedito e sei
stata coraggiosa, meriti la ricompensa che ti avevo promesso. Entra nella
piccola porta davanti a te e chiedi, alla prima persona che incontri, della
fata di nome Gentilezza e lei ti dirà cos’è accaduto ai tuoi amici.”
Capellidoro saltò giù vivacemente dalla
groppa della tartaruga. Temeva che dopo una così lunga immobilità non sarebbe riuscita
più ad usare le sue gambe. Invece si sentiva leggera, come quando viveva
felicemente con BuonaCerva e BelMicione, quando correva tutto il giorno nel
bellissimo giardino tra fiori e farfalle.
Dopo aver ringraziato di cuore la tartaruga,
aprì la porta e si trovò faccia a faccia con una ragazza vestita tutta di
bianco che le domandò con voce gentile: “Con chi desidera parlare?”.
“Sto cercando la fata Gentilezza. Le dica
per favore che la principessa Capellidoro la prega gentilmente di riceverla.”
“Mi
segua principessa”, disse la ragazza
Capellidoro la seguì tremando. Attraversarono
tanti bei salotti, incontrarono tante altre giovani in bianco, come colei che
la stava guidando. La guardavano sorridenti, come se la conoscessero.
Arrivarono in un salotto molto bello, che rassomigliava a quello della cerva
nella Foresta di Lillà.
Questa reminiscenza la impressionò così
profondamente che non si accorse nemmeno della scomparsa della ragazza in bianco
che prima le stava accanto. Guardò con tristezza i
mobili del salotto. Erano gli stessi del salotto della Cerva nella Foresta di
Lillà, in più c’era solo
un bell’armadio grosso, lavorato in maniera
pregiata in avorio e oro. Capellidoro si sentiva attratta in modo inspiegabile
da questo armadio, lo guardava senza poter distogliere lo sguardo, in quel
momento la porta si aprì ed entrò una bella donna, ancora giovane e vestita in
maniera molto raffinata. Ella si avvicinò a Capellidoro e le chiese con voce
dolce e carezzevole:
“Che
cosa desideri da me, cara bimba mia?”.
“Cara Signora!”, disse Capellidoro buttandosi
davanti ai suoi piedi, “Mi hanno detto che Lei potrebbe farmi avere delle
notizie sui miei buoni amici BuonaCerva e BelGatto. Gli ho persi per colpa mia,
perché non li ho ascoltati. Ho pianto per lungo tempo, credendo fossero morti, ma
la Tartaruga che mi ha portato qui, mi ha dato nuove speranze dicendomi che
magari sono ancora vivi e che forse potrei ritrovarli. Mi dica signora se sono
vivi e cosa devo fare per meritare di rivederli.”
“Capellidoro”, disse la fata Gentilezza con
aria molto triste, “tu conoscerai la sorte di tuoi amici, ma qualsiasi cosa
accadrà non perdere mai la speranza e il coraggio.” Dicendo tali parole, prese
per mano la ragazza che tremava e la condusse all’armadio bianco.
“Ecco Capellidoro la chiave di quest’armadio.
Aprilo e sii forte”, disse e le diede in mano una chiave d’oro.
Capellidoro prese la chiave con mano
tremante e aprì l’armadio. Ma cosa vide dentro? La pelle della BuonaCerva e di
BelGatto, agganciate su chiodi di diamante. Capellidoro emise un grido
disperato e svenne fra le braccia della fata.
La porta si aprì nuovamente e un principe,
bello come il giorno, si affrettò verso Capellidoro dicendo:
“Mamma,
la prova è stata troppo dura per la nostra cara Capellidoro!”.
“E’ vero figliuolo e il mio cuore soffre
tanto per lei, ma tu sai che quest’ultima punizione era necessaria per liberarla
per sempre dal giogo del crudele genio della foresta di Lillà.”
Dicendo tali parole la fata toccò con la bacchetta
Capellidoro che ritornò subito in sé e, piangendo in preda ai singhiozzi,
desolata, disse:
“Lasciatemi morire! La mia vita mi è
insopportabile. Non ho più alcuna speranza, non esiste più alcuna felicità per
me. Cari miei amici, presto sarò accanto a voi!”.
“Capellidoro, cara Capellidoro , i tuoi
amici vivono e ti vogliono bene. Io sono BuonaCerva e lui è mio figlio BelGatto.
Lo stregone malvagio della Foresta di Lillà, approfittando della negligenza di
mio figlio, si è impadronito di noi e ci ha dato l’aspetto sotto il quale ci
hai conosciuti. Non potevamo tornare al nostro aspetto originale fino a quando
tu avessi colto la rosa che io sapevo essere il tuo demone malvagio e che
tenevo imprigionato. L’ho piantata lontano dal castello per allontanarlo dalla tua
vista. Sapevo quante disgrazie ti avrebbe portato se lo avessi liberato. Il
cielo mi è testimone che sia io che il mio figlio avremmo preferito vivere
tutta la vita come BuonaCerva e BelGatto, pur di risparmiarti le immane
sofferenze che hai dovuto attraversare. Malgrado le nostre premure, il
pappagallo è arrivato fino a te. Ciò che è avvenuto dopo lo sai benissimo, cara
la mia bambina. Ciò che non sai è quanto abbiamo sofferto noi con te per tutte le
tue lacrime e per la tua solitudine.”
Capellidoro non smetteva di abbracciare e
ringraziare i suoi amici, la fata e il principe. Continuava a fare mille
domande:
“Cos’è
successo alle gazzelle che mi servivano?”.
“Le hai viste, cara Capellidoro, sono
quelle giovani che ti hanno accompagnata fin qui. Loro con noi hanno sofferto
questa triste trasformazione.
“E
con la buona mucca che mi portava latte ogni giorno?”.
“Abbiamo convinto la Regina delle Fate a mandarti
questa piccola consolazione. Anche le parole di incoraggiamento del corvo venivano
sempre da noi.”
“Chi
ha mandato la Tartaruga?”.
“La Regina delle Fate, intenerita dalla tua
sofferenza, tolse al genio della foresta ogni potere su di te, con la
condizione di ottenere da te un’ultima prova di sottomissione, costringendoti a
fare questo lungo e noioso viaggio. Ti ha dato un’ultima punizione facendoti
pensare che io e mio figlio fossimo morti. Ho supplicato la regina delle fate
di risparmiarti quest’ultima prova, ma ella fu irremovibile.”
Capellid’Oro continuava ad ascoltare,
guardare ed abbracciare i suoi amici perduti da tanto tempo e che aveva temuto
fossero scomparsi per sempre. Poi si ricordò di suo padre. BelGatto, ora
PrincipePerfetto, come sempre indovinò i suoi pensieri e lo fece sapere alla
fata, la quale disse:
“Preparati
figliuola a rivedere tuo padre: l’ho informato del nostro arrivo e ti aspetta.
Un istante dopo, Capellidoro si trovò in
una carrozza fatta di perle ed oro. Alla sua destra si trovava la fata, ai suoi
piedi si trovava il principe che la guardava con tenerezza e amore. La carrozza
era trainata da quattro cigni di un bianco splendente, che volavano così veloci
che in cinque minuti arrivarono al castello di re Bonaccione. L’intera corte
era attorno a lui ed aspettava Capellidoro. Quando la carrozza comparve,
esplosero tante grida di gioia che i cigni stavano per perdere la testa e sbagliare
la strada. Il principe che li guidava riuscì a controllarli e fermò la carrozza
davanti alla grande scala d’onore del castello.
Il re corse verso Capellidoro, che saltò
giù dalla carrozza direttamente fra le braccia del suo papà. Restarono per
lungo tempo abbracciati. Tutto il mondo piangeva di gioia.
Quando il re tornò in sé baciò teneramente
le mani della fata che gli aveva riportato la figlia, dopo averla cresciuta e
protetta. Abbracciò il PrincipePerfetto che trovò molto affascinante.
Festeggiarono per otto giorni il ritorno di
Capellidoro. Alla fine di questi otto giorni la fata volle tornare a casa sua. Il
PrincipePerfetto e Capellidoro erano così tristi al pensiero di doversi lasciare,
che la fata e il re promisero che non si sarebbero mai separati. Il re sposò infatti
la fata e Capellidoro sposò il PrincipePerfetto, che tanto per lei ormai restava
per sempre BelGatto della foresta di Lillà.
Brunettina s’impegnava a migliorare e
veniva spesso a trovare Capellidoro. Anche suo marito Arrabbiato divenne più
tranquillo.
Capellidoro visse una vita felice. Diede
alla luce figlie che somigliavano a lei e figli che somigliavano al PrincipePerfetto.
Tutto il mondo voleva bene a loro e tutti attorno a loro erano felici e
contenti.